Pedro Sánchez è per la terza volta presidente del governo. Lunedì della scorsa settimana il Psoe ha presentato il testo di legge sull’amnistia, fulcro dell’accordo e pietra dello scandalo per l’agitato panorama politico spagnolo, mercoledì il discorso del candidato e le dichiarazioni dei gruppi, giovedì gli ultimi interventi e il voto: 179 sì e 171 no, per la maggioranza assoluta in prima votazione. Ieri la presentazione dei ministri, per un governo molto politico, coi punti chiave strettamente controllati dal nucleo duro di Sánchez e in cui è assente Podemos.
Un successo politico del socialista ma qualcosa di più, il segno di una svolta sociale e politica e l’apertura di un periodo difficile e incerto con sul tavolo nodi importanti della democrazia spagnola. Fatti inediti, contraddizioni, ambiguità, paradossi, criticità e incognite segnano questa fase.
Mercoledì scorso, il primo giorno della Sessione d’investitura, si respira l’aria dei grandi momenti, o delle grandi tragedie. Così è per le destre, che da giorni riempiono le piazze. Il parlamento è blindato. All’esterno, gli slogan ostili entrano nelle dirette televisive. Dentro, tuonano le accuse di frode elettorale, da Alberto Nuñez Feijóo, e di golpe da Vox.
Il clima è incendiato da giorni. Un profluvio di appelli contro gli accordi di governo e l’amnistia sono arrivati da giudici, associazioni professionali, studi legali di Madrid, associazioni di polizia — qualcuno inquietante, come il comunicato dell’Aprogc che annuncia di essere disposta a “versare il sangue per difendere la Costituzione”, o il recente appello insurrezionale di un’associazione di militari in congedo, con contro appello dei “militari antifranchisti”.
È stato il richiamo di José María Aznar del due novembre a far scattare l’offensiva, politica, giudiziaria e di piazza. All’inaugurazione del master dell’Istituto di Studi Atlantici, assieme a Feijóo, l’ex presidente popolare e due volte capo del governo ha definito “Il candidato Sánchez un pericolo per la democrazia costituzionale spagnola” e l’amnistia “l’umiliazione più grande in buona parte della secolare storia di Spagna. Una crisi istituzionale straordinariamente grave” davanti alla quale “agire” per impedire la “liquidazione” della costituzione.
Chi può parlare, parli; chi può fare, faccia; chi può aiutare, aiuti; chi può muoversi, si muova”
ha detto Aznar, in quello che è stato accusato dai socialisti di sembrare un “proclama golpista”. “Io sono pienamente rappresentato da Alberto Núñez Feijóo ma non sono disposto a tacere vedendo che la costituzione è a rischio”, ha aggiunto a marcare il territorio nel Partido popular.
La piazza ha risposto. La domenica precedente all’investitura, circa 80 mila persone a Madrid e 200 mila in tutta la Spagna; in decine di migliaia sono tornate sabato nella capitale. La sede nazionale del Psoe di Calle Ferraz è assediata dai manifestanti ogni sera dal 3 novembre, si ripetono scontri e fermi di polizia. Gruppi neo-fascisti organizzati fanno incursioni rapide e si defilano, lasciando gruppi di giovani-bene che provano il brivido del confronto di piazza alla reazione della polizia. La mattina del voto deputati socialisti sono stati aggrediti da ragazzi di estrema destra nei pressi del parlamento.
L’offensiva politica, dopo dichiarazioni di fuoco e ordini del giorno votati nelle assemblee di comuni e autonomie, si concentra sul bastione del Senato, dove il Pp ha la maggioranza assoluta. Le destre hanno riformato con urgenza i regolamenti per prendere il controllo della calendarizzazione dei provvedimenti d’urgenza, e quindi delle misure che fanno parte degli accordi di maggioranza, a partire dalla legge di amnistia.
L’offensiva giudiziaria. Il Consejo general del poder judicial (Cgpj, il Csm spagnolo), scaduto da cinque anni e non rinnovato dalla maggioranza popolare per mantenerne il controllo, ha condannato la legge prima che fosse pubblica. Iniziativa simbolica, l’organo non ha funzione di vaglio preventivo delle leggi, che rappresenta il livello dello scontro tra magistratura e politica.
