Il frate Antonino da Scasazza (al secolo Nino Frassica in Quelli della notte) amava il potere esplicativo dei paradossi. Tra questi tipico: “è meglio salire su un autobus che finirci sotto”. È un po’ il senso del risultato delle elezioni francesi. Nel senso che per molta opinione pubblica si è evitato il rischio di una Vichy 5.0 con in più la possibilità di trovarsi all’Hôtel Matignon un mix di pressapochismo e demagogia. Quindi l’autobus lo si è evitato e si è riusciti a salirci. Per dove? Ecco il problema. Il fatto è che la vittoria della Sinistra (però è sempre meglio vincere che perdere) è molto un’illusione prodotta dal sistema elettorale vigente in Francia. Perché premia la capacità di coalizione dei partiti. La destra lepenista ne ha poche. Conseguentemente è sottorappresentata all’Assemblea nazionale.
Forse le elezioni, dopo il voto per il parlamento europeo, sono state convocate proprio per frenare l’onda del RN. Obiettivo conseguito. Purtuttavia anche i vincitori (ci sono?) hanno i loro acciacchi. Uno è che le “coalizioni contro” durano lo spazio di un mattino elettorale; l’altro, conseguente a questo, è che l’esito politico altera in profondità la logica di funzionamento della V^ Repubblica. La ragione è che il dopo-urne dà alla Francia un presidente indebolito; cioè un’anitra zoppa nell’immaginifico ma pragmatico linguaggio politico statunitense. Cui aggiungere un parlamento che un po’ pirandellianamente vaga alla ricerca di una maggioranza in cerca d’autore.
La Francia oscilla sempre tra Re Sole e Robespierre. In fondo il disegno della V^ Repubblica è quello di una monarchia elettiva al massimo col contrappeso di una maggioranza opposta. Oltralpe l’assetto istituzionale formale è dato assieme dalla Costituzione del 1958 e dal referendum del 1962 che portò all’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Diversamente, la costituzione materiale (la vita concreta delle istituzioni) si è sviluppata sull’azione di De Gaulle che puntava in via di prassi a rafforzare l’Eliseo su Hôtel Matignon. Questo fino a dare al presidente il potere di revoca del premier. In sostanza la struttura del potere francese è bicefala. Per consuetudine il primo motore politico è presidenziale mentre per Costituzione governa il primo ministro. Di fatto, se maggioranza elettiva del presidente e quella che ha prodotto l’equilibrio nell’Assemblea nazionale divergono allora in parte si limita il potere presidenziale. Si chiama coabitazione. È il modo in cui il semipresidenzialismo gallico affronta il problema delle “maggioranze divise”.
Niente di tutto questo, come si dirà, è nel menu politico di Parigi dopo le elezioni politiche. Più probabile, all’opposto, il passaggio dalla monarchia presidenziale a un assetto istituzionale paradossalmente più vicino allo spirito originale del 1958 della stessa costituzione della V^ Repubblica. Oppure, forse più facilmente, a una sorta di assemblearismo parlamentare come prima di De Gaulle e la prassi costituzionale da questi concepita per la Francia. Le urne sembrano dire questo. Naturalmente sarà la “chimica parlamentare” a stabilire l’esito. Comunque si palesa come uno scoglio per la resa politica del regime istituzionale francese nei fatti evolutosi per avere nel presidente il dominus del gioco democratico. Una pessimo risveglio per l’Eliseo al cui inquilino verrà qualche dubbio rispetto alla scelta fatta di sciogliere anticipatamente l’Assemblea nazionale.
Sono prevedibili preoccupazioni per una possibile fragilità francese che potrebbe riflettersi sull’asse franco/tedesco nell’UE. Analogamente queste si riflettono pure in Italia visto che il suo rapporto con Parigi incide sul suo peso a Bruxelles. Una situazione dalle molte incognite alla quale almeno in parte ha contribuito il sistema elettorale francese a doppio turno. Esso è stato uno dei fattori di successo per la tenuta nel tempo della V^ repubblica. Anzi, un meccanismo fin qui perfetto per garantire la sua logica di funzionamento. Il punto è che i sistemi elettorali sono poco più che semplici sismografi per registrare i mutamenti dell’opinione pubblica. Piuttosto il problema è che possono amplificare e forzare gli esiti del voto.
