Mauro Ceruti è uno dei rari pensatori del nostro tempo ad avere compreso e raccolto la sfida che ci pone la complessità dei nostri esseri e del nostro mondo. […] Tutta la sua opera è animata dalla preoccupazione di comprendere la complessità umana, cosa che richiede non di isolare l’umano, ma di situarlo nei suoi contesti cosmici, fisici, biologici, sociali, culturali e ormai anche nella comunità di destino planetaria. La sua opera ha stimolato un ampio dibattito internazionale. E il presente volume è testimonianza di questa sua originale influenza in molteplici campi disciplinari.
Con queste parole di Edgar Morin, riportate nella quarta di copertina, è presentato in libreria da Mimesis/Filosofia il volume La danza della complessità, che Luisa Damiano e Francesco Bellusci, a vario titolo già suoi allievi e ora collaboratori preziosi, hanno curato in occasione del settantesimo compleanno di Mauro Ceruti, filosofo e teorico del pensiero complesso e grande organizzatore internazionale, da circa quarant’anni, dei percorsi e dei dibattiti interdisciplinari sull’epistemologia della complessità, che caratterizza le forme del pensiero oggi necessarie per una lettura della condizione umana e, insieme, delle derive della storia e dell’evoluzione planetaria ad essa intrecciate.
Nel libro, i curatori hanno raccolto i contributi d’analisi e le testimonianze di debito scientifico e formativo che tanti studiosi, colleghi, politici e amici (vedi indice) hanno intrecciato e intrecciano con l’insegnamento e la ricerca che Mauro Ceruti, con inesausta generosità, ha proposto dalle cattedre universitarie che ha ricoperto, che ha discusso nelle numerosissime occasioni di confronto che ha organizzato o a cui ha partecipato e che ha pubblicato in più di una ventina di libri, spesso tradotti nelle più importanti lingue europee e no.
Scrivono i curatori:
La costellazione di sinergie, di scambi, di rapporti, testimoniata in questo volume, attesta come la filosofia della complessità (e il suo “oracolo” epistemologico principale: il costruttivismo) abbia avuto, a partire dalla fine del secolo scorso, grazie proprio all’impulso di Ceruti, una capacità di disseminazione, di fecondazione e di penetrazione nei diversi territori della cultura (dalla psicoterapia alla pedagogia, dalle scienze dell’organizzazione all’economia, dall’estetica alla critica letteraria, dall’antropologia alla sociologia fino alla politica…) pari a quella avuta, a metà del secolo scorso, dallo strutturalismo. È anche la dimostrazione che è la vita, nella varietà e nella contingenza di ocсаsioni e di incontri che offre, a condurre alla scoperta e all’esperienza della complessità. La dimostrazione che tutto ciò che noi percepiamo, pensiamo, immaginiamo è biografico….
Pertanto, il libro La danza della complessità – dialoghi con la filosofia di Mauro Ceruti, lungi dall’essere un solo un testo di omaggio intellettuale, si propone come un meraviglioso e articolato portolano per navigare, in ogni direzione e secondo ogni mappa cognitiva, nella complessità della condizione umana contemporanea, immersa, da recrudescenze di guerre totali, da crisi pandemiche non controllabili e da disastri ambientali che paiono irreversibili, in una grande crisi evolutiva che coinvolge l’intero ecosistema planetario.
Per presentare questo volume ytali pubblica qui una delle sue importanti “Aperture” e si offre a promuovere e ospitare continuativamente nei propri spazi la riflessione sul destino intrecciato dell’umanità e del pianeta che i contributi del libro pongono con urgenza all’ordine del giorno.