Il giudice del Tribunale supremo (TS) Manuel García-Castellón, nel pieno delle trattative per il governo, ha indagato diversi politici catalani, fra cui Carles Puigdemont, di terrorismo, nell’ambito dell’inchiesta su Tsunami democratic (il gruppo che organizzò le proteste successive alla condanna dei leader indipendentisti nell’ottobre 2019). Un colpo all’accordo politico, i reati di terrorismo sono esclusi dall’amnistia, che ha creato tensioni nello stesso TS, coi pubblici ministeri che considerano l’accusa inconsistente e annunciano ricorso.
Questo il clima. Il futuro sarà difficile. Ma questa sessione d’investitura è storica, il candidato lo sa e sfodera una delle sue migliori performance, che metterà d’accordo tutto l’ampio spettro che lo appoggia, con qualche distinguo catalano.
Dopo mesi di silenzio, a tutela delle trattative e per non esporsi nel caso di fallimento e ritorno alle urne, Sánchez può finalmente parlare. Esordisce riassumendo il percorso che dal voto porta all’investitura reiterandone la costituzionalità di ogni passaggio. Nell’offensiva retorica, le parole “Costituzione” e “costituzionale” vengono pronunciate quindici volte nei primi due dei 105 minuti di discorso: la risposta di Sánchez alle accuse di illegittimità che vengono dal Partido popular (Pp).
Nel suo intervento è apparso sereno e solido, convinto, responsabile, feroce con l’avversario. La formazione internazionale gli consente di parlare del suo paese inserendolo nel mondo. Le sfide globali come sfide spagnole (crisi climatica, transizione energetica, sicurezza internazionale, rivoluzione tech e mutazione del lavoro, revisionismo sui diritti); l’esperienza spagnola (le scelte davanti alle crisi, le politiche redistributive, la costruzione di alleanze) rivendicate come laboratorio e modello per le sinistre europee, anche davanti all’offensiva dei populismi di destra.
Ha parlato di femminismo, casa, salari, prezzi, rivendicato l’azione dei suoi governi. Sgranato il rosario dei provvedimenti delle giunte del Pp, con o senza Vox, lo smantellamento di servizi sociali e sanitari — in particolare dedicati alle donne, contro la violenza di genere, alla popolazione Lgbt+ — l’espulsione di editoria in catalano dagli acquisti dei sistemi bibliotecari. Ha ricostruito con preoccupazione il percorso del populismo nel mondo — Brexit, il trumpismo, Milei — la sua penetrazione nel “conservatorismo classico”, sino “al Ppe di Manfred Weber”; ha vincolato il Pp a questo fronte; ha datato la scelta del Pp di passare al lato oscuro del populismo, l’uso sistematico della menzogna, alle stragi di Madrid del 2004, col tentativo del governo Aznar di occultare la matrice islamica degli attentati per attribuirli al terrorismo basco, e al reiterare l’ipotesi negli anni successivi, elevando il complottismo al dibattito politico.
È un cambio di paradigma. Per la prima volta in 30 anni il Psoe rompe lo schema “costituzionalista”, prende atto che il consenso democratico tra i due maggiori partiti non c’è. Su quello schema, forgiato contro l’Eta, il Pp ha agito la sua egemonia culturale, imponendo una lettura revisionista della Costituzione. Ma l’Eta non c’è più, e neanche allora il Pp fu fedele al patto, boicottando il processo di pace di Zapatero che portò alla consegna delle armi e allo scioglimento della banda. “Per il Pp è illegittimo ogni governo che non sia il suo”, ha spiegato Sánchez.
Poi —rullo di tamburi, il paese lo aspettava al varco— ha parlato dell’amnistia. Fatta “in nome dell’interesse della Spagna, in difesa della concordia”, “perfettamente legale”, “non un attacco alla costituzione del ’78 ma la dimostrazione della sua forza e vigenza”.
Capisco che non tutti possano condividerla, lo rispetto, ma le circostanze sono quelle che sono e dobbiamo continuare ad avanzare sul sentiero della comprensione e del progresso
ha detto tentando di rassicurare i dubbiosi. Non sarà facile, Sánchez e i socialisti più volte hanno detto no all’amnistia, escluso ogni referendum e mediazione internazionale. Inutile distinguere — a quale proposta di amnistia si rispondeva, in che momento politico, che tipo di consultazione, che figura terza in un confronto che non è tra stati —, le contraddizioni restano e sono usate dalle destre per accusarlo di mentire e essere disposto a tutto per mantenere il potere.
