Si chiama Claudio Bizzarri, veronese, classe 1946. Oggi avrebbe 77 anni anni, ma è invece deceduto a Verona all’età di 73, nell’ottobre 2019.
Alla fine, 54 anni dopo, nel giorno dell’ennesima mesta commemorazione del 12 dicembre 1969, ha un’identità l’uomo, o meglio il ragazzo, all’epoca 23enne, che quel giorno ha messo materialmente la bomba sotto il bancone nel grande salone dal tetto a cupola della Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano, provocando 17 vittime e 88 feriti. Ce n’è voluta, ma all’ultimo, anche se post mortem, è stato individuato. Non è un dettaglio di poco conto.
È Bizzarri, istruito dall’ordinovista Massimiliano Fachini, che ha posato la valigetta nera comprata a Padova ed esplosa alle 16,37 d’un venerdì affollato e fitto di contrattazioni di capi di bestiame, provocando La Strage, definita poi “di Stato”, per le tante implicazioni che hanno avuto e visto i suoi apparati di sicurezza direttamente coinvolti e complici.
Il nome di Bizzarri è contenuto nel freschissimo La tigre e i gelidi mostri. Una verità d’insieme sulle stragi politiche in Italia (Feltrinelli, 19,00 €), da pochi giorni in libreria, scritto da Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin, giornalista d’inchieste il primo, già al Gazzettino di Venezia, scrittore e sociologo il secondo, un trascorso da prosindaco di Mestre nelle giunte comunali di Massimo Cacciari sindaco della città lagunare.
Un’inchiesta nell’inchiesta. Tra carte giudiziarie e fascicoli processuali, atti, verbali, testimonianze, sentenze. Ma anche interviste in presa diretta messe a confronto e a fuoco con le deposizioni rese all’epoca, rintracciando testimoni fuggiti, occultatisi, in sonno da tempo, espatriati. E scovandone di nuovi. Un lavoro lungo, accurato, certosino, senza mai mollare la presa, durato 23 anni. Step by step.
Un work in progress diviso in tre tappe per d’altrettanti libri: La strage. Piazza Fontana. Verità e memorie (2000), La Strage degli innocenti. Perché Piazza Fontana è senza colpevoli (2019), La tigre e i gelidi mostri (2023), editi tutti da Feltrinelli. L’ultima produzione mette in fila tutti gli elementi di un’epoca punteggiata di stragi che, da Piazza Fontana, arrivano alla stazione di Bologna (2 agosto 1980, 85 morti) passando per Piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974, 8 deceduti) e l’attentato al treno Italicus fermato nella galleria di San Benedetto Val di Sambro (4 agosto 1974, 12 vittime), tra dense trame neofasciste, depistaggi, intrecci con i servizi, segreti e deviati, mille opacità e connivenze finalizzate a distorcere il corso delle indagini e la ricerca della verità.
Ma chi è Claudio Bizzarri? Nato a Verona, figlio di un “fascistissimo” impiegato della Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza e Belluno, ha fatto il militare negli Alpini. È conosciuto come “il paracadutista” e indicato anche come “il ragazzo con la camicia nera”. È stato militante di Ordine Nuovo. Nei giorni di Piazza Fontana si è assentato dalla scuola per cinque o sei giorni e alla fidanzata dell’epoca dice d’essere stato a Milano, salvo poi rettificare la confidenza.
I due autori ne ricostruiscono nel dettaglio mosse, frequentazioni, amicizie, legami. Carlo Digilio, ex neofascista di Ordine Nuovo, aveva raccontato invece di aver raccolto la confidenza del reclutatore neofascista mestrino Delfo Zorzi, diventato poi un imprenditore di successo in Giappone, che gli ha confessato d’aver piazzato lui personalmente la bomba nella banca. Ma viene prosciolto dall’accusa.
Bizzarri nel giugno del 1973 fugge in Grecia perché in Italia è accusato di ricostituzione del Partito fascista dal magistrato Vittorio Occorsio, che viene di lì a qualche anno, il 1976, eliminato in un agguato rivendicato da Ordine Nuovo perché ha individuato il filone giusto dell’indagine che potrebbe portare alla fine del gruppo di estrema destra che si ritiene da lui perseguitato.
Il libro contiene diverse altre novità: vi si racconta di come Silvio Ferrari, il neofascista saltato in aria trasportando una bomba sulla Vespa non è morto a causa di uno scoppio improvviso o per difetto del timer, ma è saltato in aria perché questo è stato innescato volontariamente per eliminarlo, forse per le “sue tendenze individualistiche ed estremiste”, come gli attribuiscono gli stessi amici e camerati, oppure perché è diventato un testimone scomodo di incontri inopportuni confidati ad un poliziotto (aveva riconosciuto il capitano Delfino che usciva da un incontro con alcuni esponenti del terrorismo nero, suoi camerati: “Un capro espiatorio opportuno”, lo definiscono i due Autori.
E poi c’è la testimonianza da loro raccolta di Ombretta Giacomazzi, la sua ragazza dell’epoca, che ricostruisce nel dettaglio il contesto dei rapporti del neofascismo veronese, che con quello mestrino e veneziano è il centro della strategia della tensione in Italia.
È una figura singolare, Ombretta [annotano Dianese e Bettin] complice di soggetti capaci di gesti orrendi e di piani feroci e, al tempo stesso, loro vittima. Ragazzina coinvolta e poi travolta da quel meccanismo gelido e infame, riesce tuttavia a sopravvivergli, a trascinarselo addosso e dentro e ciò malgrado a procedere, vivere, crescere.
