Paolo Macry, La destra italiana. Da Guglielmo Giannini a Giorgia Meloni, Laterza, Roma-Bari 2023.
Paolo Macry, storico contemporaneista, professore emerito dell’Università di Federico II di Napoli, propone un percorso sulla destra italiana, a partire dalla fine della seconda Guerra mondiale, lungo l’arco della storia repubblicana fino ai giorni nostri, come dice il sottotitolo: “da Guglielmo Giannini a Giorgia Meloni”. Si potrebbe presentare come una forma di biografia intellettuale e storica di una parte del paese – come, a tal proposito, non ricordare gli studi di Norberto Bobbio sulle culture politiche italiane. Nel corso della trattazione, di natura storico-politica, emerge la tesi che la destra italiana rappresenti non solo una parte ma, in qualche modo, le caratteristiche fondamentali del popolo italiano, il suo orientamento politico dominante, incline alla conservazione. Almeno a chi scrive appare questo tra le righe. Una autentica e profonda Italia che, quando politicamente si manifesta, lo fa principalmente con la destra politica oppure con formazioni che assumono storicamente la funzione di essere alternative alla sinistra politica, come è stato il caso della Democrazia Cristiana. Ma questa destra politica pur assumendo alcune caratteristiche di fondo unitarie e, potremmo dire, arci-italiane, in realtà anch’essa è variegata e articolata: vi sono diverse destre, e anche in questa ultima sua esperienza di governo, quella di Giorgia Meloni, si tratta di capire se la destra sarà rappresentata compiutamente da un partito conservatore di stampo liberale oppure da proposte politiche ricette nostalgiche di pulsioni illiberali, coltivando un populismo sovranista. La destra dunque intesa come spirito di conservazione è il carattere politico dominante dell’Italia e, per Macry, anche per una operazione ideologica e politica strumentale, l’equazione destra=fascismo è in realtà una forma di autoinganno politico: il fascismo ha interpretato e rappresentato questo carattere politico dominante, ma non ne è l’unico depositario, e, quando per ragioni storiche evidenti – ma non molto discusse per la verità nel saggio – non ha potuto più rappresentarlo, è stato interpretato da altre forze politiche, anche non compiutamente di destra, a volta non di destra ma costrette, come la Dc, per ragioni storiche ad assumerne la rappresentanza, in funzione antitetica alla sinistra. Una sinistra, quella che descrive Macry nel suo saggio di ricostruzione, in grado di monopolizzare culturalmente la Resistenza – fenomeno che Macry ridimensiona dal punto di vista sia quantitativo che qualitativo – e progressivamente, prima con i socialisti e poi con i comunisti, di entrare nell’area di governo e di indirizzo della repubblica, formando per un lungo trentennio, almeno dal 1960 al 1994 insieme alla Dc e agli altri partiti laici l’assetto politico dominante tale da escludere la destra politica dal gioco politico reale. Tuttavia questo periodo storico per Macry non va letto in termini positivi, sia dal punto di vista della perfomance di governo, sia da quello della capacità di rispondere alle domande del paese e di motivare la fiducia dei cittadini, infatti ha prodotto una situazione di logoramento che ha alimentato una sfiducia di fondo che ha posto le basi, al momento del crollo della cosiddetta Prima Repubblica (che aveva appunto messo all’angolo la destra politica, ma non quella culturale e sociale), di un ritorno della destra al potere negli anni novanta con Berlusconi, Forza Italia e nuovi partiti come Alleanza Nazionale e la Lega Nord.
Ma andiamo con ordine e consideriamo le cronologie proposte, i passaggi di fase proposti da Macry, una operazione eminentemente storiografica, tipica appunto dell’interpretazione storica.