Il cinismo, la brama di potere di Sánchez, sono la spiegazione delle destre per quanto accade. Sánchez afferra il toro per le corna: “Dobbiamo fare di necessità virtù”. Il socialista prova a impossessarsi del relato, la narrazione, lo storytelling, per rovesciarlo. Sembra cinismo ma è necessità democratica dare un governo al paese. E questa necessità ci rende agenti di trasformazione, anch’essa necessaria per il paese. Un inno alla democrazia imperfetta quale unico regime strutturalmente in grado di affrontare il flusso della storia.
Di nuovo le due Spagne, ma non le solite
Governo e amnistia, dunque. Il primo è un inedito, malgrado la politica spagnola si sia già misurata con la fine delle maggioranze assolute. Un governo di minoranza Psoe – Sumar appoggiato da tutti i partiti spagnoli tranne le destre di Pp, Vox e Unión del pueblo Navarro (Upn). Dopo tanto cercarle, il Pp vede materializzate le due Spagne, irriducibilmente contrapposte, ma il risultato non pare lo sperato.
La coalizione dell’investitura comprende partiti e famiglie politiche molto diversi, unisce territori e nazionalità: Psoe, Sumar/Podemos, Esquerra republicana de Catalunya (Erc), Junts, EH Bildu, Partido nacionalista vasco (Pnv), Bloque nacional gallego (Bng) e Coalición canaria (Cc). Una maggioranza che rappresenta la Spagna plurinazionale —riferimento esplicito in tutti gli interventi a favore dell’investitura— e descrive lo stato della destra nazionale spagnola, impossibilitata a stringere alleanze al di fuori di sé.
Il progetto di José María Aznar, affrontare la fine del bipartitismo con la creazione di Vox nella costruzione di una destra maggioritaria rappresentante della “vera Spagna”, è al capolinea. L’ex presidente impone la sua visione ma Vox e la contrapposizione tra nazionalismi periferici e centralista impediscono al Pp accordi coi centrodestra basco e catalano.
Paradosso. Chi più si oppone alla misura di grazia e alla normalizzazione del quadro politico ne trarrà nel medio periodo grande giovamento. Il Pp, quando la tensione sarà scesa, potrà dialogare nuovamente con catalani e baschi e trovare accordi per tornare a quella cosa che l’alleanza con Vox impedisce di ottenere, il governo del paese.
Intanto fa la guerra, pensa alle europee del 2024. Sánchez insegna, resistere è condizione per vincere. Per non essere travolto dal partito Feijóo deve stare al gioco, opposizione frontale contro i traditori della patria, riportando a casa elettori di Vox. A meno di blitz interni, o altre sorprese, dovrebbe restare in sella sino al voto.
Il governo, dunque. Seppur di minoranza è quello del “tutti dentro”, nella sua maggioranza d’investitura, come ha notato Eric Juliana su La Vanguardia. Tutti tranne alcuni. La divisione non è sull’asse destra / sinistra. Junts è destra liberal-populista, i tratti del catalanismo moderato e le ascendenze cattoliche cancellati dalla deriva indipendentista, il Pnv è un partito nazionalista di centro, con una matrice democristiana e il suo bagaglio di valori tra cui lo stato sociale, quella canaria è una coalizione di formazioni autonomiste di centro liberale. Poi le sinistre, nazionaliste e nazionali. Cosa unisce anime tanto diverse? Che riconoscono e affrontano la crisi della Spagna delle autonomie che le destre centraliste negano esistere, descrivendone i sintomi come golpe. Questo è il governo della crisi della Spagna delle Autonomie, a oltre vent’anni dal suo scoppio.
Tanti appoggi, con esigenze diverse e dinamiche proprie, prefigurano un cammino difficile, sotto il fuoco continuo delle opposizioni. Feijóo lo ha definito “un governo a rinnovo mensile”, riferendosi alla volontà dei catalani di subordinare l’appoggio alla continua verifica dell’agenda —che ha tempi però non brevi, come vedremo—.
