Il 16 maggio scorso a Mauro Ceruti, filosofo della complessità, è stata conferita, presso l’Università di Foggia, la Laurea Honoris Causa in Scienze Pedagogiche e della Progettazione Educativa. ytali ha il piacere di pubblicare qui il testo integrale della Lectio Doctoralis tenuta dal prof. Ceruti in quella occasione, per aprire e ospitare una riflessione multidisciplinare sui temi dell’Educazione nel tempo della complessità.
Magnifico Rettore, Chiarissima Direttrice, Autorità, Colleghe e Colleghi, Studentesse e Studenti, Collaboratori tecnici e amministrativi, Signore e Signori.
È un grande onore per me ricevere questa Laurea in Scienze Pedagogiche, soprattutto perché lo scopo pedagogico è sin dalle origini lo scopo della Filosofia, insieme a quello dell’Amicizia. Ed è per me una grande emozione sentirmi da voi accolto con così sincera Amicizia. Ma permettetemi anche di dire che onore ed emozione si congiungono attraverso il privilegio di trovarmi oggi, in questa circostanza, nell’Ateneo così profondamente abitato dal Magistero della Professoressa Franca Pinto Minerva.
Questo vostro riconoscimento mi sollecita a un bilancio dei tanti anni che ho dedicato allo studio, alla ricerca, alla scienza, alla filosofia, all’insegnamento. Sono sempre stato stimolato dall’interrogativo che Max Weber si poneva nella sua memorabile lezione su La scienza come professione: “che cosa offre propriamente la scienza di positivo per la ‘vita’ pratica e personale?”. Ecco, da parte mia, ho sempre pensato che attraverso il nostro impegno scientifico possiamo e dovremmo contribuire a fare chiarezza sulle biforcazioni del nostro tempo, sui dilemmi morali, sui destini possibili, e, poi, anche sui mezzi necessari per affrontarli.
Motivato da questo impulso, e con il sostegno generoso di Edgar Morin, esattamente quarant’anni fa, con Gianluca Bocchi organizzavamo i primi incontri internazionali e interdisciplinari sotto la sigla “La sfida della complessità”.
Attraverso le rivoluzioni scientifiche del Novecento, l’alea, l’imprevedibilità, la relazione, i processi, l’incertezza, il disordine, avevano ormai incrinato il mondo ordinato, meccanico e regolare della scienza classica, e avevano aperto il sipario sulla complessità. Le scienze ci sollecitavano a un nuovo sguardo sulla natura, e a riflettere sul nostro modo di conoscerla. Ci era chiaro, grazie all’insegnamento ricevuto da Jean Piaget a Ginevra, che questo nuovo sguardo poteva emergere solo attraverso un dialogo transdisciplinare, e fra molti sguardi. I grandi protagonisti della “Scienza nuova” della natura risposero con entusiasmo e umiltà al nostro appello, di giovani senza titoli, se non la nostra passione e la nostra volontà. Fu l’insegnamento più importante, che ha segnato tutta la mia vita, e a cui ho cercato di essere fedele. Cominciò un’avventura che ha portato a intrecciare itinerari che venivano da storie lontane fra di loro, separate da steccati disciplinari. Fra gli altri, ad aprire i nostri dialoghi furono innanzitutto Ilya Prigogine, Isabelle Stengers, Francisco Varela, Lynn Margulis, Heinz von Foerster, Jerome Bruner, Mara Selvini Palazzoli, Stephen J. Gould, Jim Lovelock, Paul Feyerabend, Alberto Munari, Donata Fabbri, Douglas Hofstadter, Herman Haken, Ervin Laszlo, Karl Pribram, Paul Watzlawick… Cominciammo a camminare insieme nei luoghi di frontiera dove più cruciali erano le biforcazioni che sollecitavano nuovi paradigmi, dove più creative e più feconde erano le costruzioni di nuovi concetti, di nuove teorie, di nuovi strumenti per pensare la natura, l’umanità, la conoscenza stessa. Da quel 1984 si cominciò a intrecciare una rete dialogica planetaria che qualcuno di noi definì “Collegio invisibile”, perché senza una sede fisica fissa, ma in continua dinamica evoluzione.
