Stefano Rolando, milanese, ha vissuto tra la sua città e Roma, con esperienze e responsabilità nel sistema istituzionale, nel sistema aziendale e nel sistema universitario. Negli anni recenti anche nel quadro di fondazioni culturali e civili. Presidente di varie fondazioni culturali e del Club di Venezia per dieci anni, ha fatto per ytali.com un quadro esauriente su come l’Europa si è avvicinata ai cittadini spiegando i più diversi progetti e ordinamenti legislativi con un processo che ancora continua attraverso la comunicazione. Un percorso che è iniziato nel secondo dopoguerra ai primordi di quell’Europa che oggi è sempre più presente nelle vite di oltre trecento milioni di cittadini nelle più varie sfaccettature delle vita sociale, politica, economica e culturale.
Come si arriva a comunicare da parte di un organismo chiamato Europa (Unione Europea, composta da Commissione, Consiglio e Parlamento, Corte di Giustizia, Banca Centrale oltre ad altre istituzioni ) che appare a volte distante e complicato, spesso criticato quando non rifiutato da rigurgiti nazionalisti presenti in molti dei 28 Paesi che ne fanno parte.
La comunicazione pubblica in Europa si sviluppa oggi in materie specialistiche, conseguenze di un’idea che serve all’interesse generale e alla gente per capire, diversa dalla concezione della comunicazione d’impresa. Tra le molte sfaccettature di tale comunicazione c’è l’idea dei territori e della loro promozione di attrattività, il public branding. In questi ultimi anni mi sono occupato di dare le basi a queste settorialità per occuparmi delle nostre città e dei problemi legati alla loro identità in particolare ciò che riguarda il tema dei confini.
Ci racconti la storia di questa comunicazione comunitaria.
Partiamo dal 1986: si riunisce a Venezia ma anche a Bruxelles, in molte occasioni comunitarie, e nei Paesi che assumono la presidenza di turno dell’UE, sotto il nome di Club di Venezia un comitato che fino a oggi annovera oltre cento meeting che hanno riguardato all’inizio l’Europa a dodici fino a quella di oggi composta da 28 Paesi. La fuoruscita degli inglesi dalla UE, causata da un sordo odio del Paese profondo contro la sua capitale e le grandi città, è inquadrato in un sogno di global player legato a un passato che non è più, spinto da propulsioni verso il nazionalismo con una decisione che aveva contro soprattutto i giovani e gli ambienti urbani legati alle università e all’economia consapevoli di quanti vantaggi la Gran Bretagna abbia avuto dall’appartenenza all’Unione. Gli inglesi sono tuttora nel Club di Venezia perché il nostro organismo è informale, non prende decisioni, non ha una sede, non ha soldi: serve a confrontarsi sulla comunicazione pubblica – materia oggetto di una sorta di gelosie nazionali che non ha mai permesso armonizzazione – aprendo un tavolo di vero scambio. Nel 1985, inizia il mio mandato come direttore generale dell’Informazione, chiamato da Giuliano Amato a Palazzo Chigi. La parte legata alla comunicazione e all’informazione dei cittadini era allora veramente scarsa. Erano quarant’anni che la materia era in naftalina, con minime funzioni di informazione e contatti con l’estero, una comunicazione che invece era presente negli altri Paesi europei, come nel Regno Unito (che possiamo dire abbia vinto le seconda guerra mondiale grazie a un’informazione e comunicazione capillari), mentre Italia e Germania, che avevano provocato e condotto la guerra anche con la propaganda, avevano messo queste funzioni in condizione di assoluto letargo, subalterne alla politica. La pubblica amministrazione nel dopoguerra era composta da funzionari e impiegati ereditati dal ventennio. Intanto la nuova politica democratica esigeva di parlare con i cittadini, così che nel corso del tempo in tutto il mondo occidentale le cose erano cambiate, le informazioni arrivavano ai cittadini in maniera puntuale, da specialisti del settore capaci di dare informazioni corrette e adeguate. Tutto questo forma un’onda che da Francia, Germania, Regno Unito raggiunge in nostro Paese affinchè la promulgazione di ogni legge sia seguita passo passo per essere via via spiegata ai cittadini. L’Europa è stata esempio di una realtà che aveva preso la distanza dalla cultura propagandistica dei tempi di guerra.