Tutti dentro, all’insegna della sfiducia reciproca. Non si fidano i catalani tra di loro e del Psoe, non si fida Sánchez di Puigdemont e Oriol Junqueras, non si fidano Yolanda Díaz e Pablo Iglesias, non si fidano tra loro i baschi. Tre i fronti sensibili. La competizione tra indipendentisti catalani, quella tra il Pnv e Bildu, le tensioni a sinistra del Psoe.
Quello catalano è il più critico. Per Puigdemont è l’occasione di chiudere con la latitanza, allontanarsi dalla prima linea magari proseguendo l’impegno europeo, coi galloni di aver fatto la storia della patria e un felice pensionamento. Ma un decennio di propaganda e bugie modificano la percezione della società. Passare da patriota a traditore è un attimo. Gli orfani della secessione hanno già dato un segnale con l’alta astensione nelle ultime elezioni, che ha penalizzato gli indipendentisti e non socialisti e Comuns di Ada Colau.
La competizione tra Erc e Junts è un continuo pericolo. Esempi. Per posizionarsi rispetto a Junts, Erc decide di non firmare la legge sull’amnistia, portando alla presentazione in solitario del Psoe, contrariamente ai piani di Sánchez che voleva dentro tutti i partiti dell’investitura. Poi è toccato a Junts, cui la parola “perdono” è apparsa inaccettabile —realtà e propaganda si scontrano—. Addirittura si ipotizza un’astensione, costringendo Sánchez alla maggioranza semplice in seconda votazione. Riunione di vertice in collegamento con Bruxelles, contatti col segretario organizzativo del Psoe, Santos Cerdán, che ha trattato con Puigdemont per conto di Sánchez. Risultato, Sánchez nella replica non pronuncia la parola, appella alla concordia, non cambia nulla dell’impianto di fondo. Nulla di concreto ma propaganda. Ci saranno mille episodi così, resistere sarà una guerra di nervi.
Il fronte basco, almeno, si agita su questioni concrete. La sinistra nazionalista vede il sorpasso sul Pnv, le tensioni per ora non si riverberano sugli accordi ma si faranno sentire nell’attività legislativa. Più preoccupante è la situazione a sinistra.
I rapporti dentro Sumar sono pessimi, tanto che occorre parlare di Sumar / Podemos. Pablo Iglesias non intende “diluirsi” nella nuova formazione. La segretaria di Podemos è Ione Belarra ma Iglesias, senza incarichi ufficiali è il dominus del partito —come Puigdemont in Junts, dà da pensare, o dovrebbe—, dà la linea dagli studi di Canal Red, la tv on-line che è il suo attuale progetto politico-editoriale, o nei talk politici di altre emittenti. Podemos ha militanza, ridotta ma coesa, con una componente settaria, struttura, verticalissima, il congresso aspetta.
Sumar / Podemos ha avuto cinque ministeri ma nessuno è toccato a Podemos. I viola volevano confermata Irene Montero, ministra di Eguaglianza e madre della legge del Solo sì è sì. La polemica conduzione dei rapporti tra alleati e le difficoltà scaturite dalla legge —responsabilità condivise con ministri socialisti ma universalmente addossate alla sola Montero— hanno determinato il no di Sánchez. “È un grave errore che Pedro Sánchez e Yolanda Díaz abbiano cacciato Podemos dal governo”, ha detto il portavoce Pablo Fernández. Díaz aveva proposto per Podemos il nome del segretario di Stato Nacho Álvarez per un ministero ma i viola hanno respinto l’offerta. “Sembra più una strategia mediatica per giustificare la nostra cacciata dal governo che una proposta per governare in coalizione”, ha risposto Belarra.
Figure ponte tra Sumar e Podemos possono essere Ernest Urtasun, ministro della Cultura, e Pablo Bustinduy, ai Diritti sociali e Consumo. Sono entrambi stimati da Iglesias, il secondo era suo amico personale. Quando, nella deriva di scontro interna, si consumò la rottura tra Iglesias e Iñigo Errejón, Bustinduy, legatissimo a entrambi, abbandonò la politica. Tornato in pubblico durante la campagna di Sumar è forse l’unico per cui non sia stata evocata la categoria del traditore. Iglesias si tiene le mani libere in vista di una corsa in solitaria alle europee —probabilmente l’unico “congresso” che militanti e elettori potranno avere—. Vedremo cosa accadrà, con Podemos sempre più attenta alle relazioni con Erc e Bildu e sempre più lontana da Sumar, a sinistra sarà complicata.
