Sommario
1 Svelare il green washing della fondazione Venezia capitale mondiale dalla sostenibilità
2 Introduzione alla passeggiata urbana dello spazio pubblico
3 Plateatici e movida
4 San Marco e Rialto
5 E l’Arzanà dei viniziani?
6 Gli spazi pubblici verdi
7 I campi come standard e centri di relazioni
8 Gli Orti di zona
9 Le portinerie di quartiere
10 Le sedi di incontro pubbliche (della Municipalità) e private (delle associazioni).
11 Le virtuosità diffuse (in Laguna)
12 Una considerazione finale
1. Svelare il green washing della fondazione Venezia capitale mondiale dalla sostenibilità
La città storica veneziana è sempre più vicina alla soglia oltre la quale smetterà di essere una città. Venezia è infiacchita dalla monocultura turistica, indebolita dal non saper mantenere i “vecchi” e dalla difficoltà ad attrarre “nuovi” abitanti. Sta avviandosi a superare un limite oltre il quale non sarà più possibile parlare di quella qualità della vita urbana, pedonale, lenta, rilassata, che la qualifica agli occhi del mondo come la città ideale della modernità.
Qui si fantastica di “città campus”, di un raddoppio degli studenti universitari (che possano poi diventare “nuovi veneziani”) e si costruiscono castelli di sabbia come la Fondazione Venezia capitale mondiale della sostenibilità. Una Fondazione che, per qualificarsi agli occhi del mondo, ha posto alla sua guida un campione dell’economia circolare come Renato Brunetta e ha come soci fondatori i grandi gruppi fossili – Enel, Eni, Snam. Che bel biglietto da visita!
Nella pratica (che sta dietro alla “dichiarazioni di principio”) di privati ed Enti pubblici capita poi che le Università (anch’esse tra i promotori della Fondazione) espellano gli studenti per far posto ai turisti nei periodi estivi. Le residenze universitarie sono insufficienti, care: salvo pochi posti riservati alle fasce protette, con prezzi paragonabili a quelli di mercato, offrono contratti di nove mesi per poter affittare ai turisti nel periodo estivo.
O capita anche che Comune e Ater non abbiano una politica di gestione dell’Edilizia residenziale pubblica (Erp) capace di far fronte alla domanda e che i livelli dei fitti in social housing siano molto simili a quelli di mercato.
Venezia (anche il Comune è tra i soci fondatori) è l’unica città italiana che da un anno può regolamentare le locazioni temporanee. Ma il suo sindaco non lo fa.
Abbiamo una delibera comunale che impedisce di aprire nuovi alberghi, salvo motivate eccezioni. Ma ogni volta che c’è una richiesta per trasformare un palazzo in albergo si provvede a farlo, “motivando l’eccezione”.
Sono queste le politiche di gestione del territorio veneziano sostenibili?
O invece, vale il principio “fatta la legge, si trova l’inganno” (un po’ come succede a livello regionale per quanto riguarda la legge per limitare il consumo di suolo)?
Solo pochi cenni, cui se ne possono aggiungere altri.
Sul piano delle politiche ambientali e del (non ) contrasto al cambiamento climatico – (si pensi solo al puntare solo su politiche di adeguamento – Mose, rialzo piattaforme – e non di mitigazione – come sviluppo del verde urbano e peri urbano.
O su quello dello smaltimento dei rifiuti (urbani ed industriali), per il quale si punta sull’incenerimento (con le sue criticità sanitarie e di immissione di calore in atmosfera).
Insomma, è evidente che Venezia può essere al più considerata la capitale mondiale delle insostenibilità, e che qualificarsi per la sostenibilità è solo pericoloso e fuorviante green washing.
2. Introduzione alla passeggiata urbana
dello spazio pubblico
Voglio allora proporre una passeggiata urbana, per verificare se anche l’uso dello spazio pubblico si inserisce in questo processo di snaturamento di una “idea di città”…
Partiremo dall’elemento più simbolico – l’invasione dei plateatici, che si mangiano spazi ormai in tutta la città.
Vedremo quindi i luoghi che parlano di Venezia al mondo: Rialto, San Marco e l’Arsenale.
