L’aspettavamo da venticinque anni, da quella meravigliosa notte moscovita in cui il Parma di Malesani, battendo 3 a 0 l’Olympique Marsiglia con i gol di Crespo, Vanoli e Chiesa, aveva alzato al cielo una Coppa UEFA che da allora sembrava stregata. E ora che è di nuovo in Italia (anche se adesso si chiama Europa League), grazie al sontuoso 3 a 0 con cui l’Atalanta ha piegato in finale il Bayer Leverkusen di Xabi Alonso, imbattuto da cinquantuno gare, analizziamo la portata dell’evento. Nella scomparsa della provincia italiana, nell’incapacità di affermarsi con un genere di squadre che negli anni Novanta faceva la differenza, rendendo il nostro campionato il più bello del mondo, e nella regressione del ceto medio pallonaro, così simile a ciò che è accaduto nell’assetto socio-economico del Paese, sono racchiuse, infatti, le ragioni del nostro declino e, si spera, oggi, con quest’inversione di tendenza, della nostra rinascita.
Fra le due realtà, però, c’è una differenza che è bene sottolineare: il Parma di Tanzi, come avremmo scoperto in seguito, si basava su un’illusione; l’Atalanta Bergamasca Calcio della famiglia Percassi non ha mai compiuto il passo più lungo della gamba, ha i bilanci in ordine ed è un modello gestionale, oltre che sportivo, dal quale molte altre società farebbero bene a prendere esempio. Del resto, quelli erano gli anni ruggenti della globalizzazione liberista, della “fine della storia”, della crescita illimitata, del feticcio del PIL, dell’economia e della finanza poste al di sopra dell’etica e della politica e di altre follie che hanno condotto non il calcio ma l’intero pianeta nel baratro.
Questa, al crepuscolo degli epigoni di Fukuyama e dei loro emuli in ambito calcistico, è invece l’epoca della presa di coscienza, della paura del futuro, di una nuova generazione contestatrice, simile in alcuni aspetti a quella che allora criticava quell’abbaglio collettivo, pagando per questa lotta un prezzo altissimo, anche sotto forma di scherno e derisione, e dell’impossibilità di replicare quel percorso che conduce all’inferno. Ci siamo già, e ormai se n’è accorto chiunque. Pertanto, la banda di Gasp è stata costruita giorno dopo giorno, con pazienza e tenacia: un prodotto artigianale, figlio, come detto, della miglior provincia italiana, di una bottega in cui regna sovrana l’armonia, frutto della cura e della sapienza di un falegname che ha saputo tirar fuori tanti bambini dai pezzi di legno che gli sono stati messi a disposizione. Legno di prima qualità, intendiamoci, ma non è un caso se l’Atalanta, prima di questo Mastro Geppetto della panca, non aveva mai vinto quasi nulla mentre adesso è sul tetto d’Europa, ammirata ovunque per il suo gioco, per la sua solidità, per la capacità di valorizzare i giovani talenti, per il coraggio di rinnovarsi continuamente negli uomini e negli schemi e per la totale assenza di timore reverenziale nei confronti di qualunque avversario. Gasp non ha paura ma rispetto, e trasmette questo insegnamento ai suoi ragazzi partita dopo partita, chiedendo loro sacrificio e impegno, massima dedizione e la capacita di stringere i denti nei momenti difficili. Tuttavia, come ha spiegato lui stesso, non è la costrizione a fare la differenza ma la capacità di convincere dei ventenni che valga ancora la pena di rinunciare a qualcosa a livello individuale per diventare grandi come comunità. Un messaggio in controtendenza, rivoluzionario nella stagione dell’individualismo sfrenato: una sfida al sistema portata al massimo grado, al punto che ci domandiamo se possa resistere una favola del genere, se non ci saranno dei seri tentativi di contrastarla e smantellarla, se il mainstream non comincerà ad avvertirla come una concreta minaccia al castello di bugie, eccessi e dissolutezze su cui ha edificato il proprio potere. Ben venga, finché regge, questo miracolo!
L’euforia incontenibile dello svedese Glenn Strömberg, idolo dell’Atalanta dal 1984 al 1992
Che si prenda atto che un altro calcio, e un altro mondo, è davvero possibile! Il paragone con il Parma che fu, difatti, è fuorviante, perché quello era uno squadrone composto da fuoriclasse, da Thuram a Cannavaro, mentre nessuno, prima di ieri sera, avrebbe considerato un campione Ademola Lookman (autore della tripletta che ha steso i tedeschi), nessuno avrebbe speso più di tanto per Djimsiti e compagni, nessuno avrebbe creduto fino in fondo nella possibilità concreta di veder messo in discussione l’impero di cartapesta allestito negli ultimi trent’anni da chi ha snaturato il calcio e, con esso, le nostre vite. Il Gasp e i suoi incoscienti scudieri, al contrario, hanno restituito al pallone la dimensione umana che gli era stata tolta, e ci vien da ridere se pensiamo che pochi anni fa c’era persino chi si domandava cosa ci facesse l’Atalanta in Champions, come se la qualificazione alle coppe europee dovesse essere appannaggio dei soliti noti. Oltretutto, considerazioni simili suonano ancora più assurde se riflettiamo sul fatto che a rendersene protagonisti sono i cantori del merito, virtù che evidentemente vale per gli altri ma non per chi pensa di poter far parte dell’élite per diritto divino.
L’Atalanta di Percassi e Gasperini ci ha restituito la speranza, magari vana, che qualcosa possa cambiare, che si possa entrare nella storia senza mai scadere nell’arroganza, che si possa dare spazio alle nuove generazioni senza aver paura che non rendano subito al massimo e che si possa varare un progetto decennale, alzare un trofeo e guardare avanti senza perdere né la spensieratezza né l’allegria di quando si era all’inizio del percorso.
Non cambiate, cortesemente, a costo di vincere qualche coppa in meno. Innanzitutto, perché lo dovete alla gente di Bergamo, che vi è rimasta a fianco anche quando, quattro anni fa, piangeva i propri cari uccisi dal Covid, assistendo dalla finestra di casa alla sfilata dei camion militari con dentro le bare dirette al crematorio. Ma, soprattutto, perché chi ha provato a strafare o è finito nella polvere o, comunque, ha dovuto limare non poco le proprie ambizioni.
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