
Era il 10 giugno del ’34 quando la Nazionale più fascista di sempre, allenata da Vittorio Pozzo, si impose 2 a 1 ai supplementari contro la Cecoslovacchia, vanto della scuola danubiana, all’epoca quasi egemone. Fu, dunque, un confronto tra filosofie di calcio e di vita: il Metodo puro italiano (contrapposto all’epoca al Sistema, portato all’apice della gloria da Herbert Chapman, indimenticabile allenatore dell’Arsenale di cui ricorre il novantesimo anniversario della scomparsa) contro l’organizzazione impeccabile di una compagine cui non mancava nulla e che, non a caso, per ampi tratti ci mise non poco in difficoltà. Finì 2 a 1 per noi, ai supplementari, grazie ai gol di Orsi e Schiavio che ribaltarono la rete di Puč a metà ripresa. Finì ai supplementari, in uno Stadio del P.N.F. (Partito Nazionale Fascista), l’attuale Flaminio, gremito in ogni ordine di posti e sotto gli occhi di un Mussolini che non vedeva l’ora di poter sfruttare il trionfo degli Azzurri per accrescere la propria popolarità.
Finì con l’indiscutibile successo personale di Vittorio Pozzo, l’artefice di quel capolavoro, cui sarebbero seguiti la conquista del torneo olimpico del ’36 a Berlino e il bis mondiale del ’38 a Parigi contro la Cecoslovacchia. E pensare che al demiurgo di una delle stagioni più significative della nostra storia calcistica non andava a genio un certo Fulvio Bernardini, un centrocampista di straordinario talento, ritenuto talmente bravo da mettere in soggezione i compagni. Per ironia della sorte, quasi tutte le vittorie successive dell’Italia sarebbero state merito suo, a cominciare dall’affermazione della Nazionale di Bearzot in Spagna nell’82.
Cosa resta oggi di quell’Italia? Per fortuna poco, anche se il fascismo è tornato d’attualità, non solo alle nostre latitudini, e persino il Metodo si è riaffacciato, in parte, sulla scena, a dimostrazione di quanto determinate intuizioni siano universali. A noi restano le storie, individuali e collettive, di quel calcio pionieristico, ancora frutto di un’autentica passione popolare, prima che si imponessero la dittatura degli sponsor e lo strapotere del denaro.
Non che il regime dell’epoca ci sia mai piaciuto, tutt’altro: di barbarie si trattava ed è doveroso sottolinearlo. Fatto sta che quello sport nel senso puro del termine aveva ancora una certa genuinità, un indescrivibile fascino, diremmo quasi una poesia, incarnata dalla classe di un centravanti come Meazza e dalla perfezione della macchina calcistica juventina che già allora costituiva la spina dorsale della Nazionale.
A novant’anni di distanza, non ha senso compiere paragoni. Il mondo è cambiato e nulla, a parte i venti di guerra che spirano ovunque, è simile alla realtà di un tempo che pare quasi preistorico. Ci piace, tuttavia, giocare con la memoria e ricordare quell’allenatore indimenticabile, le radiocronache di Nicolò Carosio, il già citato Meazza, la prontezza sotto porta di Schiavio, le parate di Combi, il divismo dell’oriundo Orsi e persino i commenti intrisi di retorica che comparvero su tutti i giornali, scritti in quel modo in parte per compiacere il Duce e in parte per effettivo convincimento. Tanti, troppi erano dell’idea di star scrivendo pagine di storia, che quel modo di vivere e di essere ci avrebbe condotto lontano, che sarebbe durato in eterno o, comunque, abbastanza a lungo da scandire la propria esistenza. Fu un abbaglio, un’illusione collettiva, il preludio di un incubo che presto si sarebbe materializzato nelle nostre vite, ma in quella domenica di giugno, carica di gioia, pochi, davvero pochi l’avevano capito.
Rendiamo, dunque, omaggio ai protagonisti di quel trionfo e al loro commissario tecnico, senza elogi sperticati ma senza nemmeno sottovalutarne la grandezza. Non abbiamo bisogno, infatti, di alcuna damnatio memoriae ma di conoscere, capire e tenere a mente ciò che è stato, affinché, conquista della Rimet a parte, non si ripeta. Abbiamo bisogno, insomma, di tornare a essere una comunità in cammino, e questo almeno Spalletti sembra avercelo ben presente.
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