Correva l’anno 2016. Il 13 luglio, a tre settimane dal voto referendario che aveva decretato la Brexit, David Cameron si era dimesso dalla carica di primo ministro britannico. Criticato dalla destra del suo partito perché si era speso per tenere il Regno Unito nell’Unione Europea e dagli europeisti di entrambi gli schieramenti per aver permesso – attraverso una pessima gestione del referendum – che invece ne uscisse, si era ritirato dall’attività politica. Ora, a distanza di sette anni e mezzo, rientra nel gioco della politica attiva come ministro degli esteri del governo capeggiato da Rishi Sunak (il quarto ad aver varcato la soglia di Downing Street n. 10 dopo le dimissioni di Cameron). Se in Italia siamo abituati fin dai tempi della prima repubblica a ex presidenti del consiglio che ricoprono ruoli sia di governo che di opposizione (e anche di leader di partiti vecchi, nuovi o personali), la tradizione è molto diversa Oltremanica. L’ultimo prima di Cameron era stato un altro conservatore, Alec Douglas-Home: sconfitto alle elezioni del 1964 dopo un solo anno di governo (aveva sostituito in corsa Macmillan, dimessosi per problemi di salute), aveva lasciato la leardership del partito l’anno successivo ma era comunque rimasto attivo come ministro ombra ed era poi rientrato nel governo Heath. Curiosamente anche Douglas-Home – come Cameron – aveva assunto il ruolo di ministro degli esteri in una legislatura che peraltro avrebbe portato la Gran Bretagna, nel 1973, a entrare nella Comunità Europea.
Cameron invece, dopo la batosta della Brexit, si era ritirato dalla politica attiva, difendendo comunque la sua scelta di aver permesso il referendum, da lui ritenuto “inevitabile”. A lui sono succeduti ben quattro primi ministri (tutti conservatori). Con i primi tre si è assistito a un progressivo spostamento a destra, da May a Johnson, fino all’imbarazzante Truss. Soltanto con l’ultimo, il primo ministro in carica, Sunak, il partito ha invertito la rotta riorientandosi verso il centro, pur annoverando nella compagine ministeriale vari esponenti della destra del partito. Tra questi rientra certamente Suella Braverman, ministra degli interni, spesso fautrice di posizioni controverse.
Il rimpasto di questi giorni è scaturito proprio dalla scelta del primo ministro di allontanare quest’ultima, sostituendola con il ministro degli esteri, James Cleverly (a cui è subentrato appunto Cameron). Braverman, grande sostenitrice del leave nel referendum sulla Brexit e candidatasi alla leadership del partito dopo la cacciata di Johnson, aveva trovato pochi consensi, ma era stata nominata ministro degli interni dalla leader prescelta, Liz Truss. Dimessasi (furbescamente?) dal governo criticando Truss poche ore prima della caduta di questa, era poi stata rinominata agli Interni anche da Sunak. Tuttavia, in un articolo scritto sul The Times l’8 novembre, ha apertamente criticato le forze dell’ordine di “playing favourites” per un atteggiamento – a suo dire – duro nei confronti dei manifestanti di destra e tollerante verso i manifestanti pro-Palestina, da lei definiti “mobs”, “Islamists” and “hate marchers”. Anche il primo ministro era contrario a una manifestazione in favore del popolo palestinese ritenendola “irrispettosa” verso Israele; inoltre riteneva inopportuno che si tenesse lo stesso giorno in cui si celebrava l’armistizio della Prima guerra mondiale e si commemoravano i caduti in tutte le guerre. Tuttavia aveva accettato la decisione di Scotland Yard di autorizzarla. Braverman invece si era scagliata contro tale decisione, contribuendo certamente a infiammare gli animi: il risultato sono stati scontri proprio fra la polizia ed estremisti di destra.
Può darsi che il proprio licenziamento non sia sgradito a Braverman, che così può affermarsi come una delle rappresentanti più autoritarie di quell’ala destra del partito conservatore che certamente sta affilando i coltelli per la corsa alla leadership nel caso (probabile) in cui Sunak perda le prossime elezioni. Esse si dovranno tenere entro il termine massimo del 28 gennaio 2025, ma avranno luogo presumibilmente entro fine 2024: forse in ottobre, ma possibilmente anche prima, se tensioni all’interno del partito conservatore rendessero la posizione di Sunak intenibile.
Il rimpasto di questi giorni cerca anche di arginare il progressivo crollo di consensi nei confronti del governo, plasticamente dimostrato da una serie di sconfitte in elezioni suppletive (nelle ultime, tenutesi il 19 ottobre, i laburisti hanno vinto entrambi i seggi, in Tamworth e Mid-Bedfordshire, ribaltando le solidissime maggioranze conservatrici che erano emerse nelle elezioni del 2019). La distanza dal partito laburista, che da più di tre anni, con la leadership di Starmer, ha abbandonato la sinistra-sinistra di Corbyn per caratterizzarsi come partito di centro-sinistra, al momento sembra incolmabile: secondo un recente sondaggio di YouGov/Times, infatti, il gap è attualmente di ben 24 punti percentuali, 47 a 23 per cento (tra coloro che hanno espresso un’intenzione di voto).
