Il processo ai 47 esponenti del movimento democratico che si è celebrato ad Hong Kong nei giorni scorsi segna la fine di questa straordinaria città che per sette decenni è stata il punto di incontro tra la storia della Cina e quella del resto del mondo. Un po’ per volontà dei governi che si sono succeduti nel Regno Unito – del quale è stata una colonia per un secolo e mezzo – e della Cina, ma soprattutto grazie alla creatività, alla flessibilità, alle eccezionali capacità dei suoi abitanti britannici e cinesi Hong Kong era diventata qualcosa di unico, di irripetibile, una città allo stesso tempo cinese, britannica e internazionale.
Rimarranno i grattacieli di Central disegnati dai più prestigiosi architetti del mondo, rimarranno i mercatini notturni di Kowloon, rimarrà (speriamo) il favoloso Star Ferry – il traghetto che porta dalla terraferma alla vera e propria isola di Hong Kong – ma con tutto ciò la città non sarà mai più la stessa.
Tra i 47 processati – due assolti, 31 che si sono dichiarati colpevoli e 14 condannati – ci sono alcuni dei volti più noti del movimento democratico del territorio: l’ex-leader studentesco Joshua Wong (che oggi ha 27 anni), il professor Benny Tai (59), l’attivista Leung Kwok-hung (68), detto “Lunghi Capelli” per via della sua chioma fluente. Con loro sono alla sbarra giovani attivisti e vecchi politici, in una rappresentanza completa della società hongkonghese. Le sentenze contro coloro che si sono dichiarati colpevoli e coloro che sono stati condannati saranno annunciate in un futuro non precisato. I “leader” rischiano la condanna a morte e l’ergastolo. I tre che abbiamo nominato – Joshua Wong, Benny Tai e “Lunghi Capelli” – sono senza dubbio stati dei leader. Ricordiamo che in Cina le condanne a morte vengono comminate a migliaia ogni anno – il numero è tenuto segreto dal governo di Pechino – e sono puntualmente eseguite.
Nel 1997, quando scaddero i 99 anni per i quali la dinastia dei Qing aveva ceduto la città alla Corona Britannica, parve che si fosse realizzato un miracolo. Due leader pragmatici come la britannica Margaret Thatcher e il cinese Deng Xiaoping escogitarono una geniale formula che fu chiamata “un paese, due sistemi”. In base a quell’accordo, Hong Kong avrebbe mantenuto il suo sistema semi-democratico per cinquant’anni, cioè fino al 2047, mentre la Cina avrebbe continuato a essere governata da un partito unico autoritario, il Partito Comunista Cinese.(PCC) L’accordo si concretizzò nella Basic Law, la cosiddetta “mini-Costituzione” di Hong Kong, che avrebbe regolato la vita politica dei circa 7,5 milioni di abitanti del territorio.
Con l’aria che tirava a quei tempi, nessuno aveva dubbi sul fatto che nei cinque decenni previsti dall’accordo la Cina forse non sarebbe diventata un paese democratico sul modello occidentale ma certamente si sarebbe evoluta in modo da poter convivere con una Hong Kong semidemocratica. Nelle speranze della leadership cinese c’era la possibilità che il successo della formula “un paese, due sistemi”, potesse rappresentare un modello per una unificazione pacifica con Taiwan.
Oggi questa affermazione fa ridere (o piangere, come preferite) ma allora era così.
Lo scollamento tra la società di Hong Kong e il PCC cominciò presto, nel 2003, quando milioni di hongkonghesi invasero le strade per respingere l’ dea del governo di varare una legge sulla sicurezza nazionale come previsto dalla Basic Law. A Pechino erano gli anni dei “riformisti” Hu Jintao e Wen Jiabao (qualcuno se lo ricorda?), che chiusero un occhio. La luna di miele durò fino al 2008, l’anno delle Olimpiadi di Pechino, che videro uniti nell’orgoglio i cinesi della Repubblica Popolare e quelli di Hong Kong.
Nel 2008 successero molte cose: le Olimpiadi ma anche una sanguinosa rivolta in Tibet, il devastante terremoto nel Sichuan ma soprattutto – per quanto riguarda la leadership cinese e i suoi orientamenti – la crisi finanziaria negli Stati Uniti. Fu questa – la crisi finanziaria – a far pensare ai cinesi che fosse arrivata la “crisi finale del capitalismo” prevista dai testi marxisti ai quali il PCC fa ancora riferimento. Fu allora che prese definitivamente il sopravvento l’ala dogmatica del Partito, in un processo che si concluse qualche anno dopo con l’elezione di Xi Jinping a segretario del Partito, presidente della Repubblica e presidente della commissione militare del Partito, cioè capo delle forze armate.
Intanto, Hong Kong stava andando nella direzione opposta. Le nuove generazioni, nate e cresciute negli anni nei quali si era sviluppata una forte identità locale – gli hongkonghesi si consideravano una popolazione a parte, un po’ cinese ma anche molto internazionale – cominciavano a preoccuparsi del futuro: okay, “un paese e due sistemi” fino al 2047, ma dopo? Quando i ventenni dei primi anni Duemila sarebbero stati vicini alla pensione e i loro figli si sarebbero affacciati sul mercato del lavoro, cosa sarebbe successo? Ci sarebbe stata ancora la dittatura del Partito comunista? E in caso contrario, cosa l’avrebbe sostituita? In poche parole, cosa ne sarebbe stato del sogno di una Hong Kong di fatto autogovernata, separata e differente dalla Cina ma che della Cina avrebbe fatto parte? È con questi interrogativi nella testa che nel 2014 i gruppi democratici organizzarono le manifestazioni contro la ventilata riforma della legge elettorale del territorio. Secondo la decisione dello Standing Committee dell’Assemblea nazionale del Popolo cinese – vale a dire del PCC – gli hongkonghesi avrebbero sì eletto il loro Chief Executive (una cosa a metà tra un sindaco e un capo di governo) ma tutti i candidati avrebbero dovuto essere approvati da Pechino. Circa due milioni di cittadini parteciparono alle proteste, che si protrassero per tre mesi senza ottenere risultati.
Una nuova ondata di manifestazioni, anche questa volta con la partecipazione di vaste fette della popolazione del territorio, fu innescata nel 2019 da una riforma della legge sull’estradizione da Hong Kong verso la Cina popolare. Nel novembre dello stesso anno i gruppi democratici stravinsero le elezioni locali.
La risposta di Pechino fu chiara: pochi mesi dopo le elezioni, nel giugno 2020, Pechino vara la national security law che elenca quattro nuovi tipi di reato: secessione, sovversione, terrorismo e collusione con forze straniere. Inoltre, la nuova legge concede vasti poteri alle forze dell’ordine per reprimere e prevenire quei reati Gli arresti cominciano subito dopo: centinaia di cittadini finiscono in galera e i 47 sono tra questi.
Secondo Maya Wang, direttrice per la Cina di Human Rights Watch, con il processo ai 47 la Cina ha dimostrato
il suo profondo disprezzo sia per il processo politico democratico sia per lo stato di diritto…tutto quello che gli hongkonghesi chiedevano era la possibilità di scegliere liberamente il proprio governo… la democrazia non è un crimine, nonostante quello che il governo cinese e il tribunale di Hong Kong che è al suo servizio possano sostenere.
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