Si chiamava Aaron Burshnell, il militare statunitense che si è dato fuoco domenica scorsa di fronte ai cancelli dell’ambasciata d’Israele a Washington, al numero 3500 di International Drive Northwest, nel quartiere diplomatico della capitale. Membro dell’aviazione militare americana, 25 anni, di San Antonio, Texas, Aaron Bushnell è stato ricoverato in ospedale in condizioni molto serie ed è deceduto per la gravità delle ustioni.
In un’email, inviata poco prima del gesto, ai giornali l’aviere annuncia: “Oggi, metterò in atto un gesto estremo di protesta contro il genocidio del popolo palestinese”.
Il militare ha filmato e trasmesso in diretta su Twitch il suo gesto disperato, dicendo:
Non sarò più complice di un genocidio. Sono sul punto di compiere un gesto estremo di protesta. Ma paragonato a quello che stanno vivendo in Palestina per mano dei loro colonizzatori, non è affatto estremo. Questo è quello che la classe al potere ha deciso che sia normale.
Lo scorso dicembre un manifestante si era dato fuoco davanti al consolato israeliano ad Atlanta.
L’episodio ha scosso l’opinione pubblica statunitense facendo tornare alla memoria episodi simili che avvennero ai tempi della guerra del Vietnam.
A metà degli anni Sessanta si verificarono alcuni casi di auto-immolazione con un forte impatto in tutto il mondo, alimentando la crescita del movimento di contestazione della guerra in Vietnam. Il primo caso fu quello di Alice Herz, 82 anni, attivista per la pace, che si dette fuoco il 16 marzo 1965 a Detroit. Nella sua lettera d’addio citò i predecessori buddisti. Morì in ospedale dieci giorni dopo.
La reazione pubblica fu particolarmente forte quando, alcuni mesi dopo, il 2 novembre 1965, Norman Morrison, un quacchero di Baltimora, si dette fuoco davanti al Pentagono. Morrison aveva studiato religione al College di Wooster, in Ohio, poi aveva frequentato per un anno il Western Theological Seminary (oggi Pittsburgh Presbyterian Seminary). Nel 1962 si trasferì con la famiglia a Baltimora, dove organizzava incontri di preghiera.
La moglie di Morrison ricorda che il 2 novembre 1965, a pranzo, stavano discutendo di un articolo che descriveva il bombardamento dei villaggi e l’uccisione di bambini nella Guerra del Vietnam. Lei poi uscì di casa per andare a prendere a scuola i due figli più grandi, mentre il marito rimase a casa con la figlia di un anno, Emily. Al suo ritorno a casa non trovò nessuno, senza spiegazione.
L’auto-immolazione di Norman Morrison avvenne non lontano dall’ufficio di Robert McNamara, allora capo del Pentagono, che era presente e testimone oculare del tragico evento. Norman Morrison lasciò la moglie e tre figli (Morrison aveva portato con sé la figlia più piccola al Pentagono e si era dato fuoco davanti ai suoi occhi). Le ragioni del suo gesto erano descritte in modo confuso nella lettera d’addio alla moglie.
Anche il cattolico Roger Allen Laporte va ricordato nella prima ondata di casi di auto-immolazione. Il 9 novembre 1965 si sedette nella posizione del loto davanti alla Dag Hammarskjölda Library, che fa parte del complesso dell’ONU a New York, e si dette fuoco.
Il gesto di Morrison potrebbe essere stato ispirato da Thích Quảng Đức e altri monaci buddisti, che si erano dati fuoco per protesta nei confronti del presidente sudvietnamita, il cattolico Ngo Dinh Diem.
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