Due cose erano accadute. A Milano il vertice dell’UE nel 1985 incentrato sulla dialettica tra la visione di italiani, tedeschi e francesi per quel che riguardava il superamento delle barriere doganali e la necessità di creare un mercato unico interno (le premesse di Schengen e dell’Euro) che vedeva gli inglesi sfavorevoli, lo scontro tra Margaret Thatcher e Mitterrand, Kohl e Craxi fu vinto dagli europei, una speranza che Delors concretizzò creando e progettando l’idea degli Stati Uniti d’Europa. La crisi economica e finanziaria del 2008 e i processi di globalizzazione fermeranno questo processo e oggi abbiamo un’Europa separata e divisa, incerta su quale cammino intraprendere. Per questo aspettiamo le prossime elezioni del prossimo mese di giugno. Il vertice del 1985 aveva anche approvato un secondo dossier importante curato da un parlamentare italiano, Pietro Adonnino, che aveva avuto il compito di preparare il passo successivo e cioè riunificare e conciliare le istituzioni ai cittadini. Un esempio concreto fu la messa in funzione del programma Erasmus (ideato da Sofia Corradi nel 1967 entrò in funzione nel 1987). Da qui partirono altre iniziative, volute da Giuliano Amato, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, quando arrivò sul mio tavolo un dossier con la scritta in rosso ATTUARE, per fare entrare il nostro Paese nel solco della modernità in fatto di informazione e contatto con i cittadini. Oltre trecento dipendenti, molto giovani, si misero al lavoro sulla comunicazione: studiammo i vari programmi europei, che erano più avanti di noi, e verificammo che nei ministeri dei Paesi europei esistevano dipartimenti appositamente formati per la comunicazione, come l’inglese Central Office of Informations, di grande competenza e molto seguito. Tali organismi nei diversi Stati non si erano mai incontrati e confrontati dalla fine della seconda guerra, quindi per oltre quarant’anni. Ognuno trattava le materie come voleva, non era pensabile a questo punto che si creasse una politica comune, perché l’Europa concepita come governo degli stati nazionali e non come Stato unito non permetteva un’armonizzazione sul come si trattano le cose rispetto ai cittadini che sono poi elettori. I delegati s’incontravano in riunioni formali a Bruxelles dove si stava più zitti che parlare. Da qui l’idea di rimettere attorno a un tavolo comune i delegati, giovani com’ero io a quel tempo: lo feci incontrando in Francia il direttore generale del dipartimento che apprezzò l’idea, aspettando le decisioni dei tedeschi e degli inglesi. I tedeschi del Bundespresseamt e gli inglesi del Central Office of Information furono contattati: il collega inglese, che dipendeva dalla signora Thatcher, all’idea di mettere in pratica il nuovo sodalizio, fu scettico. Spiegai che l’organismo non avrebbe preso decisioni, e dissi che l’intendimento era di svolgere le riunioni in una città che apparteneva a tutta Europa: Venezia, la grandezza della storia di questa città sarebbe servita a creare una sorta di neutralità pur nella sua italianità, città che racchiude e possiede tutte le cose che piacciono agli stranieri e agli europei, l’ambiente, la cultura, la cucina, l’arte…. Per convincere l’inglese Taylor annunciai che avremmo potuto ospitare la delegazione all’Hotel Monaco per svolgere gli incontri presso la Fondazione Cini. Il collega inglese riuscì a convincere la Premier, il percorso continuò con i Paesi dell’allora BeNeLux, la Danimarca e con i Paesi che in quegli anni uscivano dalle dittature, Portogallo, Spagna e Grecia. Furono dialoghi informali ma che interessarono molto le istituzioni europee, Parlamento, Commissione e Consiglio che videro in tali incontri l’occasione per confrontarsi come si dice fuori dai denti. Il Club di Venezia iniziò a confrontare le esperienze professionali, tecniche, civili e sociali e mettere le Istituzioni comunitarie in una situazione non di rivendicazione reciproca ma di dialogo. La cosa ebbe un’eco positiva immediata, approvata da molti governi, anche l’Europa mandò il suo rappresentante per l’informazione, Carlo Ripa di Meana. Tali incontri avvennero per dieci anni, poi cambiai occupazione e dal 2001 divenni docente universitario insegnando comunicazione pubblica e politica. Tuttora sono presidente del Club di Venezia, il segretario generale è un funzionario del Consiglio Europeo, Vincenzo Le Voci, che riesce a mettere intorno a un tavolo stabilmente un centinaio di persone, una volta all’anno a Venezia, con il favore del Dipartimento degli Affari Europei della Presidenza del Consiglio. Il Club di Venezia accoglie oggi anche rappresentanti di Università, centri di ricerca ed agenzie che si occupano dello sviluppo della comunicazione soprattutto su scala europea: un luogo dove la competenza e lo scambio e soprattutto l’analisi dei problemi e delle difficoltà è costante, non è legato alla ragione politica del momento ma è retto dal bisogno che i migliaia di dipendenti che in Europa lavorano nel settore mettano insieme esperienze e interpretazione di queste esperienze.