Ricordo con emozione che in quello stesso tempo in cui davamo inizio a questa avventura, in un mirabile testo dedicato alla “Molteplicità”, Italo Calvino, che peraltro grazie a Ludovico Geymonat aveva profondamente influenzato qualche anno prima la mia tesi di laurea, scriveva, evocando un’espressione di Carlo Emilio Gadda, che compito del romanzo contemporaneo era di “rappresentare il mondo come un garbuglio, senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinarlo”.
La complessità, bene lo intuiva Calvino, diventava anche l’ineludibile caratteristica del nostro tempo, del nostro mondo, in cui tutto è connesso. Ed è proprio di questo, che oggi, pur brevemente, vi voglio parlare, per motivare l’urgenza di una nuova Paideia.
Già negli anni Novanta del secolo scorso, a dispetto di chi profetizzava la fine della Storia, mi pareva urgente riconoscere che eravamo entrati in un’età di crisi, di rumore e furore, di progressi e di regressi, e anche, correlativamente, nel giro di boa dei cinque secoli di planetarizzazione dell’umanità, con la tessitura di una sempre più stretta interdipendenza.
In modo ineludibile, la sfida della complessità emergeva dal passaggio d’Epoca che sconvolgeva il nostro tempo.
Oggi sta emergendo una nuova condizione umana, attraverso un inedito e simultaneo aumento di potenza tecnologica e di interdipendenza planetaria. Nel mondo globale tutto è connesso, tutto è interdipendente con tutto. In una circolarità continua, in cui tutto è sia causa che effetto. Avvertiamo sempre più l’interferenza tra le dimensioni tecnica, scientifica, demografica, economica, ecologica, sociale, psicologica, religiosa… Avvertiamo le conseguenze delle accresciute interdipendenze a livello mondiale. E siamo sfidati a comprendere che i problemi non possono essere analizzati come se si manifestassero isolatamente e come se reclamassero soluzioni semplici, standardizzate e univoche.
È ciò che stiamo vivendo attraverso le crisi globali (la pandemia, il riscaldamento globale, la guerra…), che ci rivelano la complessità del nostro mondo, in cui ogni evento locale può comportare conseguenze che si amplificano su scala globale, e in cui perciò tutto può cambiare in modi improvvisi, imprevedibili. Il “battito d’ali di una farfalla” nel cielo della regione di Wuan, in Cina, può avere effetti importanti sul “tempo” che farà nel mondo intero, pochi giorni dopo… Un virus microscopico ha reso macroscopica la complessità, l’interdipendenza del mondo globale, la multidimensionalità, l’incertezza, l’intrico dei problemi. Il sipario sulla complessità si è rialzato. E, questa volta, non è stata solo l’esperienza di pochi scienziati in un laboratorio. La complessità traspare dall’esperienza delle faglie sistemiche del nostro mondo, che tutti stiamo facendo nella vita ordinaria e quotidiana.
Vulnerabili perché potenti
Ma dobbiamo riconoscere qualcos’altro di ancora più radicalmente inedito.
La rilevanza delle tecnologie aveva diffuso l’illusione che ci saremmo sempre più affrancati dalla natura. E che saremmo stati Maîtres et possesseurs de la nature, secondo la celeberrima espressione di René Descartes.
Non è stato così.
Le società, certo, sono sempre più indipendenti dagli ecosistemi locali. Ma la sopravvivenza stessa dell’intera umanità rimane strettamente interdipendente all’interno di un “unico immenso ecosistema globale”.
Nel momento della nostra massima potenza tecnologica, siamo portati a riconoscere che non siamo esterni al mondo che conosciamo, che abitiamo e su cui agiamo, ma che siamo una parte che interagisce con altre parti, e conosciamo il mondo attraverso queste interazioni, contribuendo a creare il mondo che conosciamo, il mondo che abitiamo e su cui agiamo. Siamo entrati in una nuova era della storia della Terra, dai geologi definita Antropocene: la Terra è diventata un unico sistema dinamico complesso, autoregolato, con componenti fisiche, chimiche, biologiche e anche umane: perché l’umanità è diventata una grande forza della natura.