Cose future sono già qui
Qohélet/Ceronetti
1. 1984-2023
Sempre di questo: di cose future già qui, si è trattato, in tutto questo tempo. Di possibilità inattese. Origini di storie a venire. Dentro più ampie interazioni generative, umane e non umane, piccole e grandi. Così è sempre stato, e continua a essere oggi, nell’ormai non più breve storia di questo vasto e variegato noi, dal bel nome di battaglia sfida della complessità, che si raccoglie a salutare un passaggio saliente, oltre i ruoli universitari “canonici”, del suo riconosciuto timoniere: il tracciatore di rotte, ancor prima. L’umanista appassionato, l’inesausto promotore culturale.
L’amico fraterno Mauro, anzitutto. Fraterno in pensieri, affetti, avventure politico-culturali, lungo questi quasi quarant’anni, quanti ne sono ormai trascorsi dalla venuta al mondo di quella sfida, con il convegno internazionale milanese del 1984, intitolato appunto “La sfida della complessità” (Bocchi, Ceruti, 1985). Al quale ebbi la fortuna di approdare, fresco di stampa, se così si può dire, del mio primo libro, Il paradigma biosociale (Manghi, 1984). Rimanendo da allora felicemente impigliato nella rete di vicende che ne sarebbero seguite.
Amico fraterno e maestro, non posso non aggiungere, pur nella sua più giovane età. Maestro in rigore del pensiero, inteso come pratica sociale situata e in ascolto sensibile del presente. In ascolto delle cose future già qui, come dicono i titoli dei tre suoi volumi che ho citato implicitamente in apertura: Il vincolo e la possibilità (1986, 2009), La danza che crea (1989), Origini di storie (1993, con l’inseparabile Gianluca). Un trittico percorso da quello che mi viene da definire uno spiccato sentimento del possibile, che ha visto la luce nel fervido decennio fondativo della storia comune che ci ha condotto fin qui.
Oggi, com’è facile constatare, non c’è ambito di pratiche culturali, formative, editoriali, comunicative, di cura e organizzative, nel nostro Paese, che non abbia fatto i conti in vario modo, fosse anche minimale, ma assai più spesso fecondo e creativo, incontrandola sul proprio cammino, con la sfida della complessità. Ma se riavvolgiamo il nastro di questa storia fino a risalire all’origine, non possiamo che provare stupore, nel prendere atto di quanto e cosa ne è scaturito. E intuire con immediatezza quanto e quale sentimento del possibile abbia alimentato via via questa storia.
Vero è che in quella prima metà degli anni Ottanta del secolo passato lo sgretolarsi del “solido” ordine socio-politico-culturale della prima modernità favoriva un desiderio diffuso di nuove matrici di senso, di forme del pensiero, diciamo, “post-classiche”. Di modi nuovi di tenere insieme piani e dati dell’esperienza che sfuggivano sempre più al vaglio delle gabbie concettuali moderniste. Ai loro ostinati dualismi – umano-naturale, soggetto-oggetto, mente-corpo… –, e alle relative frammentazioni disciplinari. E non a caso, infatti, la parola complessità, fino ad allora limitata ai suoi usi generici, oppure a quelli strettamente specialistici, aveva iniziato a circolare, a livello internazionale, con nuove e più ambiziose valenze di significato (Manghi, 2020).
Basti ricordare che nel medesimo anno del seminale incontro milanese ricordato sopra si teneva in Francia (dove l’editrice Seuil aveva già pubblicato i primi due tomi della Méthode moriniana), il convegno “Science et pratique de la compléxité”, mentre in Germania usciva il Soziale Systeme di Niklas Luhmann, nutrito di teoria della complessità, e in Nuovo Messico nasceva il Santa Fe Institute, prestigioso istituto di ricerca teorica sui sistemi complessi.
Ma ciò detto, rimane intatto lo stupore per tutto quello che ha potuto prender corpo da quell’evento di quasi quarant’anni fa. Da quell’azzardata scommessa politico-culturale di due giovani filosofi, legati da una rara amicizia, Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti, sulla possibilità che la parola-sfida complessità fosse capace di incontrare nuove urgenze di senso diffuse per l’intero tessuto sociale e culturale – nuovi sentori, potremmo dire, di cose future già qui.
