
Una strategia diversiva
I primi dati numerici sugli effetti sui flussi turistici dell’introduzione del ticket d’ingresso a Venezia dimostrano la completa ininfluenza del provvedimento attuato dall’amministrazione comunale sugli stessi. C’era da aspettarselo. Esperienze precedenti di questa pratica in altri luoghi, per esempio in uno che è di mia diretta conoscenza, il lago di Braies indicato dai social mondiali come uno dei 10 luoghi da visitare nel mondo e dove d’estate il ticket d’ingresso alla valle per ciascuna auto è addirittura di 20 euro, hanno dato esiti perfino contrari: la presenza di turisti è aumentata, ora non solo nei momenti di punta, ma lungo tutto l’anno.
L’amministrazione comunale di Venezia esibisce gli incassi, anche se – dichiara l’assessore Michele Zuin – “il numero dei paganti non è il punto della misura in questione, dato che il “contributo d’accesso” è pensato per essere un sistema di controllo e gestione dei flussi”, e il sindaco Brugnaro dice di
aver puntato a dare un segnale culturale alle persone che vengono a Venezia, l’idea di difendere la città.
Certo, a Venezia il controllo dei flussi c’è, si è fatto più sistematico e capillare, ma anche macchinoso e invasivo nella vita dei cittadini, suscitando forti dubbi sulla costituzionalità del dispositivo di controllo messo in atto.
L’effetto dissuasore non c’è stato, anzi: il numero delle presenze turistiche a Venezia, dall’introduzione del contributo d’accesso è aumentato: i dati impietosamente lo confermano.
Allo stesso tempo, con una sorta di (apparente) schizofrenia, senza tener conto degli effetti devastanti sui delicati equilibri lagunari, questa amministrazione sta approntando le condizioni per una maggiore presenza delle grandi navi, progetta nuove vie di accesso dalla terraferma alla città storica e alle isole della laguna, i quali, con ogni evidenza, sono destinati non ad alleggerire ma ad aggravare la pressione dell’overtoursm su un territorio sul quale invece si dovrebbero applicare gli stessi criteri che valgono per la difesa dell’ambiente naturale.
Anche il territorio è un “vivente” che si riproduce grazie al mantenimento e all’arricchimento al suo interno dell’equilibrio, alla “biodiversità” economica, sociale e culturale. È ben chiaro che la monocoltura, biologica o economica che sia, è tipica delle situazioni di dipendenza coloniale: squilibra, dequalifica, debilita il tessuto sociale del territorio in cui si pratica, lo rende, passivo, subalterno e meno resiliente agli shock sistemici (come si è visto con il covid), che non solo sono sempre possibili, ma anzi addirittura ineviatabili in un mondo così strettamente interconnesso e interdipendente come quello di oggi.
La questione sul tappeto è quella di porre rimedio a un eccesso che squilibra la vita del territorio veneziano e sta soffocando la città. Il buon senso richiederebbe che, per iniziare ad “afferrare il problema”, venisse innanzitutto indicato un tetto massimo di presenze turistiche annuali e giornaliere: stabilire quando quello che è di per sé un bene (il turismo) passa nell’eccesso e diventa perciò un male attiene alla responsabilità della politica (con il necessario supporto dei tecnici) e dovrebbe essere precondizione alla definizione di ogni strategia di riequilibrio.
Ma nel progetto dell’amministrazione comunale di Venezia non è fissato alcun limite alle presenze turistiche, solo una possibile maggiorazione del ticket nei giorni di sovraffollamento. Eppure soltanto dopo che sia stabilito chiaramente il limite di sostenibilità della presenza turistica per l’ambiente cittadino (non solo per la città storica ma per tutto il territorio comunale) si può seriamente procedere a stabilire i provvedimenti d’intervento e le modalità con cui attuarli.
La mancanza della fissazione del limite rende vana la promessa di Brugnaro di “difendere la città”. Quando, a quali condizioni, egli pensa che la città sia difesa? Non c’è risposta.
