Raramente abbiamo associato due personaggi più diversi fra loro. Eppure, Abebe Bikila e Juan Román Riquelme una cosa in comune ce l’hanno. Si tratta di un aspetto essenziale. Il maratoneta etiope, già membro della Guardia Imperiale del Negus, che vinse a Roma il 10 settembre del ’60 e si ripeté quattro anni dopo a Tokyo, era il simbolo dell’emancipazione dell’Africa dal dominio europeo, nell’anno in cui il processo di decolonizzazione era giunto all’apice e si pensava, ingenuamente, che potesse aprirsi una nuova epoca di pace e prosperità per un continente che per quasi un secolo avevamo umiliato e depredato. Oltretutto, erano trascorsi appena venticinque anni dalla sera in cui Mussolini aveva proclamato l’inizio della Guerra d’Abissinia, con il tristemente celebre motto: “Abbiamo pazientato quarant’anni: ora basta!”.
Lo adottammo subito quel fuoriclasse di colore che correva scalzo nel tramonto della Capitale, con le sue speranze, i suoi sogni e una voglia di riscatto senza confini. La sua impresa divenne anche la nostra, lo sostenemmo come se fosse italiano, ci schierammo dalla sua parte anche per tentare di ripulirci la coscienza coloniale e l’appoggio indiscriminato che le avevamo fornito, ne apprezzammo la classe e la mitezza e lo accogliemmo al traguardo con una gioia bambina che non brillava nei nostri occhi da decenni.
Mezzo secolo fa, la favola di Bikila si concluse in maniera atroce, a soli quarantuno anni, come se quell’apostolo della nonviolenza e dell’incontro fra i popoli avesse esaurito la propria missione terrena. Se n’è andato troppo presto, assai prima di diventare una star. Oggi le televisioni di tutto il mondo se lo contenderebbero, trasformandolo in un divo dei palinsesti e in un ospite fisso di ogni genere di show. Ci ha lasciato prima di diventare tutto questo, prima dell’avvento del consumismo sfrenato, prima del nuovo colonialismo legato alla globalizzazione senza regole, prima dell’abisso. È stato il faro di una stagione di meraviglia spontanea e colma d’incanto e per questo gli vorremo sempre bene, al pari della sua corsa cadenzata, delle sue movenze e del suo volto al traguardo, sotto l’Arco di Costantino: la vittoria dell’Africa e della sua bellezza contro ogni fascismo. Se dovessimo individuare il momento esatto in cui molti italiani si sono tolti anche mentalmente la camicia nera per indossare l’abito della democrazia, non avremmo dubbi a scegliere il trionfo di Bikila. Oggi quei ricordi sono sbiaditi, la memoria è andata perduta e nuovi demoni sono comparsi all’orizzonte. Fatto sta che Bikila c’è stato e nessuna forma di prepotenza e sopraffazione contemporanea potrà mai cancellarne la grandezza.
Juan Román Riquelme costituisce, invece, un rivoluzionario argentino, il degno erede di Maradona, almeno per quanto concerne la battaglia fuori dal campo. Dotato di un talento infinito, è sempre stato un capopopolo. E ora che è diventato presidente del Boca Juniors, sconfiggendo l’ex numero uno degli xeneizes, Mauricio Macri, per anni presidente non solo del club ma della stessa Argentina e adesso sostenitore dell’ultraliberista Milei, non c’è dubbio che si trasformerà nel baluardo dell’opposizione a un personaggio che ha già annunciato una serie di misure che faranno sprofondare il Paese nel baratro.
È significativo constatare che esista tuttora un mondo dello sport che dice no. Ci restituisce fiducia e orgoglio questa rinnovata partecipazione popolare, stretta intorno a uno dei simboli dell’Argentina democratica, caposaldo dell’anima combattente di una Nazione che non si è arresa ai generali capeggiati da Videla e difficilmente si arrenderà a chi vorrebbe smantellare ogni forma di solidarietà e di giustizia sociale.
Riquelme è stato un condottiero ovunque, compresa la socialista città di Barcellona, prima di tornare a prendersi cura della sua gente, della sua Bombonera, del suo universo politico, civile e valoriale e delle sue aspirazioni egualitarie. Lui, figlio del maradonismo più autentico, ora ha la possibilità di ergersi a punto di riferimento per chiunque non si rassegni alla barbarie. Milei lo sa e, non a caso, lo teme assai più di un’opposizione rimasta al palo e bisognosa di riorganizzarsi.
Salutiamo il 2023 con questi esempi di uno sport pulito e dal sapore antico. Pur essendo stato un anno difficilissimo, dobbiamo ammettere che questi dodici mesi ci hanno dato tanto.
L’articolo Due icone, di ieri e di oggi, di buon augurio per il 2024 proviene da ytali..