Passeremo poi per quelli che la normativa urbanistica e la pratica di relazione urbana considerano punti dello spazio – pubblico e di uso pubblico – destinati alla relazione e allo scambio. Son quelli che definiscono la natura d’una città: dagli spazi verdi ai campi, dagli orti urbani alle portinerie di quartiere, dagli spazi coperti – pubblici e privati – nei quali la popolazione può incontrarsi.
E vedremo anche come in Laguna si stiano sviluppando pratiche virtuose.
A fine passeggiata, vi propongo qualche considerazione a partire da quello che avremo visto.
3. Plateatici e movida
Partiamo da due esempi sintomatici, per i quali un atteggiamento poco sostenibile del Comune trova una sponda a livello statale: la gestione dei plateatici (lo spazio pubblico ottenuto in concessione da bar e ristoranti per mettere tavoli e sedie sui quali far sedere il loro clienti)) e della movida (gli assembramenti che si creano attorno ai locali più frequentati).
L’assessore comunale al commercio si vanta di aver pianificato i plateatici, attraverso una sempre maggior estensione dei “pianini” (strumenti amministrativi che ne regolano numero e misure).
Al di là del limite di fondo di strumenti che regolano la gestione di un elemento di occupazione dello spazio in modo avulso dal contesto, resta il nodo dei controlli.
L’assessore dice “io pianifico”, i controlli non spettano a me, perché la competenza sulla polizia urbana non è mia. Come se dal medico di base da cui mi aspetto una interpretazione dei miei sintomi mi sentissi dire: “io sono un cardiologo, se non hai problemi di cuore non so cosa dirti”. Ma il nodo dei controlli è quello decisivo, per i plateatici, come per la movida.
Non servono nuove regole (e infatti le delibere sulla movida sono state ritirate, dopo aver dimostrato la loro inefficacia a contenerne gli effetti). Basta applicare i regolamenti esistenti, nei quali limiti di orari di apertura e livelli di rumore consentiti sono chiaramente definiti. Ma servono per appunto i controlli. Il Comune dovrebbe costruire una task force di vigili, in grado di far fronte alle segnalazioni che provengono dai cittadini con interventi tempestivi ed efficaci, a qualsiasi ora del giorno e soprattutto della sera e della notte. Il cittadino dovrebbe avere a disposizione un numero di telefono e un sito dove rivolgersi per le segnalazioni e averne la conferma.
Ora però abbiamo un elemento in più: a livello nazionale, l’emendamento “De Priamo” al DDL concorrenza, che prevede la proroga del regime semplificatorio per dehor e tavolini all’aperto anche per il 2024.
Questo elemento s’intreccia ai problemi creati dalla movida, che hanno portato alla formazione di un comitato civico molto attivo – Danni da movida – che sta estendendo all’intera città un conflitto fondamentale (con richieste di intervento anche dal Lido e dalla terraferma) tra chi schiamazza fino a tarda notte e chi vorrebbe dormire.
Credo vadano mantenute le iniziative di controllo sui plateatici e che ai dehors (intesi come tendoni di plastica semipermanenti, magari con stufetta per scaldare l’”ambiente”) bisogna semplicemente opporsi, per il semplice fatto che il piacere di sedersi fuori è e deve restare “stagionale”, a meno di fare come in tante città del nord Europa, dove al cliente che vuole restare all’aperto si fornisce una coperta.
Ritengo perciò che estendere lo spazio esterno di bar e ristoranti con casette e teli di plastica riscaldati, a prezzo un’occupazione di suolo pubblico inguardabile ed energivora, andrebbe non tanto regolamentato, quanto proibito dai regolamenti comunali..
Anche perché calli, fondamente e soprattutto campi non sono solo luoghi di passaggio ma anche di incontro e relazione. Nei quali i veneziani camminano veloci, perché molto spesso a Venezia si va a fare qualcosa a piedi. Ma, data l’assenza delle macchine, si può anche fermarsi a parlare con un amico: per “far do ciacole” non serve darsi appuntamento al bar; lo si fa per strada. Per questo l’apparente ossimoro di gente che va veloce e gente che si ferma a parlare per strada è una caratteristica che rende diversa la viabilità pedonale veneziana da quella di altre città.
