Mi ha sempre infastidito e continua ad infastidirmi sentire poeti e studiosi prendere le distanze e cercare di proteggere i propri versi, o quelli altrui che apprezzano, dalla cosiddetta «funzione civile» della poesia, quasi si trattasse di salvaguardare se stessi e la scrittura poetica da una pericolosa infezione. Il senso che probabilmente attribuiscono a tale perniciosa ed esecrabile funzione proviene, a mio modo di vedere, da un vecchio retaggio ideologico, per il quale ancora si suole definire «civile» una poesia caratterizzata da intenti strumentali o addirittura propagandistici a sostegno dell’una o dell’altra idea dottrinaria del mondo. Con tale tenace fraintendimento, tuttavia, si finisce col negare alla scrittura poetica di essere quello che da sempre è stata ed è: una meravigliosa risorsa per la civiltà, vale a dire una continua ed efficace «macchina linguistica di civilizzazione» dell’esperienza umana sotto ogni cielo e in ogni passaggio del tempo che la riguarda.
Che cosa è, infatti, la civiltà umana se non una cura per la salvaguardia e la riproduzione della vita e un amore per le manifestazioni, in essa, della bellezza? Vita e bellezza che, per essere davvero protette e accudite, devono essere partecipate attraverso un uso rivelatore e sapiente della lingua, che possa chiamare chiunque legga alla condivisione? Sembrerebbe cosa ovvia l’affermare ciò (chiedetelo a Leopardi), ma in epoca di solipsismi ombelicali, ripiegati in autoreferenziale e magnifico appartamento da ogni dimensione corale e comunitaria, vale la pena di ribadirlo. Se non altro per presentare un autore, come Luca Pizzolitto, che, tra tanti altri che veniamo interrogando su queste pagine, fa dell’attenta presenza a se stesso, alla propria insufficienza e alla propria fragilità, il punto di partenza per la liberazione di un canto dedicato alla forza della vita come dono che non si fa sopraffare dal dolore, neppure da quello estremo del finire e del morire. E risorge nella scrittura, liberando, da una sofferenza accolta e con-patita, sensazioni di gioia.
«Resistere alla mancanza ancora per poco / resistere all’inverno ancora per poco // Riflesso di gioia nel ferale tormento, / le cose andate senza memoria // Disma, ora trema e fiorisce l’abisso».
Oppure:
«Inquieto stare dei corpi, / sacre albe di luce // bicchieri vuoti // trasfigura l’attesa, / l’umano tormento / in danza».
Oppure, ancora:
«Non è passato invano l’inverno, / non cede al niente il ricordo, / il morso guasto d’ogni addio. // Aprile è sfiorito sul viso, / nuda mancanza di parole // redenta croce, amato sguardo».
Ho parlato di gioia, non di felicità; questa è una condizione ineffabile che si suppone permanente e che non è, pare, propria di questo mondo sublunare, ma la prima è sensazione breve e intensa che rapisce in un solo attimo irrorante e che, invece, a volte ci appartiene. Fernando Bandini, un grande del nostro Novecento, diceva che scrivere poesia è funzione della gioia e lo diceva perché, credo, fosse per lui un’esperienza di pura gioia il sentire che la parola che scriveva, poteva toccare o anche solo sfiorare (e trattenere in sé) un nervo sensibile della condizione umana – che o l’epoca attraversata o la semplice situazione personale rendevano più esposto – e gli consentiva poi di parteciparne a chiunque per condividere, cioè per «spartire insieme ad altri» e per consolare, cioè per «stare con chi è solo», facendo così di ogni suo atto poetico un gesto comunitario sempre accogliente e spesso accolto. La gioia è nella scrittura, è nella parola che dice ciò che prima era non detto, non detto ancora. E lo partecipa, lo restituisce.
Ma perché avvenga ciò, il poeta deve affrontare la fatica della parola che è sempre capacità di calibrare fra loro la scelta di una postura e l’approntamento di una tecnica, cioè di uno stile. E la maturazione di uno stile implica un lungo e costante esercizio di pazienza, di tenacia e di grande umiltà. Fra i poeti più giovani che si sobbarcano questa fatica, il torinese Luca Pizzolitto, in questi ultimi anni, ha dato continuità di ricerca e di laboratorio a un percorso poetico, intrapreso da tempo, che oggi raggiunge soglie di maturazione e di originalità qualitativamente indubbie con la trilogia formata da tre scansioni di una sola rapsodia, raccolta ne La ragione della polvere (2020), in Crocevia dei cammini (2022) e infine in Getsemani (2024), libri tutti proposti da peQuod editore.
