E così, a ottant’anni, ci ha detto addio anche Antonio “Totonno” Juliano, l’ultimo scugnizzo di una Napoli che non esiste più. Una Napoli che sembrava uscita dal teatro di Eduardo, una Napoli tutt’altro che milionaria, una città straziata dai bombardamenti alleati e sconvolta da una violenza difficile da descrivere a parole. È questo il contesto in cui venne al mondo Juliano, tra fughe nei rifugi e la magnifica insurrezione che avrebbe avuto luogo pochi mesi dopo, nel settembre del ’43, quando l’ex capitale del Sud si ribellò ai nazisti e fu la prima a liberarsi, grazie a una battaglia di popolo che solo lì sarebbe potuta avvenire.
“Totonno” è stato, dunque, un figlio della povertà e della speranza, della voglia di vivere e dello spirito di sacrificio. E lui, che aveva consacrato alla strada e alla rincorsa di qualunque cosa rotolasse sull’asfalto un’infanzia senza agi ma comunque felice, lui, non a caso, doveva tutto a un personaggio singolarissimo che aveva trovato a Napoli il proprio habitat naturale. Il suo nome era Bruno Pesaola, detto il “Petisso”, anima e cuore del Napoli di Sivori e Altafini, che non vinse nulla ma donò al suo pubblico senza eguali una serenità che non provava da tempo.
Nel ’75, stavolta allenati da Luís Vinício, Juliano e compagni sfiorarono anche lo scudetto, ma a tradire la gente di Napoli fu proprio il vecchio Altafini, il “core ‘ngrato” che, nel finale dello scontro diretto (disputato al Comunale di Torino il 6 aprile), castigò i partenopei con una rete delle sue, simbolo dello spirito indomito di quella che all’epoca era la più provinciale fra le grandi. La Napoli sognatrice dovette, pertanto, arrendersi allo squadrone bianconero, già carico di gloria, perpetuando una maledizione che durava ormai da mezzo secolo. E “Totonno”, capitano di quella compagine, trascinatore carismatico e mai arreso nonché autore del gol del momentaneo pareggio, uscì dal campo con un dolore atroce dentro e una voglia di riscatto senza confini. Neanche le intuizioni di un allenatore come Vinício erano riuscite, infatti, a regalare a una terra bella e impossibile la vittoria che attendeva da una vita.
Non è un caso, quindi, che, una volta diventato dirigente, Juliano si fosse messo in testa di dover vincere per forza qualcosa. Lui che, insieme a Mazzola, Rivera e altri senatori azzurri, aveva contribuito a fondare l’AIC (Associazione Italiana Calciatori), lui che incarnava, in tutto e per tutto, il figlio del boom e della rinascita, lui che, pur giocando nel Meridione, aveva disputato tre Mondiali e conquistato gli Europei casalinghi del ’68, lui, approfittando della riapertura delle frontiere, aveva capito di dover far ricorso alle stelle internazionali per portare sotto il Vesuvio un tricolore mai visto e, per questo, desiderato più d’ogni altra cosa. Per riuscirvi, non badò a spese. Prima convinse Ferlaino ad acquistare l’olandese Ruud Krol, icona dell’”Arancia meccanica” di Michels che aveva irradiato gli anni Settanta. Poi si recò a Barcellona e decise che lo scugnizzo di Buenos Aires sarebbe dovuto diventare il faro di una città che lo avrebbe non solo adottato ma accolto come un figlio, coccolato, viziato e, probabilmente, persino danneggiato, perdonandogli i suoi innumerevoli eccessi e un senso di onnipotenza che mal si coniugava con l’attività agonistica. Inutile dire che stiamo parlando di Diego Armando Maradona. Solo uno scugnizzo coe Juliano poteva accettare la sfida, rivedendo in lui quei bambini che correvano per le strade di San Giovanni a Teduccio, prendendo idealmente per mano il fanciullo che era stato e anteponendo il cuore e i sentimenti al denaro o, per meglio dire, ponendo quest’ultimo al servizio di una nobile causa.
Oggi tutto questo non sarebbe più possibile. Potranno nascere altri campioni, pure autentici fenomeni come Messi, ma di Diego ne è nato uno solo e appartiene al Novecento, alla sua dimensione politica e civile, alle sue passioni forti, al suo impegno corale e al suo sentirsi sempre e comunque una comunità in cammino.
Tornando a “Totonno”, non era il classico napoletano caciarone e levantino. Possedeva, al contrario, una sua intima malinconia, una dedizione unica nel suo genere, un desiderio di farcela che andava al di là del talento e una tensione ideale di cui ormai si è perso il seme, e non smise mai di battersi per trasformare le aspirazioni degli ultimi e dei deboli in una meraviglia che accomunasse chiunque.
Per pensare di poter vincere a napoli, difatti, bisogna essere degli incoscienti. Per farcela bisogna essere realmente folli. E Juliano non ha mai rinunciato alla propria appartenenza, al proprio mondo, al proprio universo valoriale. Se avesse accettato di trasferirsi in uno degli squadroni del Nord, parleremmo di lui come una sorta di eroe Nazionale. Essendosi votato alla causa di Napoli, dobbiamo far ricorso all’arte povera che diventa meraviglia, rievocando Totò, o al sant’Alfonso de’ Liguori che compose una delle più celebri canzoni natalizie in dialetto per consentire di cantarla anche agli analfabeti.
Napoli potrà vincere ancora, con i suoi campioni provenienti da ogni angolo del globo, e glielo auguriamo di cuore. Ma uno come Juliano non vestirà più la sua maglia, per il semplice motivo che la sua non è stata una storia ma una favola, il ritratto di una stagione incontaminata, di un tempo in cui il buono per davvero non era un fesso, di giorni puri e colmi d’incanto che appartengono al passato.
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