La prima volta che ascoltammo, all’Auditorium di Roma, Maurizio Pollini (che proprio oggi compie 82 anni), il programma prevedeva solo musiche di Fryderyk Chopin: Ballate, Notturni, Scherzi, Polacche. Eravamo molto giovani e rimanemmo, certamente non delusi, ma un po’ sorpresi. Si ebbe l’impressione che il grande pianista milanese desse una lettura troppo ‘pulita’, ‘asciutta’, tecnica, dell’opera del compositore polacco. Eravamo tutti ancora condizionati da quella lettura entusiastica e colorata di patriottico romanticismo di Arthur Rubinstein, appassionato solista tra i migliori del Novecento e polacco come Chopin. In una conversazione con la musicologa Carla Moreni, Pollini affermò tre anni fa:
Storicamente Chopin è stato il primo dei grandi compositori a staccarsi dalla tradizione tedesca: erano appena scomparsi Beethoven e Schubert; c’era (Muzio) Clementi, più importante di quanto si creda.
Il riguardo usato per Clementi può svelare alcune particolarità dello stesso Pollini che distingue due fasi nell’opera del pianista-compositore polacco. Il nostro solista (considerato assieme a Martha Argerich e a Grigori Sokolov in testa alla classifica dei migliori) racconta come a una fase di “delirio creativo” di Chopin seguì un secondo periodo in cui “la lucidità espungeva tutto quanto non rispondesse al desiderio di massima perfezione formale”. Ecco, forse, spiegata quella lettura un po’ “tecnica“’” di cui si parlava all’inizio. E poi c’è Clementi (anche lui inseguiva nelle sue sonatine una perfezione formale), grande pianista e compositore, la cui fama appare però legata solo al suo “Gradus ad Parnassum”, una raccolta di cento studi di crescente difficoltà che, con un po’ di fantasia, potremmo paragonare ai “preludi” e alle “fughe“’” del “Clavicembalo ben temperato” di Bach.
Ma la sensibilità di Pollini, il suo tocco elegante, creativo ed essenziale lo abbiamo potuto apprezzare ancora una volta riascoltando i due difficilissimi concerti per piano e orchestra di Johannes Brahms. In particolare il primo dove il compositore amburghese sembra voler sfidare l’interprete in tre movimenti di difficoltà tecnica estrema (anche se in maniera decisamente meno drammatica nel secondo).
Si tratta di un concerto in “re minore”, una tonalità drammatica, quasi tragica, un impianto armonico che solo pochi grandi della tastiera riescono a contenere, elaborare e “offrire“’” al pubblico degli ascoltatori. È un fatto che, se la chiave in “si minore” corrisponde quasi sempre a una tonalità malinconica, triste (spesso usata proprio da Chopin nei suoi Notturni), quella in “re minore“ evoca visioni drammatiche che, secondo il poeta e critico musicale tedesco Max Kalbeck, citato dal musicologo Piero de Martini,
furono dovute all’impressione che Brahms ebbe alla notizia del tentato suicidio di Schumann
che si era gettato nel Reno per poi morire (anni dopo) nel reparto psichiatrico di un ospedale nei pressi di Bonn. A noi, il primo movimento (“maestoso“’”) del concerto in re minore (stessa tonalità impiegata da Beethoven per la sua Nona sinfonia) ha provocato dei brividi di memorie antiche, di racconti confusamente riconducibili al terrificante, vendicativo bombardamento inglese di Dresda del febbraio 1945. Occorre però aggiungere, per meglio comprendere la poliedrica personalità di Pollini, che il pianista milanese si è sempre battuto perché nei programmi dei concerti, accanto a Beethoven, Mozart, Chopin e gli altri grandi compositori classici e romantici, figurassero i nomi dei musicisti del ventesimo secolo.
Il pubblico andrebbe oggi più informato, svecchiato dalla pigrizia, anche i giovani dovrebbero essere portati a conoscere l’esistenza di questa musica.
A cominciare da Schönberg e Pierre Boulez (di cui Pollini fu grande amico). Nel 1995 dette vita al “progetto Pollini” che prevedeva una programmazione “mista” con brani dei secoli d’oro della musica accostati a musiche di Karlheinz Stockausen, Luciano Berio, Luigi Nono.
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