Due anniversari diversi, ma ugualmente significativi, ci danno modo di tornare a ragionare sul racconto dello sport, sul suo ruolo nella crescita e nello sviluppo del Paese e sul dramma contemporaneo di un universo intellettuale complessivamente incapace di affrontare questo grande romanzo nazional-popolare nei termini che possano interessare a quelli che un tempo avremmo definito “ceti subalterni”.
Quindici anni fa ci diceva addio Candido Cannavò, per quasi due decenni direttore della Gazzetta, punto di riferimento di un giornalismo colto che sapeva andare ben al di là dello sport. Basti pensare che, una volta abbandonata la plancia di comando della Rosea, il nostro si è dedicato al sociale, illuminando la realtà del carcere di San Vittore, affrontando il tema degli atleti disabili, cui, con la sua penna iper-sensibile, ha conferito una nobiltà, e raccontando la vita e l’impegno dei preti di strada, coloro che salvano il mondo ogni giorno senza chiedere nulla in cambio.
Del resto, questo era Cannavò: un cantore della bellezza e della speranza, un cercatore di storie, un aedo quasi fuori dal tempo, sicuramente estraneo alla realtà sempre più barbara con la quale siamo costretti a confrontarci. Non solo: è stato uno degli ultimi direttori a non aver paura di mettere in prima pagina le belle notizie e di dedicare il giusto spazio a ciò che funziona, senza per questo rinunciare al suo spirito battagliero di siciliano doc che sembrava uscito dalla penna di uno dei tanti straordinari scrittori di quella terra. Raramente abbiamo letto un uomo più sincero, appassionato e innamorato della vita. Per Candido lo sport era questo: la vita nella sua massima espressione, lo slancio, la freschezza, la lealtà. I suoi anni di direzione hanno coinciso con l’epoca aurea del calcio italiano, quando eravamo davvero il “campionato più bello del mondo” e tutti i fuoriclasse internazionali facevano la fila per venire a giocare da noi. E lui, come detto, seppe trasformare questo caleidoscopio di emozioni in un romanzo popolare che scandiva la nostra esistenza.
Basti pensare a come raccontò Italia ’90, fra l’attesa, la speranza e l’incubo che si materializzò a Napoli contro l’Argentina di Maradona, in una città con il cuore diviso a metà fra l’azzurro della Nazionale e l’amore viscerale per il genio che aveva reso grande una squadra che, prima di lui, non aveva mai vinto uno scudetto e dopo di lui ha dovuto aspettare trentatré anni per vederne un altro. Senza dimenticare il suo rapporto d’affetto e d’amicizia con molti dei protagonisti di questo moderno poema omerico che sapeva narrare come nessun altro, a cominciare da Pantani e dal suo dramma. Cannavò, infatti, soffriva come un padre di fronte alle cadute di campioni di cui, innanzitutto, scorgeva il lato umano. Ecco, l’umanità è stata la sua cifra, oggi misconosciuta e spesso irrisa. La sua Gazzetta è stata sempre un impasto di cuore e competenza, un prodotto artigianale che entrava nelle case degli italiani con autorevolezza ma, al tempo stesso, con ironia, in punta di piedi, con l’obiettivo di coinvolgere i lettori senza montare in cattedra. La triste sensazione è che di personalità del suo calibro ne nascano sempre meno.
Allo stesso modo, sarà dura vedere all’opera una figura paragonabile, per talento ed eclettismo, a Felice Placido Borel, centravanti della Juventus del quinquennio d’oro, capace di segnare caterve di gol e di sfiorare la leggenda di Piola e Meazza, che senz’altro avrebbe eguagliato se gli infortuni non ne avessero condizionato la carriera. Ciò che sorprende di questo personaggio unico nel suo genere, di cui quest’anno si celebra il centodecimo anniversario della nascita, è che seppe passare dal campo alla scrivania quasi con nonchalance, dirigendo un periodico di livello come “Il campione” e contribuendo, nel ’63, al ritorno nelle edicole di Hurrà Juventus, rivista cult per ogni tifoso bianconero.
Borel alla vecchia Signora ha dedicato l’intera vita. Figlio di Ernesto, tra i protagonisti del primo scudetto nel 1905, è stato dapprima uno degli alfieri della cavalcata trionfale degli anni Trenta e in seguito uno dei migliori cantori dell’epopea di Madama, rapportandosi da pari a pari con le migliori firme del giornalismo sportivo italiano.
Uomo di un’eleganza straordinaria, non a caso soprannominato “Farfallino”, fu lui a scoprire un certo Boniperti, in un passaggio di testimone che rende l’idea della grandezza complessiva di questo centravanti intellettuale che aveva frequentato il liceo classico e non ha mai fatto sfoggio della propria cultura. Non ne aveva bisogno: era caratterizzato da un’autorevolezza naturale, da un carisma istintivo, da un fascino che si avverte tuttora, a oltre trent’anni dalla scomparsa (avvenuta nel ’93).
Nel nostro racconto dello sport, mancano figure così. Ai giorni nostri, difatti, saremo anche tanto abili nell’individuare e nel descrivere i fuoriclasse ma abbiamo perso di vista gli esseri umani, e senz’anima tutto perde di senso.
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