Un dato di sintesi, che dice molto sul cammino fecondato da quell’origine di storie, è il volume che due anni fa ha raccolto, in appena poche settimane, ben cento impegnati interventi, dagli ambiti e dai saperi più diversi del nostro Paese, per celebrare il centesimo compleanno di Edgar Morin, avventura magistralmente guidata dal tracciatore di rotte Mauro Ceruti (2021). Segno evidente non soltanto della forte influenza del pensiero complesso di Edgar Morin nel nostro Paese, ma anche, e direi soprattutto, della presenza attiva e diffusa, nel nostro Paese, di una vasta ecologia di pratiche – culturali, formative e molto altro ancora –, cresciuta lungo questi anni in relazione generativa con la “nostra” sfida della complessità.
2. Una physis generativa
Non era scontato. Affinché a quel passo originario seguisse tutto il resto, qui evocato a colpo d’occhio, hanno dovuto accadere innumerevoli eventi, piccoli e grandi. Incontri, progetti, svolte e ripartenze. In costante rapporto con svariate vicende culturali italiane e internazionali. Nella più vasta cornice di un mondo in crescente subbuglio, proiettato a velocità vertiginosa verso quella comunità di destino terrestre, composta da umani e non umani, che esso è divenuto in un pugno appena di decenni (Morin, 1993).
Ma c’è voluto anche tanto pensiero. Pensiero dell’interconnessione danzante e creativa sempre in atto fra tutte le “cose”, umane e non umane, piccole e grandi. A fronte di una perdurante dominanza dei riduzionismi e dei dualismi di marca modernista, sviluppati nel solco di più antiche scissioni che risalgono all’origine stessa della storia occidentale: polis e physis, umano e naturale, soggetto e oggetto…
C’è voluto tanto pensiero delle cose future già qui. E in questo, nella cura attenta e rigorosa di questo pensiero, un pensiero della complessità animato dal sentimento del possibile, l’opera di Mauro Ceruti è stata con ogni evidenza decisiva. Decisiva specialmente, vorrei qui sottolineare, scegliendone un motivo concettuale soltanto, ma un motivo che a me pare essenziale, nella trama d’insieme – decisiva specialmente, dicevo, per quanto ci ha insegnato intorno al rigenerarsi incessante del possibile nel cuore stesso della storia naturale. Nella logica vivente della physis: ancor prima, è sottinteso, che nei suoi pur peculiari sviluppi antropici. I quali non cessano in nessun momento di danzare, che ne siamo consapevoli o no, ai ritmi creaturali venuti al mondo quattro miliardi di anni fa, anche nelle loro più sofisticate costruzioni simboliche astratto-formali.
Mauro l’ha messo in luce con acume analitico ed eleganza argomentativa, anzitutto, nei suoi corposi studi “piagetiani”, evidenziando il «radicamento endogeno, “all’ingiù”», ovvero nelle «dinamiche di organizzazione dell’organismo», come scriveva nella Danza che crea, delle «matrici costruttive della conoscenza logico-matematica» (Ceruti, 1989, p. 117).
Non si comprenderebbe, credo, l’originalità del Mauro Ceruti filosofo della scienza, dell’educazione, dell’Europa, dell’“umanesimo rigenerato” e, di recente, delle sorprendenti encicliche “francescane” di papa Bergoglio, come pure il Mauro Ceruti tracciatore di rotte, senza cogliere questa sua profonda attenzione all’irriducibile creatività del tempo vivente, inclusivo a pieno titolo dell’umano in ogni sua espressione: affettiva, sociale, politica, culturale.