A causa di questo “groviglio di inestricabile complessità”, è finita per sempre la possibilità di distinguere tra storia umana e storia naturale.
E si riduce bruscamente la differenza di magnitudine tra la scala della storia umana e la scala temporale geochimica e geofisica, al punto di potersi invertire: il nostro ambiente potrebbe oggi cambiare più rapidamente della nostra cultura, peraltro proprio per l’impatto della nostra stessa cultura. Le “catastrofi” ricorrenti e improvvise legate al riscaldamento globale lo stanno manifestando.
Scopriamo così i fili fragili e inestricabili che, come esseri viventi, ci legano alla biosfera. Scopriamo, come scrive Franca Pinto Minerva, che “la fragilità della natura è la fragilità dell’uomo, che è egli stesso natura”. Scopriamo la nostra strutturale vulnerabilità.
Scopriamo di abitare un mondo “indisponibile”, che inficia il progetto moderno di un dominio umano sempre maggiore: un mondo diventato indisponibile proprio per l’incremento esponenziale della quantità di informazioni prodotte e disponibili, nonché per l’intensificazione dei fenomeni di interazione e di retroazione, sul piano dei rapporti umani e sociali e sul piano dei nostri rapporti con la natura. Il progetto di controllo sul mondo ha incrementato l’incontrollabilità del mondo.
Una nuova umanità planetaria
Continua poi, soprattutto, a essere rimosso un radicale punto di svolta nella storia umana. L’esplosione atomica di Hiroshima, nel 1945, ha manifestato una possibilità fino ad allora inconcepibile: la possibilità dell’auto-annientamento globale dell’umanità. E questa inedita possibilità ha contestualmente trasformato alla radice la condizione umana: ha generato un destino comune per tutti i popoli della Terra, tutti legati dagli stessi problemi di vita e di morte. È nata una comunità di destino planetaria.
Da allora a oggi, il rischio effettivo dell’auto-annientamento si è aggravato. Sono aumentate le possibilità dell’uso di armi nucleari in conflitti locali. E proprio in queste nostre ore la manaccia si è fatta drammatica.
Questa inedita possibilità di autosoppressione rende evidente l’inadeguatezza del paradigma che continua a orientare sia le relazioni fra i popoli della Terra sia le relazioni dell’umanità intera con la Terra. È il paradigma che più di ogni altro ha alimentato l’intera storia umana. È il paradigma dei “giochi a somma zero”: “vinco io, perdi tu”. Si tratta di “giochi” in cui una parte vince a spese delle altre, che perdono.
Ma oggi, continuare questi “giochi” può essere disastroso. Gli attori dei “giochi a somma zero”, in realtà, oggi possono perdere tutti. L’arma nucleare e l’impatto umano sulla biosfera rendono appunto possibile l’auto-soppressione dell’umanità. E questo è un fatto inedito. Sconvolgente. Il vero rischio è che non ci possano più essere vincitori e vinti, ma solo vinti. L’umanità oggi, per la prima volta nella sua storia, si trova “obbligata” a uscire dall’età della guerra e dello sfruttamento incondizionato dell’ambiente. Si trova “obbligata” a uscire dal paradigma dei “giochi a somma zero” (vinco io, perdi tu) per generare un paradigma dei “giochi a somma positiva” (vinco io, vinci tu).
Si tratta di una profonda discontinuità nella storia umana. E ciò ci porta a porre due domande ineludibili.
La prima domanda è: sta nascendo un’umanità planetaria?
La seconda domanda è: può emergere una nuova umanità?
Ciò che lega le due domande è il fatto che ciascuna costituisce la risposta all’altra.
Un’umanità planetaria nascerà se emergerà una nuova umanità, se si trasformeranno le nostre culture.