La mossa di Sunak pare dunque disperata, e non è detto che porti i frutti sperati. Se è vero che da un lato può essere riconquistato qualche voto di centro, è altrettanto vero che possono essere persi voti di destra (è comunque sempre attivo il partito Reform UK, erede del Brexit Party, che conta un sostegno dell 7-8 per cento e che può intercettare i voti in uscita dalla destra dei Tories). Sunak, in pratica, ha scelto di abbandonare il “red wall”, ovvero qulla fascia di collegi del Nord che, tradizionalmente laburisti ma solidamente a favore della Brexit, nel 2019 si erano schierati per i conservatori di destra, ma che negli ultimi tempi stanno tornando indietro; dando quei seggi per (quasi) perduti, il primo ministro punta a difendere quelli del “blue wall”, ovvero quelli moderati del Sud del paese, i cui elettori sono disgustati del conservatrismo populista alla Braverman e potrebbero quindi di abbandonare a loro volta i conservatori, schierandosi con i liberal democratici.
Resta da vedere poi quanto l’immagine di Cameron abbia retto al clamoroso fallimento nel referendum del 2016 e alle critiche che egli ha subito per l’attività degli ultimi anni. Un sondaggio Ipsos ha rilevato come, se pure il pubblico ha apprezzato il licenziamento di Braverman (70 per cento di favorevoli), solo il 35 per cento abbia un’opinione positiva della nomina di Cameron (il 46 per cento ha un’opinione negativa, il 13 per cento non sa). Divenuto lobbista, Cameron è stato infatti coinvolto nello scandalo di Greensill Capital, una finanziaria poi fallita, il cui titolare è ancora sotto processo in vari paesi. Cameron si era molto speso a favore di Greensill, contattando ripetutamente membri del governo incluso Sunak, che allora era Cancelliere (ministro dell’economia). L’indagine da parte del Treasury select committee non ha rivelato illeciti da parte di Cameron, anche se ha segnalato un comprtamento “inappropriato” e una “significant lack of judgement” in una vicenda che probabilmente costerà miliardi ai contribuenti. Altra critica che viene rivolta a Cameron è quella di aver tenuto rapporti troppo stretti con la Cina, non solo da primo ministro (aveva parlato di “golden era” all’indomani di un incontro con Xi Jinping) ma anche dopo, avendo sostenuto i progetti cinesi sulla Belt and Road Initiative (la “nuova via della seta”) specialmente per quanto riguarda gli investimenti infrastrutturali nel porto di Colombo (Sri Lanka).
Cameron è stato nominato in fretta e furia Lord per consentirgli di assumere la carica di ministro in quanto nel Regno Unito i membri del governo possono essere scelti solo fra i membri del Parlamento, in genere della Camera dei Comuni, più raramente della non elettiva Camera dei Lord. Rispetto ai suoi predecessori, egli si pone indubbiamente come figura più istituzionale e per questo più “tranquillizzante” per i partner occidentali, come ha sottolineato Bill Emmott. Resta da vedere però quale sia l’effetto sul fronte interno, calcolando che Sunak si era da sempre presentato come figura di discontinuità rispetto a tutti i predecessori e ora finisce invece per legarsi al passato.
Secondo il sondaggio citato all’inizio, il 54 per cento degli intervistati ora pensa che la Gran Bretagna abbia commesso un errore a lasciare l’Unione Europea, contro un 33 per cento ancora convinto della giustezza della decisione (e un 12 per cento di “don’t know”). Insomma, sta prendendo campo un sentimento di “Bregret”, per sottolineare il rimpianto (regret) per quanto accaduto nel 2016. La compagine di governo attuale conta due ministri di peso (Cameron, appunto, e Jeremy Hunt, ministro dell’economia) che erano stati sostenitori del remain al referendum, ma è impensabile che nel breve termine ci siano cambiamenti di rilievo negli accordi sull’uscita. Al momento non è pensabile un nuovo referendum neppure in caso di vittoria laburista, il prossimo anno, e lo stesso Starmer si tiene ben lontano anche solo dall’ipotizzare un’eventualità del genere.
A inizio settembre il governo inglese e la commissione europea hanno raggiunto un accordo di (ri)associazione al programma quadro europeo Horizon, che finanzia i progetti di ricerca e innovazione con un budget di quasi cento miliardi di euro per il periodo 2021-27. Se non è prevedibile un rientro del Regno Unito nell’Unione Europea nel breve o medio termine, questo accordo sembra far presagire che la direzione futura sarà quella di una versione di Brexit sempre più annacquata.
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