Aborrire la guerra
La società civile aborre la guerra (da ab-horrēre che è avere in orrore) ma non basta invocare la pace. La guerra, seppur orribile, può avere fondamento di legittimità a determinate condizioni in relazione ai contesti, alle circostanze, alle modalità con cui la si combatte. In guerra non è tutto possibile. Se ne facciano una ragione i governanti e ne prenda atto la politica, anziché lamentare una sorta di lesa maestà quasi che i reati valgano per gli altri, ma non per sé stessi, … altro che la legge è uguale per tutti! Occorre arginare la pervasività della politica per accorciare le distanze che la separano dalla gente comune, che nella vita quotidiana deve rispettare delle leggi perfino gli errori di punteggiatura.
Criminali o statisti?
Era evidente a qualunque sguardo obiettivo e imparziale (lo stesso che la legge dovrebbe sempre avere) che le aggressioni alle popolazioni civili in Israele e in Palestina sono una condotta in modo criminale. Con la richiesta alla corte di emettere mandati di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti per un verso di Yahya Sinwar (leader del braccio politico di Hamas), Mohammed Dayf Ibrahim al-masri (generale palestinese, comandante delle brigate Izz al-Dīn al-Qassām, braccio militare di Hamas), Ismail Haniyeh (leader all’estero), ma per altro verso di Benjamin Netanyahu e del ministro della difesa Yoav Gallant, il procuratore capo della Corte Penale Internazionale dell’Aja, Karim A. A. Khan [nell’immagine di copertina], ha riportato il conflitto in Terrasanta nell’alveo del rispetto delle norme internazionali complementari a quelle nazionali che la comunità internazionale si è data per perseguire reati che la riguardano nel suo insieme come i crimini contro l’umanità, il genocidio e i crimini di guerra. A questi si è poi aggiunto il crimine di aggressione, invocato da Israele per giustificare con una interpretazione esorbitante del diritto alla difesa, esercitato oltre misura con ostinata perseveranza, senza volere sentire ragioni da nessuno, neanche dai governi amici, mettendosi in una dannosa condizione di isolamento internazionale che ora bisogna superare se si vuole veramente costruire la pace rivolgendosi alle popolazioni civili perché si liberino di una classe politica estremista. D’altro canto, molti dei sostenitori della causa palestinese hanno con Hamas provato a mettere in discussione lo stesso diritto di Israele all’esistenza, anche da questa parte bisogna che le frange estremiste vengano isolate e messe in condizione di non nuocere.
È il primo passo, certo, c’è da vedere innanzitutto se la Corte accoglierà la richiesta e quali sviluppi prenderà la questione, ma è un segnale importante. Ci sono elementi che andranno valutati con attenzione studiando gli atti: sul fronte palestinese si chiede di perseguire esecutori (i combattenti delle brigate Al Qassam) e mandanti (il braccio politico), mentre nel caso di Israele i militari vengono lasciati fuori, quasi a sottintendere minore autonomia o addirittura un dissenso interno al corpo militare, che tuttavia, se ha eseguito ordini criminali, dovrebbe mantenere una quota di responsabilità in capo. Sono dettagli da giuristi con riverberazioni di carattere politico che si vedranno in seguito. Interessante fin d’ora registrare la risentita reazione degli uni e degli altri nel trovarsi accomunati al nemico in ambito criminale, quasi a considerare la giustizia giusta solo quando a noi favorevole e l’insofferenza della politica al vedersi giudicata.
La legge vale per tutti
Le reazioni della politica appaiono scomposte, così come nella vita quotidiana la politica pretende spesso di assoggettare i deboli al rispetto di leggi che vogliono forti con i deboli e deboli con i forti. Nel 2020 quando la CPI autorizza l’indagine della Procura Internazionale sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dal 2003, il governo degli Stati Uniti decide di sanzionare singoli funzionari della corte, l’allora presidente Trump autorizza con l’ordine esecutivo 13928 sanzioni economiche, congelamento dei beni e restrizioni di viaggio contro i membri della CPI direttamente coinvolti nell’indagine sui soldati e ufficiali dell’intelligence statunitensi, attaccando l’indipendenza giudiziaria dell’istituzione e la sua imparzialità nelle procedure penali che potrebbe compromettere l’accesso alla giustizia da parte delle vittime. La stessa Amministrazione Trump aveva già ammonito nel dicembre del 2019 la Corte per l’avvio di indagini per possibili crimini commessi in Cisgiordania, a Gerusalemme est e a Gaza: pensate un po’, pretendo di non farti nemmeno indagare! L’attivismo dei politici statunitensi si ripresenta il 24 aprile di quest’anno, quando alcuni senatori scrivono al procuratore generale Khan che “Se emetterete un mandato d’arresto contro la leadership israeliana, lo interpreteremo non solo come una minaccia alla sovranità di Israele, ma anche alla sovranità degli Stati Uniti. Il nostro Paese ha dimostrato con l’American Service-Members Protection Act fino a che punto ci spingeremo per proteggere tale sovranità. (…) Prendete di mira Israele e noi prenderemo di mira voi. Se andrete avanti con le misure indicate nel rapporto, ci muoveremo per porre fine a tutto il sostegno americano alla CPI, sanzioneremo i vostri dipendenti e associati e bandiremo voi e le vostre famiglie dagli Stati Uniti. Siete stati avvertiti.”
