Era il 29 dicembre del 2013 quando, sciando sulle nevi di Méribel, Michael Schumacher aveva un incidente dal quale, purtroppo, non si è più ripreso. Non conosciamo le sue condizioni di salute, anche se temiamo che se la passi piuttosto male, specie se si considera che da allora non si sono più avute notizie né immagini del campione tedesco che, con la sua classe, aveva illuminato le nostre giornate di ferraristi romantici.
Ora se ne sta lì, nella sua casa meravigliosa casa in Svizzera, assistito dall’amorevole moglie Corinna e dalle poche persone che hanno il permesso di andarlo a trovare, e a noi non restano che i rimpianti.
Guai a speculare sulla vita di un uomo che il prossimo 3 gennaio compirà cinquantacinque anni ma che, di fatto, si è fermato a dieci anni fa, quando la sua esistenza è stata sconvolta da una tragedia dalla quale non si è più ripreso.
Ci è difficile accettare un simile dolore: l’idea che anche un supereroe possa essere fallibile, che la stella che lo ha guidato per tutta la vita possa all’improvviso essersi spenta e che un personaggio che eravamo abituati a veder sfrecciare a oltre trecento chilometri orari a bordo della sua Rossa adesso sia bloccato in un letto.
Tabellone della Ferrari in onore della settima vittoria mondiale di Michael Schumacher
Quarantaquattro anni gli sono bastati per conquistare record incredibili, per vincere una messe di gran premi e titoli iridati, per riportare l’iride a Maranello ventuno anni dopo il trionfo del sudafricano Jody Scheckter nel ’79, per regalarci un quadriennio di emozioni allo stato puro e per ripulire da sé l’immagine di automa che alcuni rivali e una parte della critica gli avevano cucito addosso. Del resto, chiunque abbia avuto la fortuna di conoscere Michael, o anche solo di seguire le cronache sportive che ne raccontavano le imprese, sa che il pregiudizio legato alla sua apparenza robotica fosse, in realtà, dovuto al suo essere meticoloso, alla concentrazione che metteva nel suo lavoro e all’incredibile passione che lo animava. E sa anche che era un vero uomo-squadra, pignolo come nessun altro, sempre desideroso di vincere e migliorarsi, mai presuntuoso ma cosciente della propria fama e del proprio talento, pressoché invincibile quando era in giornata, cioè spesso, e disposto a battersi con la massima grinta contro avversari non meno agguerriti.
In questi dieci anni ci sono mancate la sua timidezza, la sua tenacia e la sua dirompente personalità. Ci è mancato il suo carisma. E mancano, probabilmente, i suoi consigli ai piloti di Maranello che cercano disperatamente di tornare a vincere, a bordo di una monoposto che, ahinoi, non è neanche la lontana parente del bolide che vent’anni fa dominava su ogni pista.
Oggi rispettiamo l’uomo ferito e avvolto da un’aura di mistero, ci stringiamo al dolore dei suoi cari e lasciamo che siano loro a scegliere il da farsi. Mai avremmo immaginato di dover affrontare un tormento del genere: il silenzio del mito, l’assenza, la malinconia struggente di chi lo ha amato e tifato con entusiasmo, il fiume di ricordi che si collegano l’uno all’altro e, infine, l’addio. Perché sappiamo che Michael non tornerà, che non sarà mai più quello di prima e che, difficilmente, lo rivedremo in uno studio televisivo o nel paddock della Ferrari a trepidare per la scuderia che lo ha reso immortale.
Michael ormai appartiene al passato, e mai come stavolta vorremmo avere il potere di tornare indietro nel tempo per goderci fino in fondo quella gioia bambina che all’epoca ci sembrava scontata mentre adesso ci appare un miraggio.
Tremilaseicentocinquantadue giorni, e le parole, in questo caso, non hanno alcun senso.
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