L’unico fronte saldamente controllato da Sánchez è quello interno, con l’opposizione e la contrarietà all’amnistia ridotte in questa fase a rango testimoniale. Il presidente di Castiglia La-Mancia, Emiliano García-Page, unico barone socialista a esprimersi contro l’amnistia, si è inchinato all’unità del partito.
Un governo del presidente
Un rapido accenno all’esecutivo. “Un governo molto politico di alto profilo politico”, con “solide carriere e traiettorie professionali e politiche” e “capacità per ottenere gli accordi e per spiegarli adeguatamente”, lo ha definito Sánchez.
Ventidue ministeri, quattro vicepresidenze, una in più —le molte poltrone sono state stigmatizzate dal Pp—, dodici donne e dieci uomini. Nomi e ministeri rilevanti. Confermate Nadia Calviño, Yolanda Díaz e Teresa Ribera, rispettivamente prima vicepresidente e ministra degli Affari economici, seconda vice, Lavoro e Economia sociale, terza vice, Transizione ecologica e Sfida demografica; la quarta vicepresidenza va alla ministra del Tesoro María Jesús Montero.
Ripetono Fernando Grande Marlaska agli Interni, Margarita Robles alla Difesa, José Manuel Albares agli Esteri e Luis Planas, Ue, Cooperazione e Agricoltura. Pilar Alegría, ministra di Educazione e Sport diventa portavoce del governo. Félix Bolaños conferma il ministero di Presidenza e Rapporti col parlamento e assume anche il portafoglio della Giustizia. Una scelta contestata dal Pp, che pure fa lo stesso unendo Giustizia a altre competenze nei suoi governi regionali —”questa l’idea di separazione dei poteri di Sánchez”, ha commentato la portavoce Cuca Gamarra— e che conferma come Sánchez voglia controllare ogni ambito del difficile percorso dell’amnistia.
Per ora ci limitiamo a segnalare altri due nomi, Mónica García alla Sanità (Sumar) e José Luis Escrivá (Psoe) alla Trasformazione digitale. García, medica della sanità pubblica madrilena, è stata la bestia nera della presidente Isabel Ayuso, prima da sindacalista, contro i tagli e durante la pandemia, poi nell’assemblea autonomica madrilena. Escrivá, economista e già apprezzato ministro di Inclusione e Previdenza sociale, arriva a questo dicastero minore, pronto a prendere il posto di Calviño nel caso questa dovesse andare alla presidenza della Banca europea d’investimenti (Bei).
L’amnistia comporta un altro cambio di paradigma, come nota su Contexto Guillem Martínez —sguardo prezioso sulla mutazione di cultura e prassi politica di Spagna e Catalogna—. L’introduzione ricorda che nella Costituzione “non rientra in un modello di democrazia militante”, come invece accade in altre. Ovverosia, si può essere cittadini spagnoli con pieno diritto anche se si vuole superare l’unità della nazione. Sono gli atti a essere soggetti alla legge e non le idee. In Spagna sono stati chiusi giornali con misure poi dichiarate, troppo tardi, incostituzionali sulla base di questo principio. Nulla che non sia noto, eppure una rivoluzione. Il Psoe si affranca della lettura regressiva del testo che ha caratterizzato il costituzionalismo egemonizzato dal Pp.
Un’amnistia TCproof pensata per l’Europa
Veniamo al testo, modificabile nel percorso. Un lungo preambolo, 16 articoli, due disposizioni addizionali e una finale. Scritto dai socialisti con qualche concessione lessicale agli indipendentisti ma estrema attenzione a produrre una costruzione legislativa pienamente aderente alla costituzione —continui i riferimenti a articoli e princìpi costituzionali, sentenze interpretative, precedenti di amnistie—; un testo inattaccabile al vaglio del Tribunale costituzionale (TC) e a quello della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE), cui inevitabilmente arriverà, posto che sia effettivamente TCproof: il sistema legislativo europeo e i trattati internazionali, aventi valore gerarchico superiore alle norme spagnole, sono il terreno su cui il testo basa pilastri che non trovano solide fondamenta nella Costituzione spagnola.
