Questa è una di quelle storie che se non si è vissuto il Novecento o non se ne conosce bene la storia, si fa fatica a comprendere. È, infatti, la storia di un abisso, di una separazione brutale, di un’indicibile sofferenza, di un Paese diviso in due e di un Muro che separava non solo sogni e speranze ma soprattutto i destini di un popolo che, in fondo, parlava la stessa lingua. Tedeschi di qua e tedeschi di là, Est e Ovest. Da una parte il comunismo di Stoph, la DDR, le Trabant e la difficoltà di immaginare un domani; dall’altra, l’opulenza alimentata da un Occidente spregiudicato e pronto a tutto pur di esibire all’universo sovietico la propria superiorità. Gli uni, i Weissis, Beckenbauer e compagni, die settimane dopo si sarebbero laureati campioni del mondo in quel di Berlino, battendo in finale la meravigliosa “Arancia meccanica” olandese di Michels e Cruijff; gli altri, gli Ossis, sarebbero passati alla storia unicamente per quel derby fra le due Germanie, disputato in quel di Amburgo il 22 giugno di mezzo secolo fa.
Anno 1974, a Ovest governa Helmut Schmidt, da poco subentrato a un personaggio iconico come Willy Brandt, costretto a dimettersi per la scoperta del coinvolgimento di un suo consigliere, Günter Guillaume, in una rete di spionaggio a favore della DDR; a Est, invece, governa, come detto, Stoph, regna l’incertezza e la nazionale in maglia blu costituisce la sola speranza di riscatto per una popolazione costretta a soffrire e ad assistere impotente ai successi dei propri connazionali che vivono al di là del Muro, senza nemmeno poter applaudire le gesta dei fenomeni in maglia bianca che stanno cambiando il corso del calcio mondiale. Müller, Breitner, Maier, Vogts, Overath, Grabowski, il già menzionato capitan Beckenbauer: si tratta di una corazzata pressoché priva di punti deboli.
Eppure, quel giorno è diverso. Perché sul loro cammino, nell’ultima partita del girone, incontrano un avversario che altro non è che il proprio riflesso, come se si stessero guardando allo specchio e vedessero le bruttezza e i soprusi della storia. Jürgen Sparwasswer non ha ancora compiuto ventinove anni e gioca come mezzala nel Magdeburgo, celebre per aver battuto, proprio quell’anno, il Milan nella finale di Coppa delle Coppe, conquistando l’unico trofeo vinto da una squadra della Germania Est nelle competizioni europee. Il minuto decisivo, l’appuntamento col destino, è il settantasettesimo, quando il nostro sfrutta alla perfezione l’occasione della vita, segnando il gol che vale la vittoria degli Ossis sui Wessis e la gloria immortale del suo autore. Una gloria che, tuttavia, nella rigida DDR, sarà messa più che in discussione, dato che Sparwasser, anni dopo, quando la figlia farà richiesta di espatrio per abbandonare il Paese, vedendo a rischio la propria carriera, fuggirà a Ovest insieme alla moglie, subendo l’accusa di tradimento, lui che dell’orgoglio dell’Est ne era, più di chiunque altro, l’emblema.
Non c’è dubbio che quella partita, piantata nel cuore del Novecento, rechi con sé ragioni e significati che oggi si fa fatica a comprendere. Bisognerebbe, però, studiarla con attenzione, come fenomeno sociologico e strumento d’analisi sociale ma anche come elemento utile per decriptare un presente in cui l’Est patisce i ritardi e le arretratezze che sono sotto gli occhi di chiunque, fornendo così la risposta a chi si domanda per quale motivo in determinati land la terribile Alternative für Deutschland, un partito con venature neonaziste, sia addirittura al trenta per cento. Basti pensare, tanto per fare un esempio, che durante questi Europei due sole nazionali, Croazia e Inghilterra, alloggiano a Est e che un solo stadio dell’Est è protagonista del torneo: quello di Lipsia. Basti pensare, per citare un altro elemento essenziale per capire ciò che sta avvenendo, alla desertificazione dei luoghi necessari per diffondere il calcio e lo sport fra le persone in regioni che si considerano abbandonate a se stesse. Basti citare, in conclusione, la rabbia e la disperazione di chi si vede privato di qualunque opportunità e abbandonato a se stesso al cospetto di una crisi generale provocata non solo dalla ferocia di Putin ma anche dall’arroganza di un Occidente in cui pochi sembrano essersi resi conto di quale sia la posta in gioco.
Non sappiamo, dunque, se la Germania si possa salvare, innanzitutto da se stessa. Sappiamo, tuttavia, che almeno da quelle parti non pochi abbiano capito quale sia l’importanza dello sport e quanto possa influire sulla coesione sociale del Paese, come dimostra la composizione multietnica della Nazionale, esaltata dal talento di Musiala, Rüdiger, Gündoğan, Emre Can e altri simboli del meraviglioso melting pot che caratterizza l’Europa del Ventunesimo secolo. E no, nessuno vorrebbe tornare a mezzo secolo fa, neanche i più conservatori o i cultori di quelle che Bauman ha definito “retrotopie”, per il semplice motivo che, in quel mondo all’insegna dei muri e delle frontiere, intere generazioni non saprebbero viverci. Sparwasser, con il suo carico di tragica grandezza, non abita più qui, e non c’è dubbio che sia un bene.
Immagine di copertina: 22 giugno 1974. Jürgen Sparwasser segna l’unico gol della partita e la Germania dell’Est sconfigge i rivali occidentali nella Coppa del Mondo. Quella partita, al Volksparkstadion di Amburgo, è l’unica volta in cui le due nazionali tedesche si sono incontrate sul campo di calcio.
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