Non è stato un fulmine a ciel sereno, ma un salutare richiamo all’obbligo di rispettare le leggi, tutte, e prime tra tutte le norme del diritto internazionale. Il campanello, anzi la campana d’allarme aveva risuonato vigorosamente con l’ordinanza della corte n. 192 del 26 gennaio 2024 con cui la Corte Penale Internazionale aveva chiesto (inascoltata) a Israele di fare il possibile per “prevenire possibili atti genocidari nella Striscia di Gaza e di consentire l’accesso agli aiuti umanitari”. La richiesta era stata ignorata con arroganza da Israele che faceva affidamento sull’ombrello che gli USA non hanno mai fatto mancare, nonostante le critiche per la tragedia scientemente messa in atto a Gaza dopo l’insopportabile massacro del 7 ottobre, quasi a considerare la superpotenza alleata un cane fedele che abbaia, ma che non morde. A mordere è stata costretta invece la corte, nonostante minacce e intimidazioni ricevute dalla politica. Ora dovrà tenerne e renderne conto.
Corte Penale Internazionale
La CPI (in italiano e francese o ICC in inglese) ha legami con le Nazioni Unite (per esempio il Consiglio di sicurezza ha il potere di deferire alla Corte situazioni che altrimenti non sarebbero sotto la sua giurisdizione), ma non è un organo dell’ONU e non va confusa con la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite, anch’essa con sede all’Aia. La Corte ha competenza complementare a quella dei singoli Stati, nel senso che può intervenire se e solo se gli Stati non possono (o non vogliono) agire per punire crimini internazionali.
L’indipendenza dei tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario è un pilastro della democrazia. Per esercitare il proprio ruolo di garanzia, il potere giudiziario dev’essere indipendente. Anche quello internazionale. Per questo bisogna sostenere la Corte Penale Internazionale da una politica pervadente, che, viziosamente, pretende di svincolare il potere politico legislativo ed esecutivo da qualunque controllo. Guardiamoci da chi riduce gli spazi di tutela e garanzia. I tentativi d’interferenza e condizionamento sono numerosi, lo abbiamo visto con la contestata riforma giudiziaria israeliana del 2023, lo vediamo da noi con la proposta riforma detta del premierato (che vuole drasticamente ridurre i poteri di controllo e garanzia del Presidente della Repubblica), e in numerosi altri casi come le minacce mosse ai giudici della CPI nel tentativo d’impedire l’incriminazione ora richiesta.
La CPI ha giurisdizione sovranazionale e può processare individui (non Stati) responsabili dei crimini di propria competenza commessi sul territorio e/o da parte di uno o più residenti di uno Stato parte, nel caso in cui lo Stato in questione non abbia le capacità o la volontà di procedere in base alle leggi di quello Stato e in armonia con il diritto internazionale. Ne consegue che anche i crimini commessi sul territorio di uno Stato parte, da parte di un cittadino di uno Stato non parte, rientrano nella giurisdizione della Corte. I paesi che aderiscono allo Statuto di Roma sono 124 mentre altri 32 paesi hanno firmato, ma non hanno ratificato e non intendono ratificare il trattato (tra cui Israele, Russia, Stati Uniti e Sudan). Tra i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, hanno aderito alla Corte penale internazionale Francia e Regno Unito, mentre non hanno aderito USA, Cina e Russia.
È dunque evidente come le grandi potenze non hanno aderito quasi a pretendere impunità per loro e per i paesi loro amici, alleati o sotto la loro protezione. I governanti devono digerire che agire in modo discrezionale fuori dalle regole è manifestazione di libero arbitrio che comporta precise e inevitabili responsabilità. È un segnale importante di cui la politica dovrebbe dar tesoro e di cui l’opinione pubblica internazionale dev’essere consapevole per schierarsi a difesa del diritto e contro l’arroganza dei potenti, tenendo conto che non è competenza della corte promuovere la pace, quella va raggiunta con un orientamento politico che guardi allo sbocco diplomatico, avviando trattative e mediazioni tra i belligeranti sulla base di nuovi indirizzi politici imposti dalla popolazione civile e dall’opinione pubblica, che deve dimostrarsi capace di smarcarsi da governanti sospettati di crimini così gravi e di isolare le frange oltranziste, sostenendo e rafforzando le istituzioni internazionali.
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