La tesi di fondo di Macry è quella che la destra in Italia rappresenti politicamente l’orientamento dominante in Italia. Vi è però stata paradossalmente una ragione perché ciò non si sia manifestato in tutta la sua forza, ossia la reazione al fascismo – scriverei io – o – scriverebbe, ha scritto Macry? – il fatto che proprio l’esperienza del fascismo abbia reso possibile, per via retorica e ideologica-egemonica, operare una equazione destra=fascismo che ha messo all’angolo, rimosso, oscurato, limitato la destra italiana. Ma allora se questa ipotesi è verosimile o vera, si tratta di comprendere però come si possa definire la destra. Vi è quindi un problema di definizione concettuale che però Macry non opera, rimanendo ad una ricostruzione storica in cui la destra bene o male possa essere identificata o attraverso la concezione linguistica di riconoscimento e quindi una serie di concetti politici non analizzati e problematizzati ma dati come premesse. Ecco allora che la destra diventa l’opzione monarchica conservatrice in termini istituzionali, o anche il fenomeno dell’Uomo Qualunque che rappresenta una cultura antiparlamentarista, oppure – quella migliore non solo in relazione alla destra ma anche in relazione all’espressione politica generale del paese – la Dc di De Gasperi – una versione liberale e conservatrice. Ma certo permane la destra legata nostalgicamente all’esperienza del fascismo, che sa attrarre anche l’orientamento monarchico, e che si impasta di elementi conservatori non fascisti, anche potenzialmente emancipabili dal fascismo, che tuttavia per responsabilità del gruppo dirigente missino e in particolare di Almirante, ambiguamente o apertamente, rimangono intrappolati in un partito, l’Msi, che rimane ai margini e non sfrutta mai le occasioni per entrare nella dialettica politica in termini di riconoscimento generale, anche per un anticomunismo che si manifesta come non esclusione netta di vie antidemocratiche e violente. Macry sostiene che l’Msi con Almirante non riuscì mai a storicizzare il fascismo (sebbene – ma questo è un ricordo personale, documentabile – in realtà retoricamente o meno Almirante in alcune occasioni assunse una difesa storicizzante del fascismo).
Di questo percorso della destra, almeno nella prima parte della repubblica, Macry analizza i tornanti che non hanno permesso che la destra si manifestasse e si strutturasse nell’offerta politica come una soggettività in grado di produrre un protagonismo politico decisivo. Essenziale fattore è stato l’indirizzo prevalente della Dc che a partire dagli anni sessanta, ma anche prima, rifiuta sempre di più l’opzione conservatrice per aprirsi alla sinistra italiana. La Dc riesce, anche utilizzando ambiguamente il suo ruolo di riferimento di una Chiesa cattolica preconciliare e di argine al comunismo, a rappresentare la maggioranza degli italiani, e dopo la fase conciliare, anche su pressioni popolari e di piazza, si pensi alla vicenda che blocca l’esperienza Tambroni, mantenendo questa capacità perseguirà una impostazione di centro aperto alla sinistra. Prima del centrosinistra però vi sono gli anni cinquanta e questi anni sono importanti perché comunque, per via di De Gasperi e del suo rifiuto anche di indicazioni romane, la Dc si propone un disegno centrista, in grado di raccogliere la destra e quindi svuotarla politicamente. Macry utilizza l’espressione di “invenzione della Dc”, in effetti in Italia si determina un percorso per cui la Dc riesce ad assorbire, a rappresentare e a coprire la destra italiana. Con De Gasperi e il centrismo, fino alla sconfitta del 1953, e della riforma elettorale proposta da De Gasperi, a giudizio di Macry, si profila una soluzione vicina a quella di fare della Dc un grande partito liberale e conservatore, in grado di rappresentare al meglio la destra italiana. Ma questa