E infine,
quando avrebbe forse potuto dimenticarsene, e farsi dimenticare definitivamente, tremando ed esitando decide di raccontare la verità che pensa di conoscere. Una violenta e angosciante verità. Una verità necessaria. È la sua verità, certo, in attesa di quanto infine stabiliranno i giudici nei processi che riguarderanno anche il suo racconto. Ma è una verità da ascoltare – chiosano – perché le parole di Ombretta, l’ex ragazza di quegli anni foschi restituiscono diverse figure che non si sottraevano all’idea di commettere una strage per odio politico e fanatismo ideologico e per venale interesse, d soldi e ruoli da acquisire nella struttura di potere occulta che li aveva ingaggiati.
E ancor più nel racconto di questa ragazza
balzano di fronte a noi l’infedeltà della Repubblica e alle sue leggi, a cominciare dalla Costituzione, di uomini dello Stato disposti a tutto, anch’essi per tramare e interpretare il potere come arbitrio, per preparare una piena e palese assunzione di dominio,
osservano Dianese e Bettin. Ovvero il golpe, che è la vera missione e l’obiettivo finale.
E si racconta anche di tutte le presenze neofasciste a Bologna nel giorno della strage, comprese quelle di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, la coppia che ormai una diffusa opinione – anche di sinistra – tende a escludere da un diretto coinvolgimento nella strage, come se non centrasse, frutto di un abbaglio giudiziario: la nera coppia ha invece “offerto diversi alibi rivelatisi falsi”.
Nel libro ci sono tutti i principali protagonisti di quegli anni degli apparati dello Stato, in combutta tra loro, sempre intenti ad occultare, depistare, deviare, infiltrarsi: il capo del Sid Vito Miceli, tessera P2 in tasca, Licio Gelli il suo capo e il capo dell’Ufficio Affari Riservati Federico Umberto D’Amato, il capitano Delfino, questori, vicequestori, tenenti, colonnelli, generali uniti in un’insolita equivoca consorteria che si tiene bordone.
Parlare di ‘stragi politiche’ – scrivono gli Autori – risulta, a nostro parere, più appropriato che parlare di ‘stragi di Stato’ [anche se], beninteso, apparati e settori dello Stato risultano sempre implicati in questa storia, in tutte le stragi. Che, dunque, sono tutte anche stragi di Stato [perché] la strage era voluta, ed era voluta dall’insieme di coloro che hanno concepito quell’operazione.
[E precisano]: Forse non dai livelli politici superiori che avevano comunque approvato la strategia di provocazioni e intimidazioni, che comunque spargeva sangue, destinata a condizionare il quadro politico e la scena pubblica del paese. [E dunque] per questo la natura politica di quelle stragi e di quelle trame va compresa fino in fondo, in radice, perché spiega molte cose di quanto è accaduto dopo e potrebbe accadere ancora.
Insomma, annotano Dianese e Bettin, “non rassicura che la destra italiana – con i suoi politici e i suoi intellettuali – si sia interrogata poco su quegli anni, su quella storia, che le appartiene interamente”. Già, non c’è stata chiarezza, nel mentre
la sinistra ha scavato a fondo nel proprio ‘album di famiglia’, confrontandosi con il terrorismo rosso. Se ha avuto imbarazzi, reticenze o esitazioni all’inizio le ha superate presto e ha messo la difesa della democrazia e della Costituzione al centro del proprio impegno. Non si può dire altrettanto della destra italiana, in particolare di quella di origine fascista e missina.
E come annota Benedetta Tobagi nel suo libro sulla strage di Brescia (Storia di una strage impunita, Einaudi),
nell’‘album di famiglia’ della destra c’è molto da scoprire. L’ambiguità del partito di Almirante non si esaurisce nella condiscendenza verso i giovani picchiatori e le ‘fughe in avanti’ di alcune frange radicali. Alcuni esponenti del partito intrattengono relazioni con soggetti assai più pericolosi. Zone d’ombra che lambiscono il territorio paludoso dei golpe e delle stragi.
Una Destra, che nonostante tutto, è arrivata al governo di questo Paese con molte reticenze, giurando su una Costituzione antifascista ma con ancora molte difficoltà a fare i conti con il suo testo pronunciandone e riconoscendone l’aggettivo. Perché legata a doppio filo con la trama oscura di quella antica e cupa storia a cavallo tra anni Sessanta e Settanta. E che, come scrive Antonio Scurati, autore della poderosa trilogia su M, in Fascismo e Populismo (Bompiani),
chi giunga a governare un Paese da un passato di militanza politica neofascista ha davanti a sé u n doppio bivio. O sceglie definitivamente – attraverso un discorso pubblico, trasparente, dirimente – i nodi che lo avvincono a quel passato oscuro oppure si prepara a revisionare l’intera storia d’Italia tentando di cambiare di segno a quel passato, per gettare su di esso una sedicente nuova luce che neghi e disconosca l’oscurità.
[E conclude]: Poiché il dibattito pubblico mirato a sciogliere i nodi, elaborare nella coscienza collettiva l’oscuro passato fascista e neofascista è completamente mancato, è facile prevedere che verrà battuta la seconda strada, quella del revisionismo fazioso e odioso.
Non manca chi ha definito La tigre e i gelidi mostri non tanto un libro fondamentale quanto un testo “definitivo”. Che fa piazza pulita di oltre di cinquant’anni opachi e deviati rimettendo tutti i puntini al proprio posto. Libro da leggere e studiare. E da cui riaprire, forse, anche, qualche filone di nuova indagine.
Immagine di copertina: L’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura dopo l’attentato del 12 dicembre 1969
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