Un’attenzione che data dalle origini stesse della sua vita di studioso (penso qui ovviamente al volume del 1981, Disordine e costruzione, con Gianluca Bocchi), variamente affinata attraverso numerosi incontri: con l’evoluzionismo post-darwiniano, con i modelli di emergenza dell’ordine dal disordine e dal “caso”, con la biologia e la neocibernetica dell’autopoiesis, con la teoria delle “strutture dissipative”, e molti altri ancora, sempre insieme personali e intellettuali. Affinata soprattutto, ancor prima e in modo speciale, nell’incontro con la formidabile impresa enciclopedica di Edgar Morin, eletto a maestro per eccellenza di pensiero, in un rapporto unico, eccezionalmente fecondo, di profonda amicizia e di filiazione intellettuale.
Tale attenzione privilegiata verso il radicamento del possibile nella storia naturale è espressa con chiarezza nel suo libro-intervista del 2018, Il tempo della complessità, dove alla domanda su quale egli consideri «l’aspetto più caratteristico delle immagini della natura e della storia» che emerge dai suoi studi, risponde con queste parole:
È il fatto che l’universo del possibile si rigenera ricorrentemente nel corso della storia naturale, in modo discontinuo e imprevedibile. Si è delineata l’idea di una storia naturale delle possibilità […] che […] conduce a un’interpretazione delle leggi e delle regolarità non quali necessità predeterminate e atemporali, bensì quali vincoli risultanti da una storia che è creatrice di nuove forme. (Ceruti, 2018, p. 117)
Tempo della physis, dunque, come tempo generativo, morfogenetico, popolato di eventi unici e singolari che aprono varchi evolutivi imprevisti. Dialogica processuale unitaria di sempre nuove alleanze tra ripetizioni e singolarità, regolarità e unicità, vincoli e possibilità. Tempo-possibilità, sottratto al mero e cieco scontrarsi della necessità e del caso, quale proposto nella celebre formula di Jacques Monod, emblema per molti versi dell’ethos scientifico modernista. Dove l’umano è privo di ogni legame concreto con il terrestre: privo, in altre parole, di ogni «radicamento all’ingiù». E dove ciò che è accaduto non appare come una realtà possibile, ma come una realtà deterministicamente necessitata da condizioni precedenti e sottostanti. Con la logica conseguenza di ridurre l’avventura scientifica alla sola ricerca di tali condizioni, precedenti e sottostanti. Ovvero, leggiamo di nuovo nel Tempo della complessità, alla ricerca delle concatenazioni necessarie e sufficienti in grado di spiegare come sia accaduto ciò che era inevitabile che accadesse. Con lo sguardo del presente, questo atteggiamento riscrive la storia concatenando i suoi eventi, le sue soglie, le sue svolte, in una progressione lineare e continua, che rende immutabili ed eterne la coerenza e la logica del presente. Henri Bergson definì questo atteggiamento come guidato dal “moto retrogrado del vero”. (Ceruti, 2018, p. 118)
Non si tratta, beninteso, di sostituire la scienza della necessità con quella della possibilità, ma di combinarle in una figurazione unitaria altra – complessa –, per la quale «ciò che è accaduto sarebbe potuto andare diversamente: le condizioni che lo hanno generato saranno forse necessarie, ma senz’altro non sufficienti» (ivi, p. 118, corsivo mio). O per dirla con la sottile ironia dell’Uomo senza qualità:
Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente che gli stipiti sono duri: questa massima alla quale il vecchio professore si era sempre attenuto è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o la talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, pensa: be’, probabilmente potrebbe anche esser diversa. (Musil, 1930, trad. it p. 12)
3. 2023-…
Di senso della realtà, beninteso, abbiamo oggi più che mai bisogno. Né devo dirlo a te, Mauro carissimo, maestro di senso della possibilità, o come ho detto qui, sentimento del possibile, e però mai di un possibile da utopia disincarnata, disancorata dalla concretezza dei vincoli che del possibile sono condizione essenziale. Della relazione che, ci piaccia o no, viene comunque prima, per dirla con Gregory Bateson (1979).