ipotesi con la sconfitta del centrismo e poi il fallimento del governo Tambroni viene a declinare. L’idea del governo governante, non ostaggio della negoziazione dei partiti, viene sconfitta. Si delinea qui una interpretazione di Macry sul carattere auspicabile della destra politica. Nel 1960 vi è la vittoria della piazza antifascista, che blocca, come già ricordato, l’apertura di Tambroni speculare ad il percorso dell’Msi di Michelini di far sì che la destra postfascista potesse reinserirsi nel gioco politico. Questo indirizzo però sarà bloccato dallo sviluppo successivo, e rafforzato dalla scelta ambiguamente eversiva di Almirante che di fatto rinchiuse l’Msiin una logica di recinto di reduci. Nello sfondo, sebbene a contrario, Macry conferma una lettura che nel comunismo italiano sarà caratteristica fino alla fase del cosiddetto Compromesso storico e cioè la consapevolezza che, per non ripetere l’errore delle forze non fasciste negli anni Venti, di divisione del campo socialista, laico e cattolico, la sinistra non potesse che riproporre sempre la logica unitaria togliattiana del patto costituzionale. Secondo Macry la rivolta di Genova contro il congresso dell’Msi apre una fase di conventio ad excludendum nei confronti dell’Msi che durerà fino al 1994. Progressivamente negli anni sessanta, settanta e ottanta si profilano quindi due politiche speculari nello spettro politico italiano: da un lato l’Msi che si chiude in una logica nostalgica e di reducismo, fortemente caratterizzata, non solo dalla marginalità politica, ma anche da un anticomunismo viscerale, e dall’altro il Pci in grado di mettere in campo in modalità nuove e sempre più efficaci il suo peso nella Repubblica, aprendosi ad una logica unitaria e di collaborazione con tutte le principali forze politiche radicate nelle masse popolari, di qui la strategia del compromesso storico (e direi a livello internazionale quella dell’eurocomunismo e della terza via).
Macry propone un giudizio negativo quindi sull’azione di Almirante. Rispetto invece al Pci sottolinea la logica egemonica e strumentale, fino a enfatizzare, nella fase successiva al fallimento della strategia del compromesso storico, nella questione morale di Berlinguer, una sorta di azione prolettica del populismo contemporaneo che tanto ammorba il paese. Ma la lettura politica di questi anni centrali della Repubblica in Macry si caratterizza per un esplicito giudizio negativo sull’esito della produzione e mediazione politica della Repubblica: la Repubblica dei partiti, l’egemonia di centrosinistra ecc. sarebbero la causa dei limiti e delle difficoltà del rapporto tra Stato e cittadini, o in altri termini (hegeliani) di faticoso permanere di una forte eticità pubblica. Dal 1960 al 1994 vi sarebbe pertanto per Macry – che critica Almirante ma assume in Almirante e nel pensiero del liberalismo di destra, che vive gli ultimi inefficaci fuochi con Malagodi, il paradigma di giudizio – una fase negativa per l’Italia. Macry imputa al centrosinistra una storia politica caratterizzata da una occupazione della società da parte dei partiti, una presenza politica pervasiva, che si configura analiticamente con il concetto di partitocrazia. Lo stato diventa uno stato sociale, una sorta di stato provvidenza che elargisce benefici sociali troppo generosi. La Dc diventa il partito della spesa pubblica, e il centrosinistra, con il peso consociativo del Pci, dà troppo spazio al potere sindacale, favorisce l’attuazione del regionalismo che è stata a giudizio di Macry particolarmente negativo per il Sud. A tal proposito si potrebbe però anche controbattere che se vi è stata una riduzione della distanza tra Nord e Sud ciò è avvenuto proprio in questa fase politica e con una politica di intervento pubblico dello Stato con investimenti pubblici di natura industriale e infrastrutturale.
