Se non avesse avuto un cattivo rapporto, per usare un eufemismo, con il commissario tecnico Møller Nielsen, Michael Laudrup avrebbe senz’altro preso parte, al pari del fratello Brian, all’impresa che la Danimarca compì esattamente trentadue anni fa, quando si aggiudicò un Europeo al quale non avrebbe neanche dovuto partecipare battendo in finale la solida e favorita Germania. Eppure andò così, perché quell’edizione, disputata in Svezia, fu caratterizzata da un incredibile intreccio fra calcio e politica, con la Jugoslavia esclusa da una risoluzione dell’ONU, la 757, in quanto paese in guerra, e i danesi richiamati in fretta e furia per prendere parte a una competizione che, come detto, non avrebbero neanche dovuto giocare e, invece, addirittura vinsero.
Non si può, tuttavia, inchiodare la vita e la carriera di questo neo-sessantenne a un singolo episodio. Laudrup, infatti, è stato il simbolo di una generazione non di fenomeni ma comunque di ottimi giocatori, di cui lui costituiva il faro, il simbolo e il punto di riferimento. Del resto, basta dare un’occhiata alle squadre in cui ha giocato per rendersi conto che nessuno può recitare un ruolo da protagonista alla Juve, al Barcellona e al Real Madrid se non è un fuoriclasse, e Miki lo era, altroché se lo era! Possedeva una passione latina e un temperamento nordico. Aveva visione di gioco, talento da vendere, calma e capacità di esercitare, con pacatezza, un ruolo di leadership. Ha duettato con Platini, illuminato il Barcellona negli anni di sua maestà Cruijff e riportato in auge il Real dopo un periodo di dominio blaugrana, lasciando, al momento del ritiro, un vuoto che i danesi hanno fatto fatica a colmare, tanto sul piano tecnico quanto, più che mai, dal punto di vista emotivo.
Di lui possiamo dire anche che sia stato un ponte fra due epoche. Certamente novecentesco, ma non ancorato alla visione totalizzante del Secolo breve. Dotato di tratti di modernità, ma non convertito alla religione dell’individualismo che oggi la fa da padrona.
Miki Laudrup, ribadiamo, ne ha compiuti sessanta di recente e ora può godersi la sua Danimarca che approda agli Ottavi e, guarda i casi della vita, ritroverà, stasera, proprio la Germania, che stavolta gioca in casa. Neanche in questa circostanza i danesi partono con i favori del pronostico, ma siete sicuri che sia davvero un problema?
In attesa di conoscere l’esito di una sfida che non sarà mai come le altre, Miki invecchia felicemente, con la gioventù che si porta nel cuore, la gioia di vivere che non lo ha mai abbandonato, la sua serenità d’animo e un’innata capacità di non sbagliare, quasi mai, un colpo.
L’orgoglio, nel ’92, gli giocò un brutto scherzo ma non c’è dubbio che i danesi, come tutti noi, l’abbiano ampiamente perdonato.
Sarebbe bello se questa sorta di principe di Danimarca potesse avere un ruolo negli organi decisionali dell’UEFA o della FIFA. A differenza di Platini, in cui l’istinto prevale di gran lunga sulle doti da scacchista, indispensabili in contesti così delicati, Laudrup potrebbe compiere il miracolo di apportare una rivoluzione senza dare nell’occhio. Come faceva da giocatore, al punto che ci si accorgeva di lui e del suo talento solo quando veniva a mancare. In quel momento, alla discreta ammirazione collettiva si sostituivano i rimpianti, come spesso accade ai geni che, mutuando un aforisma di Flaiano, incappano nella sventura di essere compresi.
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