Fallimento della strategia dell’amministrazione comunale? No se, oltre le dichiarazioni, si guarda all’insieme delle sue decisioni pratiche. Queste appaiono dettate da una strategia coerente ed articolata, nella quale il “contributo d’accesso” ha un’importante funzione: oltre a quella di estrazione di dati sulla vita delle persone (in sintonia con la strategia del “capitalismo della sorveglianza”), quella di specchietto per le allodole, di diversivo.
Nel vuoto di cultura e di pratica di governo in cui quest’amministrazione mantiene il territorio, a governare sono direttamente certi interessi, squilibranti, prepotenti e predatori, per lo più nemmeno locali. Ciò dà il senso di una degenerazione fino allo snaturamento della politica, la quale, secondo la sua vocazione originaria, dovrebbe essere finalizzata all’armonizzazione degli interessi, mentre ora funge da velo e supporto allo schiacciante predominio di alcuni.
Eppure vere decisioni politiche nel quadro internazionale e nazionale non mancano. Per fare solo due esempi: la città di Amsterdam sta attuando una campagna di dissuasione, una sorta di pubblicità alla rovescia (“non venite qui”) rivolta ai turisti. Ha proibito l’apertura di nuovi B&B (come da parecchi anni ha fatto Barcellona nel suo centro storico), la costruzione di nuovi alberghi, ha ridotto i voli turistici, l’arrivo di grandi navi, ma sta anche incentivando i settori di attività alternativi al turismo, col chiaro intento di ristabilire un equilibrio che favorisca la biodiversità economica e sociale sul suo territorio. In Italia, la provincia autonoma di Bolzano ha fissato un limite massimo di posti letto per la ricezione turistica su tutto il territorio di sua competenza e si è impegnata a farlo rispettare.
A Venezia, purtroppo, nulla di tutto questa accade: il comune avrebbe da tempo gli strumenti giuridici per porre un limite alle affittanze turistiche ma non lo fa. In compenso si inventa fallimentari diversivi che però servono benissimo come armi di distrazione di massa.
Il “sociale” leva archimedica della città
In questa situazione di vuoto (voluto e perseguito), il “sociale” (intendendo con questo termine la variegata galassia di associazioni, gruppi, comitati, ecc., particolarmente vivace – grazie al cielo – nel nostro territorio), può svolgere un ruolo primario.
Come confermato anche dall’ultima, importante assemblea del 15 giugno alla Pescheria di Rialto, la denuncia del carattere fasullo della soluzione adottata dal comune (sia pure sperimentalmente, ma a quali condizioni si può dire che l’esperimento sia riuscito?) e l’opposizione al soffocamento della città a causa dello “straturismo” possono essere il catalizzatore del sociale.
Ma opporsi non basta. La stessa denuncia e opposizione sono destinate a perdere di efficacia se non sono accompagnate dalla indicazione di una credibile prospettiva alternativa. Il compito di indicare alternative tradizionalmente sarebbe della politica, ma questa oggi appare autoreferenziale e perciò debole.
Il sociale stesso dovrebbe perciò assumere un ruolo propulsivo, anche se non esclusivo. Ma, nonostante la sua vitalità, la dispersività che ancora lo caratterizza lo mantiene in uno stato gassoso che gli rende impossibile superare la fatidica soglia dell’opposizione critica.
Per assumere quel ruolo promotore che la situazione gli richiede, il sociale deve maturare, “forzare” la sua dispersività oltre la sua condizione naturale di perenne “stato nascente”, senza peraltro rinunciarvi perché preziosa e imprescindibile manifestazione di vitalità umana e civile del nostro territorio. Deve darsi una propria riflessività, farsi qualcosa di più di quello che è: “soggettività sociale” essendo “lui” – il sociale – un “si impersonale”.