Il problema dell’uso dello spazio pubblico va (ri)definito concettualmente e poi riempito di iniziative capaci di socializzare questi spazi urbani, da mantenere pubblici e da rivitalizzare con iniziative che tessano quelle relazioni tra “abitanti” che sono il cuore del vivere urbano.
Lo “spazio pubblico” può essere sia uno spazio esterno che uno spazio coperto, dei quali pubbliche siano la proprietà e/o gli utilizzi.
4. San Marco e Rialto
Nella passeggiata, partiamo dai luoghi simbolo della città – Piazza San Marco e Rialto.
Le manifestazioni nazionali a Roma terminano a Piazza del Popolo, dove si tengono gli interventi conclusivi che ne indicano gli obiettivi, dando il significato e il senso dei cortei. La piazza è il luogo dove il popolo si ritrova, si parla, sa di esserci e contare. Sono momenti che vengono ricordati, alle volte possono segnare la storia personale di “chi c’era”.
La funzione della piazza come “agorà democratica” è una delle forme della democrazia.
Piazza San Marco, luogo di incontro e salotto buono – con i suoi caffè”, per i veneziani, è da qualche tempo interdetta alle pubbliche manifestazioni.
La piazza che vide l’arrivo di manifestazioni di massa che hanno fatto la storia dei movimenti e della città (ricordo i trentamila portati in piazza dal sindacato nel 1989 ad ascoltare il comizio di Luciano Lama), ora è preclusa “per motivi di ordine pubblico”, per il timore di un’invasione dei movimenti antagonisti.
Diceva intatti l’allora prefetto Zappalorto nel 2019, nel negare la possibilità di concludervi una manifestazione contro le grandi navi:
Piazza San Marco da molti anni non è più aperta a manifestazioni di carattere politico a seguito dei fatti del 1997 che hanno oltraggiato quel luogo.
Un non senso urbanistico e democratico, nato dopo l’assalto dei venetisti con “tanko” al campanile il 9 maggio 1997.
Dopo tutto, quei fatti non erano certo una manifestazione di massa.
Un po’ come se la Piazza di Monte Citorio fosse chiusa a ogni manifestazione di dissenso per evitare assalti alla Camera dei deputati …
Piazza San Marco peraltro non è preclusa a un “uso a pagamento” da parte dei privati, quando vogliono organizzarvi i loro “galà all’aperto” (v. Aperol spritz di massa per il centenario della Aperol del 29 giugno 2012) né quando sono proposti concerti ed eventi musicali (malgrado tutti ricordino gli effetti nel concerto in bacino dei Pink Floyd del Redentore – 15 1uglio – del 1989): Sting nel 2011 e Zucchero nel 2018 hanno portato in piazza un gran numero di persone …
Insomma, no all’uso civico della piazza, ma sì all’uso da parte di chi paga … dalla democrazia alla plutocrazia …
Ormai anche chi ci lavora ha fondato un’associazione per difendere la Piazza – sostanzialmente da un eccessivo peso della pressione turistica – e indica come uscirne: non “chiudere”, ma “regolamentare gli accessi”.
Oggi la “riapertura della piazza alla politica” è dovuta per la difesa delle democrazia e per la possibilità di uso dello spazio pubblico a Venezia.
Naturalmente della Piazza va garantita la salvaguardia fisica: bene che siano stati messi in cantiere i lavori per la messa al sicurezza almeno della basilica da quello che è sempre stato il suo problema – l’essere edificata in un dei punti più bassi della città. È necessario che il rialzo riguardi al più presto l’intera insula della piazza, se il passaggio dei veneziani vale più delle foto dei turisti sguazzanti…
A Rialto è rimasto – ridimensionato dal calo degli abitanti e dalla concorrenza dei supermercati – il mercato della frutta e del pesce. Dall’altra parte del canale, al Fondaco dei tedeschi, dopo una lunga battaglia popolare per mantenerne un uso pubblico, il Comune ha consentito che nel 2017 aprisse un “centro commerciale del lusso”. Un modo chiaro per qualificare qual è l’ospita gradito (alla struttura economico commerciale della città): non tanto quello che ha gusto, quanto quello che spende di gusto.