Una nuova umanità, d’altro canto, emergerà se l’umanità diventerà planetaria, se giungerà a concepirsi come una comunità terrestre una e molteplice.
Unitas Multiplex
Una possibilità segna oggi la nostra cultura: quella di riflettere sulla complessità dell’identità umana, composta di tante diversità, e sulla sua storia profonda.
Non c’è stata “una” umanità. Ci sono state diverse umanità, diverse metamorfosi dell’umanità.
La nostra umanità si trova nella soglia agonica di una nuova metamorfosi, resa necessaria dall’inedita possibilità di autosopprimersi. E la conoscenza delle metamorfosi passate ci è indispensabile per mettere a fuoco la metamorfosi presente.
Oggi possiamo pensare che la chiave per comprendere e rigenerare la condizione umana è la sua incompiutezza. E incompiutezza significa che gli esiti futuri della condizione umana non sono inscritti di necessità in una qualche sua “essenza” definitiva. L’intero processo di ominazione, a partire dalle specie ominidi nostre antenate, si è compiuto in una specie incompiuta, Homo sapiens. La storia umana non è stata il dispiegamento di un destino già dato, bensì il teatro in cui si è svolta una creazione di possibilità, una creazione di nuove forme di umanità. Nella storia si sono succedute e intrecciate diverse forme di umanità.
Il patrimonio biologico e mentale della nostra specie non l’ha stabilizzata in un ambito di possibilità fisso e predeterminato. Ha aperto piuttosto l’accesso a uno spettro di molteplici possibilità. È come se, nell’attuare fisicamente una diaspora sulla superficie del pianeta, che l’ha condotta in ecosistemi assai diversi, l’umanità abbia attuato anche una diaspora nell’universo delle possibilità simboliche. Le diverse possibilità realizzate nello spazio e nel tempo sono ciò che noi chiamiamo culture. Sono tutte generate dal medesimo bagaglio biologico e mentale. Ma sono anche tutte strutturalmente incompiute, e rimandano a un universo di possibilità ben più vasto. L’incompiutezza della condizione umana è radicata nel suo legame originario con la diversità e con la molteplicità.
Il nostro è il tempo di un difficile apprendimento di una condizione globale, attraverso la valorizzazione del potenziale creativo delle diversità culturali. La sfida è quella di riuscire a concepire l’umanità come una riserva di possibilità evolutive ancora inedite.
Questa idea di un’umanità una e molteplice, e costitutivamente incompiuta, rende plausibile concepire la possibilità di una nuova metamorfosi, che trasformi il dato di fatto dell’interdipendenza planetaria nel processo di costruzione di una “civiltà” della Terra.
La Paideia di un umanesimo planetario.
Abitare la complessità richiede la capacità di indossare “occhiali diversi”. Ed è sul terreno cruciale dell’educazione che si giocherà la partita per realizzare il cambiamento di paradigma che il nuovo tempo esige.
È la sfida di una nuova Paideia.
Dobbiamo innanzitutto prendere consapevolezza di una profonda crisi cognitiva. Questa crisi concerne la difficoltà di pensare la complessità del nostro mondo e del nostro tempo, in cui tutto è connesso. Infatti, viviamo un paradosso. Lo rivelano drammaticamente le crisi globali che stiamo vivendo. Più aumenta la complessità del nostro mondo, più aumenta la tentazione della semplificazione. Più la complessità si impone come sfida ineludibile alla nostra esperienza e alla nostra conoscenza, più essa tende a essere negata e rimossa.
La tendenza alla semplificazione ha radici storiche e culturali profonde nella nostra tradizione culturale. Questa tradizione ha cercato di conoscere le cose nella loro separazione: innanzitutto la separazione fra ciò che è umano e ciò che è naturale, tra noi e le cose che conosciamo, tra il soggetto e l’oggetto; poi la separazione delle cose dal loro contesto e la scomposizione delle cose in tante parti elementari, “semplici”; e infine la separazione del sapere stesso in tante discipline, sempre più chiuse ciascuna in se stessa e fra loro lontane.
