L’artista Pier Luigi Olivi ha realizzato un’opera contro le guerre: due immagini (gli originali tecnica mista su tela), accompagnate da un testo di Tomaso Montanari, a formare un trittico.
Stampa digitale su pieghevole di sei facciate, formato chiuso A4, con il logo “La BiBiennale di Venezia”, in settecento esemplari numerati e firmati, diffusione gratuita.
Abbiamo il piacere di condividere con i nostri lettori il testo di Tomaso Montanari, che ringraziamo per il consenso alla pubblicazione.
Pecunia non olet, si vis pacem para bellum: i due proverbi latini si reggono a vicenda. Sul denaro non bisogna avere troppi scrupoli, e sono le armi a preparare la pace: due cortocircuiti logici e morali che, anche da soli, definiscono i famosi valori occidentali. All’inizio del Novecento, il grande poeta indiano Rabindranath Tagore definì la società occidentale con queste parole:
essa consuma i popoli che invade; stermina o annienta le stirpi che ostacolano la sua marcia di conquista. Una civiltà di cannibali. Opprime i deboli e si arricchisce a loro spese. Col pretesto del patriottismo essa tradisce la parola data, tende senza vergogna i suoi tranelli di menzogne, erige idoli mostruosi nei templi dedicati al Guadagno, il dio ch’essa adora. Ebbene noi profetizziamo che tutto ciò non durerà per sempre….
È dunque evidente che non si fanno le armi per fare le guerre, ma si fanno le guerre per poter fare le armi: come diceva Trilussa, “la guerra è un gran giro de quatrini”.
E allora, disertiamo! Gridiamolo forte, con le parole che il fantasma di Ettore dice ad Enea: ‘basta, si è dato abbastanza alla patria!’ Scriviamolo sul rosso sangue: il sangue, identico per tutti. A differenza della divisa. E scriviamolo con le fotografie di tutte le guerre, di chi le promuove, delle armi necessarie per farle e soprattutto degli innocenti che le subiscono. Dalla strage criminale di Hiroshima a Benito Mussolini che annuncia trionfante l’entrata in guerra dal balcone di Piazza Venezia. Immagini di morte, di distruzione, di dolore e di fine. La guerra è fatta di questo, al di là di ogni retorica, morire per la patria non è bello: è osceno.
Eppure, come ha scritto il collettivo Wu Ming,
abbiamo visto due marò accusati di omicidio trasformati in eroi della patria. Abbiamo visto l’esercito schierato nelle strade con compiti di ordine pubblico. Lo abbiamo visto fare propaganda nelle scuole elementari. E negli ultimi due anni abbiamo subito la militarizzazione spinta della gestione pandemica. Intanto c’è chi invoca la pace appoggiando chi procura armi all’Ucraina. Sono tempi bui da molti anni per gli anticorpi antimilitaristi.
La nostra abitudine alle armi è così radicata che non ne vediamo lo scandalo.
Come è sempre più drammaticamente chiaro, questa Europa in guerra è governata da una generazione che non sa cosa sia la guerra. Quella che si era trovata costretta a fare la Resistenza, aveva fondato su quell’esperienza lacerante un’idea di Europa radicalmente diversa. Alle Fosse Ardeatine si legge:
Qui fummo trucidati, vittime di un sacrificio orrendo. Dal nostro sacrificio sorga una patria migliore, e duratura pace tra i popoli.
Nessuna estetica del morire per la patria: il sacrificio era orrendo, la patria da cambiare. Il fine non negoziabile: mai più tornare indietro, mai più un’altra guerra.
Non è forse sommamente disdicevole che la festa della Repubblica – che si celebra il giorno in cui fu eletta la Costituente che scrisse un radicale ripudio della guerra – veda il suo momento più solenne in una parata militare, suggellata dall’ipernazionalista fumo tricolore gettato dalla pattuglia acrobatica dell’Aeronautica militare? Tutto avrebbe senso far sfilare quel giorno, tranne che gli strumenti di morte. Non ci vorrebbero nemmeno le bandiere nazionali: solo i simboli della nostra comune umanità. Nel Manifesto di Ventotene è senza appello la condanna degli stati-nazione: «la sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo “spazio vitale” territori sempre più vasti … Questa volontà di dominio non potrebbe acquietarsi che nell’egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti». E oggi vediamo coi nostri occhi che «basta che una nazione faccia un passo più avanti verso un più accentuato totalitarismo, perché sia seguita dalle altre nazioni, trascinate nello stesso solco dalla volontà di sopravvivere». Colpisce l’incapacità, lungo quasi ottant’anni, di costruire una liturgia civile che rompa con la tradizione militarista otto-novecentesca: nessuna diversità esteriore distingue oggi, da questo simbolico punto di vista, le democrazie (compresa la nostra) dai regimi autoritari. Nel calendario civile, così come nelle intitolazioni di strade e scuole, quanto ci vorrebbero segni nuovi: quanto sarebbe bello avere una ‘Piazza Disertori di tutte le guerre’!
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