Come è cambiata negli anni la comunicazione, come si riesce a far arrivare ai cittadini nei 28 Paesi UE in modo chiaro le informazioni relative a norme e leggi promulgate in Europa?
Oggi nel sistema occidentale si avverte un po’ il declino, la libertà di informazione rimane tema sociale è quello che ancora unisce quei Paesi che ritengono che la comunicazione generale dei Governi e delle Istituzioni non debba essere propaganda.
La presenza in Europa di Paesi che non brillano per leggi democratiche in fatto di libertà di stampa come viene affrontato dal Club di Venezia?
Il Club, per la sua informalità, ha messo in atto un’operazione che si è rivelata interessante: quando cade il muro di Berlino si prende la decisione di chiedere a tutti i Paesi fuorusciti dal blocco sovietico di entrare con un osservatore a vedere cosa significa discutere di comunicazione istituzionale in chiave non propagandistica. Alcuni delegati non avevano idea di cosa significasse comunicare fuori della propaganda, altri avevano la spinta dei nuovi governi di giovani politici che avevano studiato all’estero. In questi decenni i cambiamenti sono stati molti, il tema della propaganda è entrato anche nelle logiche delle democrazie, conflitti e competitività internazionale in atto oggi producono condizioni propagandistiche, anche se l’Europa continua ad avere la visione secondo cui la comunicazione è un servizio alla partecipazione libera e democratica dei cittadini alla cosa pubblica: chi opera in questo campo deve essere leale con le istituzioni e con i cittadini, è un’etica “bifronte” che è la caratteristica delle democrazie dell’Europa. Esiste contraddizione anche nei Paesi che vengono da esperienze di chiusura e che mirano a non farsi sottrarre sovranità dall’Europa- È come se questi Paesi dicessero che il comunismo ci ha tolto la libertà per cinquant’anni e ora arriva Bruxelles a fare lo stesso. In qualche caso non hanno consapevolezza che sono loro i veri azionisti di questa Europa, non viene loro sottratta sovranità. Durante le discussioni del Club di Venezia non ho mai visto nessun delegato alzare la voce come avviene a livello politico a Bruxelles, perché si rendono conto politicamente e civilmente che i ragionamenti sono un valore. Molte volte i delegati sono perplessi ma molte volte sono premiati per questa loro “europeità”.