Così, l’ostacolo alla formulazione stessa dei problemi complessi del nostro tempo si annida proprio nel modo in cui la conoscenza è prodotta, organizzata e trasmessa. Continuano a essere separate conoscenze che dovrebbero essere interconnesse, perché interconnessi e non separabili sono i molteplici aspetti dei problemi da formulare e da affrontare. Si isolano singoli aspetti di un problema complesso, e si conferma l’illusione di poterli affrontare separatamente con semplici soluzioni tecniche. Le soluzioni cercate e proposte sono dunque il più delle volte, esse stesse, parte e causa del problema. I modi di pensare che utilizziamo per trovare soluzioni alle crisi, come ai problemi più gravi della nostra età globale, costituiscono, essi stessi, uno dei problemi più gravi che dobbiamo affrontare. Perché sono modi di pensare che frazionano ciò che nella realtà è intimamente connesso.
Tracciare confini, fissare la propria identità nell’opposizione all’alterità, così come cercare una soluzione univoca, semplice, astratta, quantificabile, sono atteggiamenti che hanno intessuto un abito mentale talmente radicato da far apparire persino implausibile un altro modo di pensare, come quello complesso.
Perciò, una nuova Paideia deve volgersi a rigenerare il pensiero, laddove il progresso delle conoscenze nei binari della parcellizzazione suscita una regressione del pensiero stesso, che rischia di fossilizzarsi nell’esercizio “automatico” delle mansioni o delle tecniche di gestione.
Ed ecco perché è ancora più preoccupante che da questa regressione e semplificazione del pensiero oggi possano essere investite proprio la scuola, e proprio la pedagogia.
La complessità della condizione umana globale ci sfida a generare una Paideia che contenga in sé il senso dell’irriducibile legame di ogni cosa con ogni cosa.
Una Paideia che aiuti a comprendere che sapere è entrare nel movimento delle cose, nel gioco dei vincoli e delle possibilità che le generano e le trasformano; che sapere non è tenersi a distanza da ciò che si sa e scomporre ciò che si sa, ma preservare ciò che si sa nei suoi intrecci multipli; che sapere è favorire la presa di coscienza dell’irriducibile interconnessione dei saperi, interconnessione che corrisponde già alla complessità del mondo.
Una Paideia coerente con la visione della relazione cosmo-antropologica in cui l’uomo non è separabile dalla natura, ma riconosciuto come parte integrante di un processo complesso di co-evoluzione.
Una Paideia che fornisca la consapevolezza adeguata a concepire la scienza e la tecnica non come gli strumenti “prometeici” per un progresso meramente quantitativo, ma come gli strumenti per costruire un’alleanza con la natura, nella natura, e favorire il miglioramento sostenibile ed equo della condizione umana.
Una Paideia che riconosca che la ricerca di un nostro rapporto coevolutivo con tutti gli attori del mondo, viventi e non viventi, è la precondizione per la nostra stessa sopravvivenza, e per la possibilità di delineare un futuro vivibile e fecondo.
Una Paideia che riconosca l’indivisibilità della vita umana, da intendersi, allo stesso tempo, terrestre, biologica, psichica, sociale, culturale, spirituale.
Una Paideia, infine, che riconosca l’indivisibilità e nello stesso tempo la pluralità dell’umanità.
L’universalismo dell’umanesimo classico è stato un universalismo ideale, nei secoli evocato con l’enunciazione del principio universale dell’uguale dignità di ogni essere umano, al di là di ogni diversità. Tuttavia, nei suoi sviluppi, il riconoscimento della dignità di ogni essere umano si è realizzato in maniera astratta e molto limitata. Molte culture, soprattutto nei paesi colonizzati, sono state considerate immature e ormai superate dalla marcia inarrestabile del progresso, identificato con gli sviluppi della cultura europea e poi occidentale. Ciò ha giustificato la marginalizzazione e persino il non riconoscimento dei diritti umani ai rappresentanti di tali culture.
Ma oggi, per la prima volta, l’ecumene terrestre è divenuta di fatto realtà concreta.