Inciso. Il conflitto politico spagnolo è già a Bruxelles. Didier Reynders, commissario di giustizia, ha inizialmente sposato i toni del Pp e, ancor prima che fosse presentato, chiesto il testo al governo spagnolo —non al parlamento che sarebbe stato, nel caso, il giusto destinatario—. Madrid ha protestato e il commissario ha abbassato i toni ma intanto il Ppe ha calendarizzato una discussione per oggi, con la drammatica convocazione “Minacce allo stato di diritto in conseguenza dell’accordo di di governo in Spagna”, coi voti di Rinnovare Europa, Conservatori e Riformisti e l’estrema destra di Identità e Democrazia. È l’alleanza che progetta Weber per la prossima legislatura, rompendo l’accordo col Pse. Il dibattito sarà l’inizio dell’offensiva per ridare benzina al progetto dopo i rovesci elettorali spagnolo e polacco, in vista delle europee 2024.
Senza entrare nel dibattito tra costituzionalisti, dalle prime analisi attendibili l’impianto appare solido. Non concede niente, almeno nella redazione degli articoli, alla propaganda indipendentista. Parte dalla sussistenza dei reati commessi e dalla vigenza e rispondenza delle pene emesse. L’amnistia è, nelle parole di Sanchez, “una misura di grazia che ci può aiutare a superare la frattura che si generò il primo ottobre 2017, a continuare a avvicinare posizioni e a persuadere molti catalani che la Spagna è un buon paese per loro. La Catalogna è pronta per un reincontro totale e noi dobbiamo avere il coraggio di fare un passo avanti. Spingere per la convivenza e il perdono —concetto che sciocca gli indipendentisti—, non solo per guadagnare la legislatura ma per un futuro di riconciliazione e concordia”.
La misura abbraccia il periodo tra il primo gennaio 2012 e il 13 novembre 2023. Parte dalla prima consultazione promossa nel 2014 dalla Generalitat, allora guidata da Artur Mas —anch’essa dichiarata illegale ma senza tentativi di impedirla con la forza, Mas non venne accusato di sedizione, imputata per i fatti del 2017 e cancellata nell’ambito della riforma del codice penale promossa dal governo Sánchez, ma giudicato e condannato per disobbedienza commessa da funzionari pubblici a due anni di interdizione e al risarcimento di cinque milioni di euro spesi dalla Generalitat— e comprende l’organizzazione della consultazione, il voto del primo ottobre 2017, la supposta dichiarazione d’indipendenza, il processo, le condanne e le proteste, sino ad oggi.
I beneficiari sono una quindicina di leader indipendentisti, a partire da Puigdemont e Junqueras, su cui puntano tutti i riflettori, ma ci sono altre figure, travolte dalla deriva indipendentista, che ne parresentano il vero problema sociale. Sono 309 persone —non le cinquemila, poi divenute oltre mille, di cui parlavano gli indipendentisti— e 73 agenti polizia. Si tratta di impiegati e dirigenti che hanno seguito le indicazioni dall’alto e di funzionari e agenti dei Mossos de esquadra (la polizia catalana), per la partecipazione al referendum, o della Policía nacional, per le violenze nei seggi referendari.
Vengono amnistiati gli atti determinanti responsabilità penale amministrativa o contabile e quelli con intenzioni rivendicative, anche se non relazionati direttamente con le celebrazioni referendarie ma legati al “denominato conflitto indipendentista”, quindi ogni atto destinato a rivendicare, promuovere o ottenere la secessione.
Sono esclusi dai benefici gli atti dolosi contro persone che abbiano prodotto offese fisiche, psicologiche e morte, i delitti di tortura, quelli di terrorismo, i delitti contro la pace, l’indipendenza dello stato e la difesa nazionale, quelli contro gli interessi finanziari dell’Ue, quelli di razzismo e discriminazione.