Ma Rialto è stato il luogo centrale dello scambio, in una città che sui commerci ha costruito la sua storia.
Possiamo rassegnarci al fatto che anche qui il commercio, i bar e i ristoranti siano rivolti ai turisti e occupino anche gli spazi che in una città “normale” sono riservati agli abitanti?
Perché non sviluppare (recependole da parte di un’amministrazione comunale finora quantomeno “disattenta” …) le proposte per ottimizzare l’uso dei suoi spazi? Si tratta non solo di mantenerli pubblici, ma di farne il volano per una rinascita assieme economica e sociale di un luogo che deve restare il centro di una città viva.
Il Comitato Rialto novo e adiacenze, che anima la realtà realtina (con le sue proposte socio culturali, che svariano dalla Giornate della creatività alle visite guidate, dal Carnevale alla sua capacità di coinvolgere artisti e teatranti) e il Comitato cittadino Progetto Rialto hanno proposto l’Istituzione di un Museo del mercato di Rialto nella loggia della Pescheria e la riqualificazione del mercato.
È particolarmente significativo che la presentazione del progetto abbia visto sul palco dell’Ateneo Veneto la presidente del Comitato (Gabriella Giarretta) alternarsi con esponenti della cultura (come Donatella Calabi, professoressa di Storia delle città – Iuav Venezia) e Luca Molà (professore di Storia moderna . Warwick University Firenze) e con operatori commerciali del mercato e della zona realtina, come Andrea Vio del mercato ittico di Rialto e Gino Mascari (dell’omonima “bottega”).
Era giusto partire dai “centri” della vita pubblica. Ma ora è necessario allargare il discorso all’uso dello spazio pubblico nell’intera città storica insulare.
E l’Arzanà de’ viniziani?
Ma lo spazio pubblico più grande per estensione e per importanza, è l’Arsenale, che di tutti è forse il meno e il peggio utilizzato.
Anche qui purtroppo le proposte del gruppo di associazioni raccolte nel “forum arsenale” non hanno finora trovato ascolto in un’amministrazione comunale che ne fa per ora un uso centrato su “grandi eventi”, tanto brillanti dal punto di vista commerciale quanto effimeri per le ricadute sulla vita economica e culturale della città.
Localizzarvi il Salone Nautico risponde solo molto superficialmente alla vocazione di un luogo, che è stato il motore della storia di Venezia come potenza marittima ed è oggi l’ultimo arsenale preindustriale ancora esistente.
In passato il Comune aveva elaborato un progetto di riuso, non solo espositivo, ottenendo dallo Stato la cessione di spazi ai quali l’Amministrazione attuale ha ritenuto opportuno rinunciare, recentemente parlando di localizzarvi discoteche e palestre.
Si mostra così indifferenza o ignoranza per il valore del luogo. Il quale non è solo una grande estensione di spazi utilizzabili, ma un sito che deve parlare di sé a chi lo visita.
Per questo è stato proposto di istituirvi un Museo del Mare, che hanno tutte le città che sul mare hanno fondato la loro storia.
Oggi abbiamo – ai suoi margini – un “piccolo” Museo storico navale (che raccoglie reperti e modelli di navi della Marina Italiana di ieri e di oggi e del Bucintoro, con diversi cimeli e alcuni esemplari di imbarcazioni tipiche veneziane, antiche gondole da cerimonia, barche lagunari da lavoro; e poi imbarcazioni militari.
Ben diverso respiro potrebbe avere collocare all’interno dell’antico “arzanà de’ vinziani” ricordato da Dante nella Comedia uno sguardo sul mare adeguato alla modernità. Cioè alle conoscenze scientifiche che nell’epoca del cambiamento climatico possono salvare il mondo (e Venezia, che ne è parte particolarmente esposta) dalla sommersione dovuta all’innalzamento del livello dei mari.
Penso a opere di “adeguamento”, che intervengono sugli effetti.