Un nuovo umanesimo planetario, che rigeneri l’umanesimo classico, può esprimere un universalismo reso concreto appunto dal destino comune che lega ormai fra loro tutti gli esseri umani, tutti i popoli del pianeta, e che lega l’umanità intera all’ecosistema globale, alla Terra e a tutte le diversità viventi e non viventi. Questo universalismo concreto non oppone la diversità all’unità. Si basa sul riconoscimento dell’unità nelle diversità umane e sul riconoscimento del valore delle diversità nell’unità umana.
Dunque, se coscienza planetaria, coscienza di una comunità di destino, coscienza della complessità vanno di pari passo, è urgente una nuova Paideia che consenta di accedere alla coscienza di queste coscienze. È urgente una Paideia per l’umanità planetaria, per i cittadini della cosmopolis, dell’emergente “patria” terrestre, e non più solo per i cittadini della polis.
Una nuova Paideia nel tempo della complessità chiede di sviluppare la coscienza di una solidarietà universale, e più ancora di una fraternità universale. Sembra un paradosso parlare di fraternità nel pieno di guerre drammatiche, che rischiano di portarci sull’orlo dell’abisso…
La fraternità si fonda sul sentimento di una mutua appartenenza e si vive nella coscienza di appartenere a una stessa comunità e di agire in questo senso. Ma la fraternità può essere, e lo è stata e continua a esserlo, una fraternità chiusa, che fa sentire fratelli contro qualcuno, “altro”, diverso. I nazionalismi hanno fomentato questa fraternità che separa. E sono risorti nel nostro tempo, dopo che parevano indeboliti in seguito alle catastrofi che avevano prodotto con le guerre mondiali.
Smarrimento, incertezza, solitudine oggi inducono illusoriamente a cercare ancora nicchie protettive, nemici, capri espiatori. Generano chiusura, semplificazione identitaria.
L’unificazione tecnoeconomica del mondo non ha portato alla fine della Storia, non ha condotto al trionfo ultimo della modernità e delle sue promesse. Ha portato alla sua crisi, alla sua “policrisi”, che minaccia di tramutarsi in una “policatastrofe” dell’umanità. Un’umanità che, come dice Edgar Morin, continua ad avvitarsi in una duplice impasse: “l’impotenza del mondo a diventare mondo e l’impotenza dell’umanità a diventare umanità”.
La storia ci trascina oggi in una drammatica biforcazione: siamo sull’orlo di un oscuro precipizio. Ma, nello stesso movimento, siamo sulla soglia di un possibile strepitoso salto nel processo di umanizzazione. Non sappiamo se l’agonia nella quale siamo entrati sia l’agonia della nascita o l’agonia della morte dell’umanità.
Da parte mia, continuo a ricercare le ragioni di una speranza dentro l’involucro spesso e vorticoso dell’improbabilità e dell’incertezza. La speranza che, nonostante tutto, si stia formando e riformando una coscienza planetaria, una coscienza dell’umanità, diventata, di fatto, una concreta comunità di destino.
Oggi, per la prima volta nella storia dell’umanità, la fraternità si definisce in un orizzonte “concretamente universale”. Nessuno si può salvare da solo. Il progetto moderno di dominio della Terra e di emancipazione dalla Terra, per una eterogenesi dei fini, ci ha fatto tutti insieme riatterrare… Siamo sulla stessa barca, la Terra.
E la sfida che ci attende, per concludere, mi piace alla fine riassumerla con alcuni versi del poeta martinicano Patrick Chamoiseau. È la sfida di costruire
una terra comune,
culla delle nostre culle,
nazione suprema delle nostre nazioni,
patria ultima dove si incantano le frontiere,
luogo da comprendere, da salvare, da costruire e da vivere.
QUI PER LEGGERE
LE MOTIVAZIONI DELLA LAUREA HONORIS CAUSA
E I DISCORSI PRONUNCIATI
NELLA CERIMONIA DEL SUO CONFERIMENTO
A MAURO CERUTI
DA PARTE DELL’UNIVERSITÀ DI FOGGIA
16 maggio 2024
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