Se i piani temporali intersecano e sovrappongono nella narrazione diacronia e sincronia, può avvenire che una raccolta di poesie, composte in momenti diversi, si possa anche presentare come (e, di fatto, propriamente sia) un libro, coerente dal prologo all’epilogo, di un unico racconto poetico. E proprio con questa ambivalenza compositiva, si presenta l’ultima prova di Cristiano Poletti, bergamasco di Treviglio, proposta da Marcos y Marcos col titolo Un altro che ti scrive, che è quasi una dichiarazione di poetica.
[…]
E l’uomo come un altro che ti scrive
ti dice:
veniamo da lontano certamente,
da un posto oltre questo
bosco venuto a mancare
Noi nella malattia scintilleremo.
Ricomincia il tuo pensiero
e il mio.
Quest’«altro che ti scrive» è pure una figura ambivalente, formata dall’intreccio di diverse possibilità: è il padre perduto, è l’interlocutore interiore del poeta, è un autore amato con cui egli si confronta, è un amico di avventura poetico-esistenziale, è il lettore… è, insomma, chiunque, reale o immaginario che sia, concorra a cercare le domande (non le risposte) che Cristiano formula e riformula, nella chiarezza adamantina (cioè luminosa e preziosa) del suo verso e nel nitore delle sue scelte metrico-musicali, per interrogare i tempi della vita e della storia, del viaggio e della sosta, del pensare e del sentire, del capire e dell’amare: per scoprire che «Ciò che è nascosto parla di noi. / Ciò che è sepolto parla con noi» e per «portarlo tutto nel corpo del testo».
di Cristiano Poletti
Marcos y Marcos editore, 2024
Prezzo: Euro 18,00
L’acribia compositiva e l’attenta calibratura dei pur minimi percorsi di senso, che Poletti dedica alla costruzione di ogni singolo testo, non sono solo il portato di un mestiere sapiente e affinato, ma sono soprattutto il riflesso di una particolare piega della mente verso la vita – e verso la scrittura – che costituisce lo stile originale di questo poeta.
Basta osservare l’accuratezza con cui è stata organizzata la partitura del libro in sezioni (sette, suddivise come le parti di un’opera teatrale, nella quale vi siano prologo, primo atto, intermezzo, secondo atto, intermezzo, terzo atto, epilogo), cucite fra loro dal filo conduttore di altrettante poesie (in corsivo) poste di volta in volta in esergo a ciascuna. E il filo non è una metafora, ma un filo vero: quello di lana usato, per tendere orditi e intrecciare trame, dalla secentesca industria della tessitura diffusa in Val Seriana, che l’autore aveva studiato in occasione della sua tesi di laurea in Storia moderna. Ancora una volta, in questo libro, come nel precedente Temporali (Marcos y Marcos, 2019), Poletti interseca i tempi esperienziali della sua vita con i tempi storici delle vicende collettive, mantenendosi in equilibrio sul crinale che li divide e insieme li collega in un gioco di specchi che riflette e fa riflettere, come, appunto, nelle poesie d’apertura di ciascuna sezione: «A metà valle, il lavoro della lana / era per integrare il poco che la terra dava / e anche, soprattutto, / un modo di seguire il padre / e onorarlo poi / dentro una cornice di monti»; ma «Poi venne la peste, in non poco passò e / non ne fummo toccati. I morti però / accanto a noi erano tantissimi / tra famiglia e lavoro. / Bergamo già fortificata, / ancora più lontana»; e allora «Ecco in breve / la nostra vita, i passi senza scelta»; «Così non resta che tornare / al tema della luce, il tema dell’inizio»; perché «Ormai / senza boschi né pascoli la vita sembra / pesare nel pensiero, si ferma / alla radice, in quel che resta»; e tuttavia «Com’è tutto luminoso / qui».