Si tratta di un periodo politico che produce il debito pubblico e genera il problema dell’inflazione. Macry incalza valutando criticamente anche l’esperienza delle partecipazioni statali e gli esiti delle politiche industriali delle aziende statali, troppo legate a logiche politiche-partitiche. Insomma le performance della Repubblica dei partiti sono negative e alimentano un malcontento crescente nella società italiana. L’osservazione è che in questa fase, mancando una destra politica legittimata realmente ad entrare nel dibattito politico anche come opposizione credibile, ciò sia stato un danno e un problema per l’Italia. Ovviamente si potrebbe dire la stessa cosa sul versante della sinistra: in Italia infatti in questa fase vi è stata l’impossibilità di un cambio coalizionale, non solo verso destra, ma soprattutto verso sinistra, cosa che invece avvenne ad esempio in Germania o negli anni ottanta in Francia. La critica di Macry si volge in particolare in questa fase quasi finale della Repubblica dei partiti anche all’opposizione di matrice comunista, in particolare al giacobinismo di Berlinguer e alla sua questione morale, alla rivendicazione della diversità comunista, per lui un fattore che poi ha alimentato l’antipolitica. “Berlinguer arava il terreno del populismo prossimo venturo” (p. 106). Ora che la questione della diversità, anche peraltro all’interno del Pci criticata, sia indubbiamente un aspetto critico, potenzialmente ambiguo tanto da essere utilizzato dall’antipolitica indifferenziata e qualunquistica, non può però oscurare il fatto che il qualunquismo critico dei partiti e della partitocrazia sia un costrutto analitico di matrice liberale e conservatrice, e che comunque anche l’Msi di Almirante cavalcava una critica esplicitamente già populista, come settori della destra liberal-conservatrice italiana. Infatti anche Macry non può che riconoscere che con la crisi del 1992 della Prima Repubblica, con la rivoluzione giudiziaria operata dal Pool di Mani Pulite, si apre la strada a quel populismo antipolitico che fu fondamentale per riaprire uno spazio politico alla destra italiana e a quell’Italia in qualche maniera neutralizzata e assorbita a lungo dalla Dc in funzione conservatrice. Insomma: “Veniva alla luce quel che la sinistra laica e cattolica avevano sempre temuto e sempre efficacemente controllato, e cioè un paese di destra” (p. 108). L’artefice di questa rivoluzione che poi diventa anche politica è indubbiamente Silvio Berlusconi il quale non solo riesce da zero a fondare e imporre come primo partito Forza Italia ma costruisce anche una coalizione con la Lega Nord e con l’Msi che diventa Alleanza Nazionale, e per Macry si apre così la fase del populismo liberale di Berlusconi.
Siamo entrati nella cosiddetta Seconda Repubblica e in una fase di alternanza bipolare nella quale la destra politica ritorna in campo e ritorna al governo del paese direttamente, non più tramite partiti di centro o centrosinistra. Berlusconi costruisce un partito personale, efficace proprio nel momento della crisi del partito tradizionale di massa, e da questo punto di vista la destra sa interpretare al meglio questa crisi o cambio di fase politica. Berlusconi da questo punto di vista è il rappresentante al massimo grado dell’autobiografia della nazione, mettendo in campo un messaggio populista, antipolitico, ma anche liberale che liscia il carattere degli italiani, pur rifuggendo ogni velleità giacobina. “Il messaggio fu efficace. Era autoassolutorio, ottimistico, adrenalinico” (p. 113). Macry a questo punto passa in rassegna non solo Berlusconi ma anche gli altri partiti della destra italiana e i loro protagonisti. Gianfranco Fini che giudica una meteora e la Lega Nord – da segnalare l’assenza di un’analisi di Salvini. Non solo, Macry, giustamente, riserva un capitolo anche a Grillo e al Movimento Cinque Stelle, protagonisti dell’inizio della Terza Repubblica, come un fenomeno politico in grado di essere sia di destra che di sinistra. Infine vi è un finale molto sintetico e aperto dedicato alla Meloni e a FdI.
Retrospettivamente, per ricapitolare il senso delle valutazioni di Macry su queste varie, per così dire, “figure” della destra, la destra liberal-populista, la destra post-missina che con Fini vuole costituirsi come destra liberale e conservatrice, in competizione perdente con la liberale-populista, la destra proteiforme leghista antirisorgimentale e infine la destra anti élite oltre la destra e la sinistra, quella grillina, potremmo nell’ordine sottolineare come: 1) Berlusconi fallisca perché non in grado di mantenere le mirabolanti promesse, insomma per una crisi di perfomance; 2) Fini fallisca perché sul terreno della rappresentanza delle istanze e degli umori del popolo della destra spinge contro Berlusconi dimostrando però la sua politica come anacronistica, peraltro facendo un errore capitale accettando la fusione con Forza Italia. Fini paga sia il ritardo storico dell’Msi, sia la sua volontà di bruciare le tappe in rapporto a Berlusconi, oltre al fatto che viene battuto da Berlusconi che in ogni caso rappresenta meglio l’’elettorato di destra. 3) La Lega, invece, rappresenti una storia sui generis all’interno della destra, proprio per la sua natura genetica contro lo Stato nazione. La Lega è una creatura di Umberto Bossi, una sorta, per seguire Tarchi, di “incarnazione quasi ideal-tipica del populismo” (p. 127), che irrompe nel discorso pubblico italiano portando delle innovazioni radicali, ad esempio emarginando la questione meridionale e sostituendola con quella del federalismo.