Tra queste non concentrandosi solo sull’interclusione delle maree, (Mo.S.E.), ma concentrando l’attenzione, da una parte, sulla ricostruzione di un equilibrio idraulico e morfologico della Laguna e del suo scambio col mare, dall’altra sull’innalzamento della piattaforme – che devono andare oltre le sperimentazioni.
Ma anche e soprattutto a quelle di “mitigazione”, che intervengono sulle cause e che oltre a Venezia interessano il mondo intero. E nell’area veneziana la definizione di una grande “infrastruttura verde”, fatta di parchi aree periurbane, spazi verdi pubblici e privati, alberature delle strade, ecc, è sicuramente una sfida da cogliere, nella città, nell’area metropolitana e in Laguna.
Il Museo del mare potrebbe essere un laboratorio scientifico capace di attrarre e concentrare le migliori conoscenze mondiali che darebbe basi reali alla proposta di Venezia capitale mondiale della sostenibilità. E restituirebbe allo spazio pubblico dell’Arsenale un ruolo di centro della città e della cultura scientifica nazionale ed europea
Non vanno infine dimenticate tre iniziative che dimostrano – con i fatti e non solo con le parole – che un altro uso dello spazio pubblico e del territorio è possibile. E che essi passano per l’ascolto e la partecipazione, per sfociare nell’inclusività della gestione.
5. Gli spazi pubblici verdi
Abbiamo alcuni parchi o “giardini pubblici”: Savorgnan e Groggia a Cannaregio, Secco Marina a Castello, la pineta di Sant’Elena, i giardini Papadopoli, a lato dei quali si entra in città uscendo da Piazzale Roma, il piccolo appezzamento di Santa Marta, voluto e progettato dai bambini, i rinnovati giardinetti reali a San Marco, qualche lembo in Giudecca, come il piccolo delizioso parco di villa Heriot, sede dell’Iveser – (Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea).
È utile ragionare sui singoli compendi, ma anche sul loro essere sistema. Andranno coinvolti quando serve anche gestori in parte privati.
A partire dall’intervento di restauro e riqualificazione dei giardinetti reali a San Marco, realizzato dalla fondazione Venice Gardens Foundation, in collaborazione con Assicurazioni Generali, va avviato un ragionamento sulle condizioni che il privato pone per intervenire nella manutenzione e miglioramento gestionale di spazi pubblici o ad uso pubblico.
È un problema che a Venezia si è posto – v. il restauro del ponte di Rialto a cura di Renzo Rosso – e si porrà in futuro, data la risonanza che “intervenire a Venezia” offre per qualsiasi soggetto a livello mondiale.
Se guardate Venezia dall’alto (ad es. osservando la tavola generale – Venezia forma urbis – del foto piano realizzato quando era assessore all’urbanistica Edoardo Salzano – vedete che la città è ricca di punti verdi. Sono però per lo più giardini privati. Ma ci sono altri spazi pubblici “non aperti” e non gestiti, sui quali intervenire.
Ad esempio, per spingere la Sovraintendenza archeologica, alle belle arti e al paesaggio (che lo ha in gestione) ad apire al pubblico e a valorizzare il Parco di Palazzo Soranzo Cappello a Santa Croce.
6. I campi come standard
e centri di relazioni
Se escludiamo i giardini privati, gli spazi verdi nella città antica di Venezia sono pochi e concentrati in aree marginali. Per fortuna, data l’assenza di veicoli a motore, un po’ tutti gli spazi aperti in città (campi, campielli, calli larghe) possono svolgere la funzione che altrove svolgono i parchi, purché adeguatamente attrezzati e, soprattutto, liberi.
Non a caso la carta degli standard urbanistici allegata al piano regolatore assegna loro questo ruolo. Perché la legge impone in ogni città un rapporto minimo tra spazi verdi e abitanti – turisti compresi – e questo rapporto, paradossalmente, nel centro storico veneziano è insufficiente, a meno che non si contino come verdi molti campi, che possono benissimo svolgere la funzione di verde pubblico a condizione però che siano davvero fruibili da parte delle persone.
Al di là di quelli verdi, sono presenti in città e in laguna altri spazi pubblici (o di gestione di “uso pubblico”).