Ne abbiamo più che mai bisogno, di senso di realtà, in questo XXI secolo inaugurato da traumi collettivi in sequenza, di portata planetaria, aggrovigliati l’uno nell’altro: l’11 settembre, il biennio nero del finanzcapitalismo, la prima pandemia planetaria, la guerra d’Ucraina e l’addensarsi di incubi nucleari; mentre non cessano di aggravarsi gli effetti distruttivi del Nouveau régime climatico (Latour, 2017) che la Terra si è data in appena un paio di secoli, mutando bruscamente statuto geologico dopo le migliaia d’anni di Olocene.
In questo vertiginoso 2023, così tanto diverso da quel “nostro” 1984, gli stipiti contro i quali andiamo sbattendo dolorosamente, per tornare all’immagine musiliana, sono ormai diffusi ovunque, e la loro durezza è indiscutibile. Anzitutto per gli esclusi, i discriminati e gli oppressi di ogni genere, umani e non umani. Imponendoci di saper ascoltare, come leggiamo nella Laudato si’, «tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri» (Ls, 49). Di saperci smarcare sempre più dalle inerziali abitudini di pensiero e d’azione che a lungo ci hanno resi sordi a quel duplice grido, e alla sua matrice “ecologicamente” unitaria. Insensibili all’urgenza, come scrivi nel tuo puntuale commento all’enciclica, di «ripensare allo stesso tempo le relazioni umane e la relazione degli uomini con la natura» (Ceruti, 2020, p. 92).
Ma se di tanto senso della realtà abbiamo bisogno, per rendere visibile quanto ci è stato invisibile e indifferente così tanto a lungo, è allo stesso tempo di senso della possibilità, che abbiamo quanto mai bisogno. Di quel sentimento del possibile – «un piede nel presente e uno nel futuro» (Ceruti, 2018, p. 150) – che consenta di risvegliare il senso della realtà dal troppo lungo sonno della ragione modernista.
Abbiamo bisogno, a esser più precisi, di un diverso senso della realtà, inclusivo dell’idea che «ciò che è accaduto sarebbe potuto andare diversamente». Un senso della realtà che a fronte dell’evidenza che «una cosa è com’è» consenta di pensare: «be’, probabilmente potrebbe anche esser diversa». E consenta in tal modo di tentare alleanze generative con le possibilità migliori in atto. Messe al mondo dal concreto e sempre in parte inatteso accadere della «cosa». A partire da quella vasta «cosa» unitaria, ancora largamente impensata nella sua unitas multiplex, che Edgar Morin ci ha insegnato a chiamare comunità di destino terrestre.
Non ci è dato sapere come questo neonato collettivo di umani e non umani evolverà. Ci sono fondate ragioni, come sappiamo, per temere che le barbarie ecologico-sociali che sono in atto oggi in esso – il versante minaccioso delle cose future già qui da saper ascoltare – si facciano più crudeli. Ma è al contempo innegabile, anzitutto, che esso sia una corposa realtà di fatto. Di più: esso è ora anche una realtà sensibilmente vissuta come tale, nella sua portata planetaria, da tutti gli umani della Terra, in seguito al primo sciame pandemico globale, intimamente intrecciato in simultanea con vertiginosi sciami informativi ed emozionali. Primo fatto globale totale della storia umana. Evento traumatico collettivo unico e singolare, che ci ha profondamente trasformati, assai più di quanto ci stiamo rendendo conto, annebbiati come siamo nello sguardo da filtri percettivi obsoleti, formatisi in epoche storiche, e ormai sappiamo anche geologiche, precedenti l’emergere della comunità di destino terrestre.
L’avvento ineludibile, appunto destinale, di questa condizione terrestre, riscrive alla radice l’agenda del possibile. Rendendo visibile come mai prima d’ora la possibilità e l’urgenza insieme di «trasformare il dato di fatto dell’interdipendenza planetaria nel compito di costruire una “civiltà” della Terra» (Ceruti, 2020, p. 93, corsivi miei). E ancora: di trasformare l’ineludibile fraternità di fatto, fra tutti gli umani e tutti i terrestri, nel compito di fare del XXI secolo il «secolo della fraternità» (Ceruti, Bellusci, 2022).