Macry sottolinea la sconfitta leghista sul tema della riforma federalista e tuttavia riconosce che la Lega sia stata
un fenomeno … che non era qualificabile come conservatore o come tradizionalista perché dopotutto fu – tra le destre italiane – la più propensa al cambiamento, la più ostile alle narrazioni ufficiali, la più antirisorgimentale, antiunitaria, antimeridionale (p. 133).
La Lega è anche una forma politica in grado di reinventare i propri obiettivi politici, fino, con la segreteria Salvini, a mantenere sì un profilo autonomista (più che federalista, per essere precisi concettualmente) ma cercando di rappresentare una destra alla fine nazionalista come proiezione. Mentre 4) Berlusconi trionfa sulle ceneri della Prima Repubblica si può affermare che Grillo trionfi su quelle della Seconda, e sebbene sia l’animatore di un movimento che va oltre la destra e la sinistra, manifestando comunque tratti della destra, dal punto di vista elettorale – e su questo punto Macry è convincente – il Movimento Cinque Stelle rappresenta più la crisi del centrosinistra italiano che non un fattore competitivo nei confronti del centrodestra, almeno considerando i dati nel medio-lungo periodo, o comunque la seconda, come vedremo, migrazione di voti dal campo di sinistra a quello di destra. Il movimento di Grillo ha la sua incubazione e il suo exploit con la crisi del 2011 e con le elezioni del 2013, rappresentando la reazione italiana al declino e alla proletarizzazione dei ceti medi, come anche la reazione contro la politica o le élite, contro la casta. Un movimento che, ripercorrendo anche modalità tipiche del qualunquismo storico italiano, sanziona l’ennesimo fallimento percepito o l’ennesima crisi di performance e quindi di legittimazione del sistema politico, ormai schiacciato sulla polarità della casta, divenuta categoria politica, mentre il Movimento, dell’uno vale uno, manifesta la rivincita del cittadino contro i partiti. Da sottolineare, appunto, la capacità del movimento di rompere il recinto dei partiti della sinistra, attirandone il voto d’opinione maggiormente sensibile alle pulsioni populiste, antipolitiche e antiparlamentari. Con il movimento si attua un passaggio elettorale e politico di grande significato, che in qualche maniera replica quello avvenuto all’inizio della Seconda Repubblica quando l’elettorato di DC e PSI, di centrosinistra nella sostanza si spostò premiando i partiti della nuova destra berlusconiana o leghista e della vecchia destra sdoganata. In ogni caso il movimento di Grillo è la riprova di come vi sia sempre un fiume carsico in cerca di rappresentanza, ostile al sistema politico o meglio sensibili ai suoi fallimenti, e di quanto questo fiume sia presente strutturalmente nel paese.
A questo punto sarebbe opportuno sottolineare la necessità di una discussione approfondita sulle categorie politiche che si utilizzano, a volte date come premesse indiscusse, o pregiudicate, ad esempio come la categoria di “populismo”. Indubbiamente vi è sempre la necessità per una forza politica di persuadere il popolo con meccanismi irrazionali o mitologici, a volte fine a se stessi (pensiamo alla linea di pensiero di Sorel), a volte invece pensati come immagini o narrazioni comunque razionali (come fin dal giovane Hegel si pensa la possibilità di una mitologia razionale). In ogni caso un soggetto politico deve sempre convincere anche la parte per così dire impolitica della popolazione, e qualsiasi formazione politica per fare sintesi e guidare deve interpretare questa parte (che a volte, come l’astensionismo dimostra potrebbe persino essere una componente sempre più marcata). Ovviamente c’è modo e modo di interpretare e catalizzare l’impoliticità.