Parliamo allora prima di tutto dei campi veneziani, i nostri “salotti pubblici”, dove abbiamo l’abitudine di incontrarci e dove non si rado si svolgono feste o sagre – si pensi ad es. a San Giacomo dall’Orio, alla Bragora, a San Pietro di Castello.
Tutti i campi sono luoghi della relazione. Abbisognano quindi di attrezzature che la favoriscano: panchine – sempre; ma anche – in alcuni casi – verde, fontana, orti, giochi ecc..
Alcuni di loro, in particolare, vanno valorizzati favorendo quelle pratiche socializzanti cui la stessa normativa urbanistica li destina (v. carta degli standard)
In questo senso vanno evidenziati quelli per i quali andrebbero individuati progetti di rigenerazione urbana specifici (e veri).
Si potrebbe partire da un censimento delle pratiche virtuose già realizzate e/o in atto in diversi campi: si pensi a San Pietro di Castello (sagra), Bragora (festa del solstizio d’estate), San Giacomo dall’Orio (sagra e aperiVida).
Potrebbe essere costruita una mappa delle potenzialità, in collaborazione con gruppi di cittadini attivi, anche per diversi altri campi: penso al Ghetto, a Santa Maria Formosa, a San Giovanni e Paolo, a Santa Margherita, a San Maurizio, a Santo Stefano, a Sant’Agnese)
Certamente il lancio di cene informali o anche aperitivi (che poi magari diventano apericene, o aperipranzi il sabato mattina) sono un volano che porta i cittadini a utilizzare i campi per quello che sono: il loro salotto collettivo, il loro punto di ritrovo all’aria aperta.
7. Gli orti di zona
Tra le iniziative che occupano si può letteralmente dire “fruttuosamente” spazi pubblici ci sono gli orti di zona, anch’essi da censire e che meritano una messa in circolo delle pratiche (in parte già in atto) e forse anche un coordinamento. È necessario infatti fare sistema e acquisire maggior forza, anche nel confronto con le istituzioni.
Troviamo orti a San Giacomo, a Santa Marta, a San Giorgio Maggiore, agli Scalzi … .
Uno specifico progetto di rigenerazione, assieme urbana ed umana, può essere dedicato all’orto del carcere femminile delle Giudecca, con la sua straordinaria “apertura” alla società esterna, sostenendo e se possibile allargando le pratiche già oggi in essere, come la festa annuale dell’orto, con l’entrata della città nel carcere e lo scambio dei prodotti coltivato dalle detenute.
Non a caso il Veneziana Gas, un gruppo di acquisto solidale, ha consolidato un sistema di acquisti da parte dei suoi soci sia delle verdure che dei prodotti che escono dal laboratorio di cosmesi del carcere, che serve anche la struttura alberghiera cittadina).
8. Le portinerie di quartiere
Vi sono poi gli spazi vocati come “portinerie di quartiere”, da localizzare in modo diffuso per fornire alla popolazione tutte le informazioni utili per la vita di zona; dal “dove trovo cosa …” alla raccolta delle istanze dei cittadini per aiutarli a indirizzarle segnalazioni alle autorità competenti – es. problemi di plateatici e/o movida, mancanza panchine, problemi col verde, assistenza ai servizi di igiene urbana, ecc..
In queste sedi possono essere localizzati servizi come la distribuzione di materiali per i servizi dei rifiuti o di ausili sanitari, punti di distribuzioni per gruppi di acquisto collettivi.
Qui si possono anche localizzare piccole attività culturali e di svago.
Le portinerie di quartiere sono già oggi presenti, in spazi come Red carpet for all a San Trovaso o nella sede Arci di Cannaregio.
A loro supporto e per fornire servizi simili potrebbero utilmente essere riutilizzate le edicole dismesse o in via di dismissione (come per il progetto su quella dismessa in Rio Marin).
9. Le sedi di incontro pubbliche
(della Municipalità) e private (delle associazioni).
Tra gli Spazi pubblici o di uso pubblico coperti esistono importanti “luoghi di relazione”, nei quali i cittadini possono trovare sedi di incontro.
