Un pareggio. Zero a zero. Questa è forse la migliore sintesi di quello che ha prodotto l’incontro in California tra i leader delle due massime potenze mondiali, gli Stati Uniti e la Cina. Sia il presidente americano Joe Biden sia quello cinese Xi Jinping avevano bisogno di un successo in politica estera. Il primo perché tra un anno dovrà affrontare la scadenza elettorale e molti lo mettono in discussione per la sua età avanzata, anche se l’economia va bene e le due guerre in corso vedono in netto vantaggio i suoi alleati, l’Ucraina che sta respingendo con successo l’invasione russa, e Israele, che sta combattendo contro i terroristi di Hamas una guerra spietata che sta costando la vita a migliaia di civili.
Xi Jinping, in un certo senso, è messo peggio: vero che non ha il problema delle elezioni, ma l’economia cinese è di fatto in recessione, dopo tre decenni di prepotente crescita. Inoltre, il fatto di aver accentrato il potere nelle sue mani gli rende molto difficile trovare un capro espiatorio. Già gli ultimi mesi della lotta contro il Covid, con stringenti misure di sicurezza imposte a tutto il paese dallo stesso Xi, hanno visto un indebolimento del consenso al regime della vasta middle class urbana, indispensabile per chi siede nelle stanze del potere di Pechino.
L’incontro è stato lungo e contrassegnato da sorrisi e cordialità, ed è già qualcosa. Di concreto c’è l’accordo per la ripresa delle comunicazioni tra i militari delle due potenze, che nel Mar della Cina Meridionale sono pericolosamente vicini, tanto da rendere possibile uno scontro non voluto.
Per quanto riguarda Taiwan, uno dei principali motivi di frizione, i due “grandi” si sono limitati a ribadire le proprie posizioni. Xi ha parlato esclusivamente di riunificazione “pacifica” mentre Biden ha ripetuto che in caso di un attacco militare cinese all’isola, gli Usa faranno “qualcosa” senza scendere in particolari. In altre parole, i due sono d’accordo a mantenere lo status quo, almeno per il prossimo futuro.
La soluzione militare più volte minacciata da Pechino appare lontana: evidentemente la lezione dell’Ucraina ha fatto riflettere i dirigenti cinesi. Ora si attendono le elezioni presidenziali a Taiwan, che si terranno nel gennaio del 2024, ma non bisogna aspettarsi molto da questa scadenza.
Due dei tre candidati presidenziali – Hou Yu-ih del nazionalista Kuomintang – e Ko Wen-je del Taiwan People’s Party o TPP – hanno deciso di collaborare. Uniti, potrebbero rappresentare una seria sfida per William Lai, attuale vicepresidente e candidato del Democratic People’s Party o DPP. Terry Gou, un ricco imprenditore con forti interessi in Cina, rimane almeno per il momento come terzo (o quarto) candidato.
È vero che un’alleanza tra il Kuomintang e il TPP non avrebbe rivendicazioni indipendentiste – al contrario del DPP, che con la presidente in carica Tsai Ying-wen ha apertamente contestato l’idea cinese della “riunificazione” – ma questo non deve far pensare che siano disposti a cedere a Pechino sul terreno della sovranità. Il Kuomintang, al contrario, nasce come partito cinese nazionalista e, almeno teoricamente, si considera come un pretendente legittimo al governo di una Cina “riunificata”. In altre parole, il partito che fu di Sun Yat-sen e di Chiang Kai-shek vede possibile la “riunificazione” solo se avverrà contemporaneamente alla fine del monopolio comunista sul potere politico.
Ma torniamo a Xi Jinping e Joe Biden. I due leader hanno usato toni che fanno ragionevolmente sperare in un futuro di discussioni e di trattative, anche dure, ma non di confronto militare. Xi ha affermato che “il pianeta Terra è abbastanza grande perché entrambi i paesi abbiano successo”, mentre Biden ha sottolineato l’importanza dei contatti diretti, “in modo da evitare che la competizione non sfoci in un conflitto”.
La “ritirata strategica” dalla Cina del business statunitense – e più in generale occidentale – prosegue. Biden non ha accennato alla possibilità di rimuovere gli ostacoli che nei mesi scorsi sono stati messi alle operazioni delle imprese cinesi negli USA in termini di accesso alle tecnologie più avanzate e agli scambi commerciali tra i due paesi – cose che a Xi Jinping sarebbero piaciute molto. Il presidente americano avrebbe anche chiesto a Xi – secondo l’Associated Press – di “esercitare la sua influenza” sull’Iran affinché eviti di allargare il conflitto di Gaza.
L’accordo per una lotta comune al fetanyl – la micidiale droga sintetica prodotta in Cina ed esportata negli USA attraverso il Messico – è piuttosto vago, una dichiarazione d’intenti alla quale dovrebbero seguire dei fatti.
Nulla di fatto per quanto riguarda possibili collaborazioni nella lotta al cambiamento climatico e nello sviluppo dell’Intelligenza Artificiale, che alcuni osservatori ritenevano possibili.
Quello che il summit sembra aver inaugurato è un periodo di contatti più frequenti, di ricerca di terreni di collaborazione e di sforzi per evitare un confronto militare.
Un miglioramento piccolo rispetto alla situazione attuale ma pur sempre un miglioramento.
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