Il polacco Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo quando il Club di Venezia ha compiuto trent’anni., ha inviato una lettera di apprezzamento ribadendo l’importanza che il Club aveva avuto per far capire tante cose anche a livello della filiera dei loro funzionari. Tusk, oggi a capo di uno schieramento europeista, ha cambiato il quadro politico della Polonia: il caso della Polonia dimostra che la situazione in vista delle elezioni europee è fluida. Non entro nel merito dei singoli Paesi, ma il Club di Venezia ha mantenuto la presenza di delegati e di un Presidente indipendenti che non sventola bandiere nazionali. Il Club lancia appelli, messaggi: quando si parlava di Costituzione europea con la Commissione presieduta da Giscard d’Estaing e Giuliano Amato vice, dalla Grecia, dove eravamo riuniti, lanciammo un appello chiedendo di costituzionalizzare il diritto all’informazione, perché in Paesi come il nostro, dove è sancito per costituzione il diritto di informare senza censura, non esiste formalmente il diritto di essere informati. Non è vero che il combinato disposto dei due fattori, di fronte alla gran quantità di articoli che escono quotidianamente faccia sì che esista il diritto a essere informati. Quando un bisogno è normato diventa un diritto e quando diventa un diritto la funzione amministrativa è obbligatoria. Forti dell’esperienza di alcuni Paesi, abbiamo detto che l’Europa avrebbe dovuto normare nella sua costituzione non solo il diritto del cittadino a essere informato, ma anche in ambito europeo tutti i cittadini allo stesso modo devono accedere alle stesse informazioni. Quindi da Tallin a Siracusa i diritti devono essere uguali. Le politiche europee nei confronti dell’informazione sarebbero così cambiate, il trattato costituzionale fu fermato da francesi e olandesi in particolare: e questo perché un trattato comune arriva a normare la materia mediando tra Paesi che godono di tali diritti in maniera molto alta ( e non vogliono abbassare il livello) e tra chi li ha normati a livello inferiore: l’impianto a quel punto è caduto ma si riproporrà come si riproporrà il rientro degli inglesi nella Comunità Europea.
Le città di confine come si inseriscono nel programma del Club di Venezia?
In questa cornice negli ultimi dieci anni ci siamo accorti che la comunicazione pubblica (istituzionale, politica, sociale), nel suo perimetro astratto, si affianca alla pratica, toccando con tutti i suoi sviluppi, cose concrete come il settore della comunicazione di crisi e di emergenza che ha i suoi percorsi e ha i suoi esperti e addetti, tra i quali la Protezione Civile. In momenti come questi, con le guerre alle porte di casa ,la public diplomacy deve fare la sua parte per trattare con coerenza le informazioni all’esterno con quello che si comunica ai cittadini dei singoli Paesi: non si possono avere due verità, ed è per questo che è fondamentale il contrasto alle fake news, la parte prevalente dei servizi di informazione in alcuni paesi. Un settore vastissimo nel quale oggi s’inserisce una forte attenzione agli sviluppi dell’intelligenza artificiale e su come la tecnologia sta sviluppando una sua componente nella comunicazione pubblica. Il rapporto con i territori in questo settore è importante. In Francia conta più l’associazione di comunicatori territoriali che quella nazionale, come avviene in Italia. Il terreno in questo campo mescola pubblico e privato e si è chiamato inadeguatamente “marketing territoriale”, pensando che i territori abbiano il diritto di promuovere la propria attrattività fatta di attori pubblici- le istituzioni – e privati – servizi turistici, gastronomici, commerciali-. Disciplina economica che spiega come un prodotto materiale o immateriale di consumo possa essere venduto con ritorni importanti: ma di “marketing territoriale” si può anche morire – il caso di Venezia insegna -, la visione che il territorio sia solo in vendita non risolve il problema più importante che non è vendere ma conseguire un’attrattività sostenibile e gestire le potenzialità e l’evoluzione dei processi identitari. Venezia, nei convegni, è l’esempio di come non si sia gestito tutto il potenziale culturale, storico, della qualità di vita che la città offre, sfruttando invece l’idea di riempire come in un incubo di horror vacui ogni angolo della città perché tutti vengano a mangiare un panino. Il risultato è catastrofico per tutte le città, come Firenze, Napoli, Siena… Nasce così l’idea di un nuovo impatto comunicativo nel quale l’attrattività è orientata, oltre che al turismo, agli investimenti, all’internazionalizzazione degli studi, all’attrazione immateriale, a mettere in campo un conflitto tra stereotipo e realtà che strangola.
Prendiamo Napoli come esempio, dove in questo momento in città diciotto set cinematografici sono impegnati a raccontare la realtà stereotipa della camorra: non è nell’interesse della città e del suo futuro, se non si racconta il futuro nessuno si fiderà a investire in attività produttive. Ecco come nasce l’idea di considerare il brand delle città tra storia e narrative e questioni di contrasto allo stereotipo e all’immagine dell’insieme nel mondo. Da qui gli “study branding” che il Club di Venezia ha esaminato in vari seminari, comprendendo che il “marketing” territoriale è un potente esercito considerato da tutte le società di consulenza per avere risorse amate da politici che elargiscono quattro soldi a fronte di quattromila turisti, idea di legare il turismo alla pura speculazione a volte distrugge un territorio e l’avvelena.