Sedi istituzionali – la sede della Municipalità a San Lorenzo, il CZ – centro Zitelle alla Giudecca e sedi nella quali – con la mediazione della stessa – viene consentito ai cittadini di organizzare incontri e assemblee, purtroppo a pagamento – un vero ossimoro per uno spazio pubblico!: la sala Leonardo a Cannaregio, la scoletta dei Callegheri a San Tomà, i locali a Villa Groggia.
Purtroppo, questi spazi non sono gestiti dall’amministrazione comunale veneziana in modo da farne luoghi di promozione della convivenza. Anzi, l’avviso pubblico n. 3 del 2019, con il quale questi spazi sono messi a bando, chiede all’assegnatario di contribuire ai costi di manutenzione ordinaria e perfino straordinaria, anche quando si tratta di soggetti che offrono servizi importanti a titolo gratuito grazie al lavoro non retribuito dei volontari.
Abbiamo poi i “luoghi amici”, vale a dire spazi privati ma che favoriscono incontri relazioni e iniziative di pubblica utilità.
Si tratta ad esempio delle sedi che alcune associazioni mettono a disposizione per incontri e dibattiti o per organizzare mercati solidali.
Da ricordare le sedi dell’associazione About a in Calle lunga dei bari a Santa Croce (che offre anche un piccolo mercato alimentare settimanale), di Italia Nostra (Centro Padoan) a Cannaregio, dell’associazione Olivolo a Castello, le sedi dei circoli Arci Franca Trentin Baratto di Cannaregio e Fondazione Luigi Nono della Giudecca.
10. Le virtuosità diffuse (in Laguna)
La prima è il Festival delle arti alla Giudecca, attraverso il quale ogni anno la Fondazione Luigi Nono riempie per una settimana l’isola delle iniziative culturali, le più varie. Una zona considerata “periferica” di una Venezia che si vuole “capitale delle cultura”, diventa così il vero cuore culturale della città, con una partecipazione popolare che più blasonate rassegne – prima tra tutte la Biennale – non arrivano a raggiungere
Ed è dalla Giudecca che nel 2014 partì la grande offerta pubblica per la gestione dell’isola che va sotto il nome di “Poveglia per tutti”. Un nome, un programma, che fa di partecipazione, inclusività e progetto le cifre sulla base delle quali chiedere (e praticare) una gestione che dopo anni di frequentazione “di fatto” chiede di essere riconosciuta anche sul piano del “diritto”.
È sul tavolo del Demanio la proposta di una concessione pluriennale che consenta di spendere – per la realizzazione e l’avvio della gestione di un “parco pubblico lagunare” i fondi raccolti dieci anni fa per la partecipazione all’asta (poi non assegnata).
Siamo di fronte a una situazione che ha dell’incredibile: un ente pubblico non può o non vuole valorizzare né mantenere il bene che ha in affidamento (non proprietà, perché quella è pubblica, cioè di tutti noi) e respinge un’offerta di intervento che si pagherebbe da sé, valorizzerebbe l’isola e che la manterrebbe pubblica, rendendone estremamente inclusiva la gestione.
Mi sembra un caso in cui sarebbe opportuno un intervento della Corte dei conti …
Il terzo caso è il più recente e quello dell’isola della Vignole. Dove siamo su proprietà private, ma gli abitanti che vi risiedono si sono associati in VERAS (l’acronimo sta per Vignole Energia Rinnovabile Agricoltura Sostenibile) per mettere in comune pratiche (agricole e di condivisione di spazi e progetti).
Al centro del progetto c’è la realizzazione di una serra con pannelli solari che consentano di produrre e mettere in comune l’energia necessaria all’isola (con un surplus da mettere in rete).
La proprietà degli alloggi e dei fondi agricoli è privata, ma l’”uso” dell’isola è aperto al pubblico: ai soci di Veras ma anche a chi ha voglia di andare a vedere e passare li qualche ora.
Siamo in quello che è anche un parco naturale di fatto. Imperdibile il canneto gigante nel quale è piacevole entrare e abbandonarsi ai propri pensieri, senza che vi sia il pericolo di non trovare più la strada del ritorno.