Si noti come ciascuno di questi titoli offra una lettura metaforica di quale sia l’idea di poesia cui Pizzolitto attende; e si noti come proprio il titolo dell’ultima raccolta alluda alla postura particolare scelta da questo autore. Getsemani è infatti, il nome del giardino evangelico (Frantoio, in aramaico), dove Gesù si reca a pregare accompagnato da Pietro, Giovanni e Giacomo perché veglino con lui in quell’ultima notte prima del tradimento e della passione; gli apostoli però si addormentano più volte e lo abbandonano al dolore, alla paura e al silenzio di ogni conforto che il Cristo deve affrontare, in tutta la sua fragilità di uomo, di fronte al passaggio estremo e, insieme, risolutore dell’intera sua vicenda terrena. Come ogni accadimento del racconto evangelico, anche questo si presta alla metafora di una condizione esistenziale estrema, certo, ma possibile, di solitudine e di angoscia, che, nella prefazione al libro, Roberto Deidier descrive con parole di rara pregnanza:
Quello che accade nel giardino evangelico non è il momento che precede, non è la sospensione, né l’attimo salvifico; nella vicenda che ci è giunta non c’è spazio per il kairòs, per la quiete prima della tempesta, prima che tutto precipiti. […] Non c’è grazia alcuna in quanto sta per accadere, ma solo uno scempio gratuito, sproporzionato. […] ed è l’istante in cui la preghiera si fa supplica impossibile, tentativo di sottrarsi; è in sostanza, il momento in cui quel dio ineffabile viene negato e la scena è interamente occupata dalla sua incarnazione, dal suo simulacro, che sembrerebbe ambire a una propria, improvvisa autonomia.
Tuttavia:
Nessuna catastrofe è mai definitiva, suggerisce il Getsemani, anche nell’ora della prova più dura; ciò che dapprima si mostra in tutta la sua potenza distruttiva è in realtà il volto feroce di un evento rigenerativo.
di Luca Pizzolitto
peQuod editore, 2024
Prezzo: euro 14,00
Quella del libro di Luca è una poesia fortemente radicata nell’esistenza, nella trama della quale non si nasconde, ma anzi va a cercare le ferite, facendole luogo germinale del suo canto pacato, costruito con una tecnica di grande pulizia formale e di attenta presa in cura di ogni possibile potenziamento semantico della parola, sempre però proposta nell’essenzialità del suo nitore, quasi a cogliere «il primo sussulto della lingua, / la vestizione, a terra, di stanche, / nude parole». E la materia dolorosa della vita viene così accolta, trattenuta e trasportata, e infine trascesa in un verso breve, che potenzia le singole parole isolandole dentro una metrica dalla prosodia spezzata: è la sonorità delle parole che conta più della musicalità del racconto. Ѐ, così, una parola che resiste, che fa argine. Ne viene una poesia resistenziale, dunque, che si misura fino in fondo con l’intollerabile e lo scandalo della sofferenza e della morte, come il Cristo del Getsemani, ma che insieme accetta l’angoscia della solitudine e dell’abbandono come luogo spirituale dell’attesa, della sete e della prova, dal fondo del quale nuova vita e nuova luce possono rigenerarsi:
«E a chi resta, resta la sete e il pianto, / il giogo eterno della memoria, / l’umano niente nel farsi polvere / fuoco, sostanza stessa di dio. // Ѐ scesa la notte sui monti, tra le malghe / che amavi tanto. Ora attendiamo soli / il giorno, nel nascere al nuovo canto. // Il tuo cuore è cieli quieti e lontananza».
Il tempo esteriore, il Kronos, in cui corrono i dolori, i fallimenti e gli orrori dell’esistenza e della storia, nelle quali l’umano si disperde e si consuma, necessita del Kairos, il tempo sospeso dell’attesa, il tempo gravido dello spirito, il tempo della poesia che opera nell’umano la consapevolezza della civiltà attraverso le sue parole di comprensione e di senso. La civiltà della scrittura poetica come luogo dell’esperienza umana in cui la morte e il finire delle cose non hanno l’ultima parola:
«Cerca ora solo la bellezza / quiete, la soglia stretta / della contemplazione // Spegni la luce // Tessi la tela, l’ordito / freddo del fiore che / nasce da queste tue spine».
Vale la pena rammentare che, antropologicamente, le civiltà nascono quando, con riti funebri e sepolture, il blocco assurdo della morte viene inserito e accolto nella continuità della vita? Così fa da sempre anche la poesia.
«Tutto splende e fiorisce / nel farsi attesa della sera»: sembra proprio non sia per caso che l’hegeliana nottola di Minerva inizi il suo volo sul far del crepuscolo o che, in primavera, solo a notte canti meraviglioso l’usignolo; e fino al sorgere del mattino.
In copertina: usignolo, foto di Andrey Strizhkov su Unsplash
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