Tutta questa storia ha un cantiere di modernizzazione dell’approccio dal 2012 quando Milano si è trovata cambiata e dopo l’expo del 2015 ancora più cambiata secondo la percezione internazionale: Milano ha preso l’iniziativa di creare un comitato brand Milano con un tavolo di tutti gli stakeholders della città del quale sono stato presidente, ed abbiamo sperimentato come una città grande di fronte ad un grande evento cambi la luce con la quale mondo e cittadini vedono le cose, operazione importante sull’immagine. In tale comitato dal 2012 al 2017 si è lavorato con oltre cento interventi, fino a due anni dopo Expo. Procedura apprezzata anche dal Presidente della Repubblica che ha commentato la presentazione dei documenti affermando che tutti i sindaci d’Italia dovrebbero avere tale tipo di approccio: un approccio laborioso, che nasce dalla voglia di studiare, di confrontarsi, di mediare gli interessi alternativi che ci sono nelle città: una città deve mantenere un’identità sostenibile, nei suoi aspetti culturali, di volontariato, scientifici, energetici, manifatturiero, arte, lirica, comunicazione, sociale, un aspetto poliedrico da preservare. Dopo gli anni di pandemia ci siamo trovati tutti i paradigmi che agivano sull’attrattività profondamente cambiati: mobilità, gestione dello spazio pubblico, il modo di lavorare, per questa ragione la domanda su tali possibilità sono aumentate, richieste di lavorare su eventi o amministrazione, aspetti importanti e specifici di ogni città che volevano essere sempre più valorizzati ed aggiornati.
Tra il 2023 ed il 2024 saranno tre gli oggetti puntuali sl comunicazione pubblica e public branding: la prima è la più straordinaria, il sindaco di Napoli ci ha chiamato ad occuparci dell’evoluzione dell’immaginario collettivo di questa città, un progetto ancora non divulgato, attraverso una convenzione tra il nostro gruppo e l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli .
Per il secondo progetto, io come Presidente della Fondazione Francesco Saverio Nitti( Menfi 1868-1953, che ha scritto tutti i suoi libri più importanti sull’Europa nella sua villa di Maratea dove si rifugiò con l’avvento del fascismo dopo vent’anni di esilio e di prigionia.) A Villa Nitti abbiamo organizzato il Festival delle Città Narranti e il Sindaco decise di entrare nella competizione delle città italiane della cultura per il 2026: opportunità per un piccolo territorio della costa della Basilicata, la bellissima Maratea nell’immaginario collettivo campione di una bellezza che può valorizzare nell’anno delle Olimpiadi – concentrate al Nord – anche Sud e mare. Nel mese di marzo sapremo se i cento progetti del comitato saranno accettati e Maratea sarà la prossima Capitale della Cultura.
Da alcuni mesi la terza idea riguarda Gorizia: il tema è la proposta di associare Gorizia come Capitale della Cultura 2025 a Nova Gorica in Slovenia, che ha già ottenuto il titolo. L’Europa ha deciso che assieme a queste due città la terza città sarà Chemnitz in Sassonia (ex Karl Marz Stadt quando faceva parte della DDR) luogo di confine come Gorizia, la storia è passata in questi luoghi nel secolo scorso, lasciando conflitti e attriti dolorosi: un contesto dominato dai confini, ecco perché l’Europa ha scelto tali città come Capitali della Cultura. Come rappresentare un’idea per un anno intero in un festival aperto ai giovani che richiede un clima festoso, come raccontare in tempi di pace e prosperità come è arrivata l’Europa in questi luoghi a cancellare i confini, come spiegare ai giovani nati in questo millennio la storia passata: è questa una sfida che deve fare superare le angosce legate al passato. Oggi il confine tra Gorizia e Nova Gorica è segnato da una piccola striscia disegnata sull’asfalto, ma per giungere a questo bisogna raccontare la storia con profondità e per questo dobbiamo essere riconoscenti all’Europa.
Le città di confine in un’Europa senza confini sono un simbolo ed un esempio a raccontare e da ricordare: a maggior ragione e con più convincimento di fronte ai conflitti sanguinosi che circondano un’Europa abituata a settant’anni di pace.
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