L’ultimo capitolo di questo saggio sulla destra italiana, che è stata in età repubblicana neofascista, conservatrice e populista, riguarda Giorgia Meloni e il primo scorcio della sua iniziale esperienza di governo come presidente del Consiglio e leader della destra italiana. I quesiti di Macry rispetto alla Meloni, protagonista di una crescita vertiginosa del proprio partito, dal due per cento del 2013 fino a diventare il primo partito nel 2022, sono quelli relativi alla sua capacità o meno di riuscire politicamente, a fronte dei più diversi fallimenti precedenti da De Gasperi che fallì nel costruire un grande partito conservatore di ispirazione liberale, alla sconfitta di Fini che volle dar vita ad una destra democratica, sociale e laica, priva di elettorato, oppure al populismo di Berlusconi, Bossi e Grillo che non è riuscito a ottenere risultati duraturi, non raggiungendo la rivoluzione liberale, o quella federalista o perché alla fine privo – è il caso di Grillo – di autentica strategia. Macry per indagare i possibili sviluppi della Meloni, non avendo avuto modo di analizzare l’azione di governo, parte dalla sua autobiografia, per poi proporre dei nodi analitici risultato della trattazione operata in tutto il saggio. La Meloni si presenta come l’ultimo prodotto della destra di matrice neofascista, su questo non vi sono dubbi. Macry non lo scrive, ma riportando i diversi passaggi della autobiografia è del tutto evidente che quella sia l’identità conservatrice della destra meloniana, una destra nazionalista, sovranista, conservatrice, che non ripudia o sconfessa il proprio passato neofascista – Macry rileva che non “avverte l’obbligo dell’abiurae neanche la tentazione del camaleontismo” (p. 143).
Quanto sia presente l’ispirazione liberale invece non è misurato, ma appare poco, pochissimo presente. Riuscirà questa destra ad avere successo? Su questo punto Macry registra come l’Italia sia un paese difficile, nel quale il rapporto tra elettori e rappresentanza politica è tortuoso, complesso, nel quale cavalcare l’antipolitica poi, a fronte dei conti da pagare, diventa un boomerang, e nel quale l’individualismo e il conformismo si mescolano, e nel quale il problema della distanza tra Nord e Sud permane. La ricetta per una politica di successo, secondo Macry, proprio perché l’Italia poi è nel profondo della sua opinione pubblica di destra, come peraltro ne sono riprova i seriali tentativi falliti di leader della sinistra di penetrare in questa opinione pubblica, non può che essere abbandonare mimetismi ideologici e fare realmente la destra: un programma molto affine alla volontà della Meloni, e vale la pena segnalare le righe conclusive di Macry per illuminare le aspettative convergenti dell’autore con l’identità della giovane leader:
Dal nodo delle migrazioni selvagge (sic!) alla distinzione tra welfare e sviluppo, dagli incentivi per la produttività alla disincentivazione dell’assistenzialismo, dal nodo esistenziale della natalità alla ricostruzione meritocratica delle scuole, dal controllo dell’illegalismo e dei comportamenti violenti alle garanzie del giusto processo, dalla difesa in sede europea degli interessi nazionali a un atlantismo non acritico, sono innumerevoli i temi che una leadership conservatrice deve avere il coraggio di esprimere a chiare lettere e tradurre in proposte politiche. Rendendo esplicita e senza infingimenti la propria idea di paese. Tanto più in un paese che con la destra, come si è visto, ha avuto una lunga storia di fantasmi e di inganni (p. 149).
Concludendo la recensione il pensiero non può che volgersi all’azione concreta del Governo Meloni, un mix piuttosto tradizionale delle solite misure prese nel passato dal centrodestra con alcuni elementi di peggioramento evidenti, sia a livello di occupazione delle istituzioni pubbliche, sia a livelli di proposte politiche, si pensi al tema delle riforme istituzionali, sia, come le prossime elezioni europee dimostrano, a livello di retorica nazionalista. In ogni caso indubbiamente una destra che rivendica una linea a faccia aperta, sicuramente conservatrice ma non di ispirazione liberale.
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