Il testo inizia ora il suo percorso. Dovrà essere ammesso dalla presidenza del Congresso e arrivare all’aula per la discussione, e si arriva a ridosso della pausa natalizia. Poi andare al Senato, dove il Pp lo rallenterà, se riesce per altri tre mesi, tornare al Congresso, passare alla firma del re e essere pubblicato nel Boe (la Gazzetta ufficiale spagnola). A questo punto scatterà il ricorso al TC, da parte del Tribunale supremo (che potrebbe anche adire direttamente ala CGUE) —oppure del primo giudice con un caso coinvolto dal provvedimento o delle regioni autonome governate dal Pp, insomma c’è già la fila per ricorrere—. Se giuristi e costituzionalisti del Psoe hanno fatto un buon lavoro, l’ultima parola sarà all’Europa. Quando? Non prima del 2025.
Come si concilia questo con la fretta espressa dagli indipendentisti? Il meccanismo ideato dal Psoe cancella le misure cautelari, consente a Puigdemont e agli altri di tornare senza timore di arresto anche se il testo sarà impugnato.
Il nodo mai affrontato
Sarà un cammino pieno di ostacoli ma una criticità di fondo appare essere ciò che ha connotato tutta la crisi catalana, nelle parole e negli atti degli indipendentisti e del governo centrale di Mariano Rajoy, nel lavoro dei media: la menzogna.
ytali.com — in solitudine fra le testate italiane e in valida ma ridotta compagnia con testate spagnole, su tutte la nostra rivista amica Contexto — ha visto e raccontato quel percorso in maniera diversa dalla lettura corrente. Abbiamo visto uno scontro di nazionalismi volontariamente esasperato da due sistemi di potere (popolare e catalanista) travolti dalla rivolta civile contro la corruzione politica in atto in quegli anni in Spagna, che tanto profondamente avrebbe modificato il panorama politico spagnolo. Quanto accaduto negli ultimi anni, maggioranze, governi, Podemos e Ciudadanos, i governi Sánchez, Sánchez stesso, questo Psoe e i suoi cambi di paradigma, non ci sarebbe stato senza il 15M e gli Indignados—. Abbiamo descritto il Procés verso l’indipendenza come un bluff, e la risposta da parte dello stato come uno stare al gioco, in un chicken game in cui Pp e indipendentisti hanno usato sistematicamente la menzogna, ridotto la politica a propaganda e portato irresponsabilmente la Spagna sul baratro del più grande conflitto istituzionale e politico della sua storia democratica, col solo scopo di perpetuarsi nel potere; un gioco a cui la stampa non si è sottratta, prestandosi anzi entusiasta a sposare l’una o l’altra tesi, rinunciando a quel ruolo che, con trita figura, descriviamo come cane da guardia della democrazia.
Abbiamo raccontato la solerzia con cui i governi nazionali e catalano hanno alzato la tensione e umiliato le garanzie democratiche e politiche; la democrazia umiliata da chi l’invocava, la menzogna del governo Rajoy di ritenere un atto eversivo la celebrazione di un referendum che, dopo la bocciatura del TC, era null’altro che una manifestazione politica di parte, e quella degli indipendentisti di spacciarlo come tale; l’irresponsabile balletto tra Gobierno e Govern; la grande truffa di una Dichiarazione unilaterale d’indipendenza mai avvenuta, con un preambolo non sottoposto a voto di un’ordine del giorno che si limitava a impegnare il Parlament affinché un giorno la dichiarasse e —mentre neanche la bandiera spagnola mai veniva ammainata dal palazzo della Generalitat—; lo sproposito di descrivere questo balletto della propaganda come sedizione.
Menzogne che restano. Le propagande hanno costruito totem inattaccabili (golpe, invasioni spagnole, dichiarazioni d’indipendenza). Di quei tempi di delirio, in cui le classi dirigenti portarono il paese sull’abisso —e fu la cittadinanza a salvarlo rifiutando in ogni momento la violenza in cui il paese sarebbe potuto sprofondare e che qualcuno cercava—, mancano ancora l’analisi e il giudizio politico, una presa di coscienza.
Un’ambiguità che incombe su presente e futuro. La suprema criticità, non bastassero le altre, quella non detta. Menzogne e propaganda, sono parte degli strumenti della politica. Pedro Sánchez è convinto di riuscire a gestire l’ambiguità, di surfare sulla menzogna riuscendola a gestire. Servirà molta arte della politica per riuscire a portare a compimento un percorso necessario per la Spagna.
Immagine di anteprima, Sánchez appena eletto nel dibattito d’investitura; fonte Congreso de los diputados
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