Non hai smesso di insegnarcela, Mauro carissimo, in tutto questo tempo, questa indispensabile adesione al presente, alla «intensità delle relazioni» (Ceruti, 2018, p. 145), di cui esso è fatto da sempre, nella storia dei viventi. Un’adesione che richiede allo stesso tempo curiosità, «capacità esplorativa» (ivi, p. 151), per cercare e saper coltivare possibilità d’esistenza più civili nel concreto dei contesti viventi di cui siamo parte “danzante” – e non più in prefigurazioni astratte da cui ricavare idealisticamente il che fare qui e ora, come nel cosmopolitismo disincarnato della ragione modernista.
Non hai smesso di insegnarcela, questa densa resistenza del presente al passato, e sappiamo che ti toccherà continuare, in altri modi ancora, Mauro carissimo, mentre stai pian piano avviandoti (perdonerai la battuta a chi ha qualche anno più di te…) a diventare “vecchio professore”: consapevole al pari di quello “musiliano” che gli stipiti delle porte sono duri, ma diversamente da quello, curioso di esplorare quel che essi avrebbero potuto essere, e quel che rendono possibile nel presente.
Ti toccherà provare a tracciare altre rotte ancora, amico mio fraterno, perché in questo tempo così pervaso da un crescente sentimento dell’impossibile, con le passioni tristi e i risentimenti che esso alimenta, più che mai preziosa è la tua lezione permanente di sentimento del possibile. Attenta alle oasi di fraternità, direbbe il nostro Edgar (Morin, 2019), in atto e possibili. A partire da quelle che ci è riuscito di coltivare in tutto questo tempo e che continuano ad accompagnarci anche attraverso questo turbolento 2023. In ascolto, come sempre, delle invisibili cose future già qui.
Bibliografia
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Bocchi, G., Ceruti, M. (1993), Origini di storie, Feltrinelli, Milano.
Ceruti, M. (1986), Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano (poi 2009, Raffello Cortina, Milano).
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Ceruti, M. (2018), Il tempo della complessità, Raffello Cortina, Milano.
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Ceruti, M., Bellusci, F. (2022), Il secolo della fraternità, Castelvecchi, Milano.
Latour, B. (2017), Face à Gaïa. Huit conférences sur le Nouveau Régime Climatique, La découverte – Les empêcheurs, Paris (La Sfida di Gaia, Il Nuovo Regime Climatico, Meltemi, Milano, 2020, trad. D. Caristina).
Manghi, S. (1984), Il paradigma biosociale. Dalla sociobiologia all’auto-organizzazione del vivente, Franco Angeli, Milano.
Manghi, S. (2020), “Complessità”, in O. Aime et al., Dizionario teologico interdisciplinare, Edizioni Dehoniane, Bologna, pp. 108-113.
Morin, E. (2019), La fraternité. Porquoi?, Actes du Sud, Paris (La fraternità. Perché?, AVE, Roma, 2029, trad. N. Manghi).
Morin, E., Kern, A.B. (1993), Terre-Patrie, Seuil, Paris (Terra-Patria, Raffaello Cortina, Milano, 1994, trad. S. Lazzari).
Musil, R. (1930), Der Mann ohne Eigenschaften, I, Rowholt Verlag, Berlin (L’uomo senza qualità, I, Einaudi, Torino, 1957, trad. A. Rho, G. Benedetti e L. Castoldi).
Papa Francesco (2015), Laudato si’. Lettera enciclica sulla cura della casa comune, Edizioni Paoline, Milano.
Qohélet o Ecclesiaste (1988), versione e note di Guido Ceronetti, Einaudi, Torino.
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