Certo le grandi differenza con Poveglia sono aver ottenuto dal Demanio marittimo la concessione degli spazi necessari e che gli “abitanti” che si prendono cura dei luoghi (aprendone la frequentazione a scuole, università, iscritti all’associazione e semplici visitatori) sono anche residenti e questo rende la cura “quotidiana”. Al contrario, Poveglia è almeno a mezz’ora di barca dalla Giudecca, dieci minuti da Malamocco e non c’è un servizio di linea per raggiungerla.
Se vi sono esperienze di uso dello spazio pubblico così forti nel sistema insulare lagunare che sta attorno alla città storica, è auspicabile che questa “campagna” sappia colonizzare la “città”.
11. Una considerazione finale
Che dire al termine di questo giro tra gli spazi pubblici e di uro pubblico della città storica veneziana? Bisogna essere chiari, nel parlare alla città e al mondo, cioè a noi veneziani e a tutte le persone che da tutto il mondo vogliono venire e vedere Venezia (e ne hanno il diritto).
“Venezia è un pesce”, dice Tiziano Scarpa, prendendo spunto dalla sua forma (“la nostra orada” di Alberto D’Amico); forse è più realistico paragonarla a un‘arancia: la spremi, il succo è buono, ma poi resta la buccia da eliminare.
Al di là della metafora, il tema della difesa e dell’uso dello spazio pubblico (non nei singoli aspetti “particolari”, qui richiamati, ma nel suo insieme e in una dimensione urbanistica e concettuale “generale”) è centrale per la sopravvivenza della città.
Lo sanno i cittadini e le associazioni, possono capirlo i turisti che vogliano essere “responsabili”.
E va posto al centro delle elezioni che si avvicinano, per Venezia, per il Comune, per la Regione Veneto e ancor prima per il Parlamento europeo.
L’uso dello spazio pubblico è tema che pone alla pubblica amministrazione la necessità di arginare la prevalenza della speculazione fondiaria e finanziaria e delle categorie economiche (che hanno interessi legittimi, ma particolari) sulla difesa della cittadinanza, delle sue pratiche e delle sue proposte (che sono di interesse generale).
In questi ultimi decenni a Venezia la politica ha ascoltato quasi solo la voce dei portatori di interesse privati ed è stata sorda a quella della popolazione.
È venuto il tempo di invertire questa tendenza e di affermare necessità di difendere non soltanto le sue pietre, ma i suoi abitanti e i suoi spazi pubblici.
È una condizione necessaria, prima che sia troppo tardi.
Se si vuole che Venezia sopravviva come città e non diventi definitivamente un bel teatro a pagamento, con pochi abitanti residui nel ruolo di comparse.
Può aiutare unire la voce del tessuto di comunità e associativo veneziano con quella della cultura e nelle istituzioni internazionali.
Ormai è convinzione diffusa tra i settori più consapevoli della cultura internazionale che quel turismo che sembrava elemento di “sviluppo positivo” si rivela in realtà negativo e paralizzante, perché non traina un’economia ma la impoverisce, esponendola ai rischi che abbiamo potuto verificare con il suo crollo durante la pandemia.
Quelli stessi “comitati internazionali per Venezia”, sorti dopo la prima aqua granda del 1966 e che allora avevano soprattutto a cuore la salvaguardia dei monumenti sono arrivati, con gli anni, ad evolvere la loro posizione. Oggi pensano e dicono che la città si salva non solo se si difendono le sue pietre, ma anche e soprattutto consentendo ai residenti di essere abitanti di una città e non custodi di un museo; se la monocultura turistica diventa una economia plurale, se ci sono servizi, se lo spazio pubblico favorisce i contatti e le relazione.
Da veneziano devo quindi sperare che i “foresti” ci aiutino a difendere la nostra città, cioè a fare quello che dovremmo fare noi. Col pensiero, col conflitto, col voto.
Immagine di copertina: Circa cinquecento manifestanti dei comitati cittadini NoGrandiNavi e NoMose mentre si preparano a partire da campo Santa Margherita, 24 novembre 2019. © Andrea Merola
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