Parlare di sociale come soggetto è un paradosso, un ossimoro: i soggetti, a rigore, sono solo politici oppure, se di gruppo, privati, o individuali. Il sociale come tale è appunto impersonale e può farsi “soggetto” solo in un senso molto particolare: rendendosi “più sociale”, cioè meno gassoso, più coeso. Ovvero facendosi sistema. Nella sua impersonalità sistemica esso può acquisire il peso, la massa critica attrattiva che gli consente di far da base e perno a un vasto schieramento politico e culturale che i problemi della città vuole davvero risolverli, non fingere di farlo.
Per questo il “sociale” deve porsi al centro dell’attenzione di sé stesso. Non basta la mobilitazione contro e la pur necessaria “pratica degli obiettivi”, esso deve acquisire una mentalità e una pratica sistemica, lavorare al suo interno per rendersi allo stesso tempo più aperto, più coeso, più attrattivo e perciò più influente sugli orientamenti della città.
Deve darsi una sua memoria, una capacità collettiva di apprendere e, conseguentemente, di elaborazione. Deve essere a tutti chiaro che:
1) più coesione richiede/comporta più riflessività;
2) più riflessività (oltre il momento critico necessario) genera più capacità propositiva;
3) più capacità propositiva di alternativa equivale a più forza per attuare la stessa.
La coesione (sistemica) del sociale è dunque la leva archimedica per sollevare la città e il territorio dall’attuale stato di depressione e impotenza in cui si versa oggi.
Essa si ottiene – superando l’occasionalità – attraverso la creazione di strutture di coordinamento permanente tra associazioni, gruppi, comitati, ecc.; il miglioramento degli strumenti orizzontali (le reti) di informazione interna e di circolazione delle idee e delle esperienze che fioriscono sul territorio; la coordinazione e la condivisione delle iniziative, la promozione di reciproche cooperazioni tra associazioni e gruppi per realizzare progetti condivisi. Tendenzialmente, quello che oggi è (in)differente deve diventare sempre più complementare.
Un sociale dinamico, meno gassoso, più sistemico e consapevole, dovrebbe essere in grado di dialogare con gli esperti, di immagazzinare conoscenze ed esperienze, di elaborarle e di socializzarle attraverso la pratica costante della democrazia partecipativa. Da qui soltanto, da questo processo accuratamente pensato organizzato e attuato, senza improvvisazione, può nascere l’alternativa in grado di imprimere una spinta salutare alla politica e a tutta la città.
Lo sappiamo per esperienza degli errori del passato: non è un percorso facile. Tutto è molto delicato: in ogni momento tutto può sfarinarsi tra le nostre mani. Ma non partiamo da zero, qualcosa in questo senso si è fatto negli anni. Si tratta prima di tutto di valorizzare e ottimizzare quello che c’è. Tra l’altro, si può stabilire un’alleanza culturale, ma anche pratica, con il turismo consapevole amico della città, che esiste ed è in linea di massima disponibile, se gli vengono offerti i mezzi e le occasioni, a cooperare alla sua salvezza.
Salvare la città e il territorio dall’uso estrattivo/distruttivo che se ne sta facendo significa porsi un obiettivo complesso. E i problemi complessi esigono soluzioni complesse. Le soluzioni semplici che vengono indicate oggi sono panacee false e alibi veri.
Ma un sociale riflessivo che abbia acquisito una cultura e una mentalità sistemiche può porre le basi dell’alternativa. Si tratta di discutere e di fissare esattamente le tappe della necessaria – diciamo così – “risocializzazione del sociale”.
Immagine di copertina: 14 novembre 2010, con tanto di cerimonia del taglio del nastro, madrina la divina-divaporno (allora) internazional nostrana Vittoria Risi, i Venessia.com celebrano la nascita di VeneLand, una immaginaria città d’acqua ricca di emozionanti attrazioni, da scoprire pagando un biglietto di ingresso. (©Andrea Merola)
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