Una rapsodia, dunque, dove un solo movimento libero e variegato (in analessi e prolessi come il pettine di un telaio sugli infiniti passaggi della navetta col filo di trama) ne cuce insieme tanti altri in un’unica composizione musicale, che la lingua poetica di Poletti esegue adottando diversi registri linguistici. Da quelli dell’interiorità meditativa nei luoghi dell’appartenenza o negli interni del raccoglimento a quelli dell’estroversione, emotiva e culturale, verso i paesaggi della memoria, personale e corale, o del viaggio negli altrove (in Israele, in America…); e, per conseguenza, da quelli del recupero delle voci matriciali del proprio dialetto a quelli del trasporto e persino dell’innesto da altre lingue letterarie del mondo.
Il tema di fondo, espresso o implicito, che permea e attraversa la poesia di ciascuna parte del libro è quello della luce, «il tema di ogni inizio», e del suo rapporto con la parola, che pure, come Verbo, con l’inizio pare abbia avuto a che fare, almeno secondo Giovanni. Luce e parola per le amate montagne orobiche, che orlano ad arco i paesaggi sia del ricordo che dell’orizzonte quotidiano: «Mai finito Monte / Alben […] Nell’alba è il nome dato / a te e a tutto perché tutto torni / nel bianco» e «Come il residuo di una lingua / sullo sfondo c’è quell’amata / indifesa montagna. Arera si chiamava / in un’adolescenza piena di neve». Luce e parola nell’ossatura delle quattordici prose poetiche che costituiscono la sezione centrale Risposte dei quadri appesi, dove i testi, tutti in due parti graficamente distinte (l’una in tondo e l’altra in corsivo) raccontano il dialogo interiore di un soggetto sdoppiato che prima interpreta e poi riflette su un quadro, proprio o altrui, fra i tanti che adornano studio e stanze della casa del poeta, fra l’altro, anche pittore: «Lo sguardo adesso è perso nella vista»; «La veduta si dà, la visione si costruisce».
Luce e parola infine si uniscono, sciogliendosi l’una nell’altra, nelle raffinatissime composizioni della breve sezione Dalle Sefirot, quegli originari fonemi della luce primigenia che il poeta è andato a scoprire in Galilea, a Safed: «Nella mistica ebraica appaiono luci increate, le Sefirot, emanazioni di una luce primaria proveniente dal nulla e senza fine. Una radice comune, SFR, le lega ai termini ‘libro’ (sefer), ‘computo’ (sefar) e ‘storia’ (sipur)». Luce e parola si fondono così con la vicenda umana e la sua significazione:
A lungo ci siamo creduti
scomunicati dalla bocca.
Ecco, sono stati gli atti, gli errori.
E lamenti poi
e il lamento sembrava inestinguibile.
Ma uno spirito tiene a parlarci
ed è un fiume e il nostro nome naviga qui.
Coscienza, luce nascosta.
Suonate con arte,
fate dal nulla vibrare le corde
Nel respiro di un libro state
per ritornare dopo tanta luce
al nero.
Per questo, nell’ultima sezione, America, che ci riporta nel dramma sanguinario della storia (raccontando del campo di detenzione a cielo aperto di Elmira, costruito alla fine della Guerra civile nello Stato di New York per migliaia di soldati sudisti, e dell’ignominia del quale, subito dopo, è stata fatta sparire ogni traccia), si possono leggere versi come questi: «La storia / si spezza così, invasa / dall’incubo di vedersi / in un esame troppo vasto di sé / virare contro sé stessi, crollando / nella mischia infine. / Ha questa forma d’angoscia l’America: / un crollo ne porta la vertigine / in ogni parola…»; ma se «Punge l’azzurro e al nero punta / l’inverno, allora / la parola giusta è sperare»; infatti: «Non lontano c’è la chiesa e sul retro / tra i resti del piovuto un uomo / di passaggio, così calmo così / reverente che si trattiene / sotto l’arco a sesto acuto, fermo / in un taglio strepitoso / di luce».
Immagine di copertina: Oltre il Colle sulle Orobie, fra le valli Seriana e Brembana, “da una finestra in un’alba estiva”. Olio su tavola di Cristiano Poletti.
L’articolo In un taglio strepitoso di luce proviene da ytali..