Insomma, se cambiano le circostanza ne cambia pure il funzionamento. È un sistema elettorale spesso evocato nel Belpaese. Mutuato dall’Italia unita dal Regno di Sardegna restò in vigore fino al 1882. Oggi con esso si eleggono i sindaci dei comuni maggiori. La situazione è comparabile alla francese? No, perché una cosa è disciplinare l’elezione di cariche monocratiche e altra cosa, come Oltralpe, è l’attribuire i seggi in un parlamento. Ovviamente vi sono analogie; ma le differenze di situazione pesano. Ad ogni modo, prima di precisare il “come” agisce il doppio turno in salsa francese, merita sottolineare che in linea di principio è un sistema appartenente alla famiglia dei sistemi elettorali maggioritari. La cui caratteristica è di creare sbarramenti di accesso al mercato del voto per ridurre la gare elettorale ad oligopolistica invece che pienamente competitiva.
Tuttavia poiché loro caratteristica è di balcanizzare lo spazio elettorale in tanti collegi territoriali (vale pure per l’uninominale inglese), ne consegue che questi sistemi elettorali, se in presenza di partiti “locali” o strategici per l’aggiudicazione del seggio, possono favorire la frammentazione partitica addirittura più del proporzionale. Di più il doppio turno dovrebbe avere una potenzialità dis-rappresentativa particolare: punire alle seconde votazioni le forze politiche dotate di minor capacità di alleanze. Come difatti è capitato alla Destra della Le Pen al secondo turno delle recenti “politiche” in Francia. Infatti con scarso potere di coalizione rispetto alle forze coalizzatesi nel nome dell’ideologia repubblicana. Anzi, come anticipato, forse è questa la ragione dell’azzardo dello scioglimento anticipato dell’Assemblea nazionale deciso dal presidente Macron.
Ciò posto, la logica operativa del doppio turno è questa. Il primo corrisponde a una ricerca d’opinione che ha come campione l’intero corpo elettorale. I votanti esprimono la prima preferenza per la forza politica preferita liberi da calcoli d’opportunità. Lo fanno con tranquillità sapendo che al primo turno è raro superare il cinquanta per cento richiesto per vincere nei collegi. Difatti decisivo è il secondo turno. Qui basta un voto in più per prendere il seggio. A proposito degli “sbarramenti al mercato elettorale” prima accennati, si arriva al secondo turno solo superando il 12 per cento degli aventi diritto (ben più dei votanti). I partiti dei sopravvissuti al primo turno hanno due opzioni. O corrono (a danno del candidato più vicino) o trattano ritiri concordati per battere il più lontano ideologicamente. Il meccanismo tende (o tendeva) a favorire i più moderati e sotto rappresentare le forze radicali.
La novità in Francia è che questa volta la dis-rappresentazione (pochi seggi in proporzione ai voti presi), ovvero il taglio delle ali, è sostanzialmente mancato. Infatti ora Melenchon e la Le Pen (sebbene parzialmente contenuta nei seggi) sono entrambi difficilmente isolabili. Anche se i tentativi saranno molti. Notizia poco gradita per i fan del doppio turno; quantomeno perché ha mancato nell’impedire il rischio dell’assemblearismo parlamentare. L’opposto della filosofia istituzionale gollista. Infatti, sebbene la monarchia costituzionale abbia almeno nel primo anno post elettorale condizionanti il governo, potrebbe presto accadere che il presidente dei francesi da “Re elettivo” forte dinnanzi all’Assemblea nazionale si trasformi in “Re assediato” dall’Assemblea nazionale medesima. Così il “motore presidenziale” del sistema politico gallico va in panne.
Sarebbe l’instabilità del governo assembleare da cui ha voluto fuggire De Gaulle. Certo, Parigi ha già vissuto coabitazioni tra maggioranze opposte. Vero, ma erano patologie minori (poi curate con la riforma costituzionale del 2000 che equiparò durata di legislatura e di presidenza). Il punto è che allora il sistema elettorale selezionava un bipolarismo centripeto. Conseguentemente, pur in un frangente subottimale, la “verticale del potere” gollista permaneva. Semplicemente, dato il carattere bicefalo del sistema, il pendolo del potere oscillava maggiormente verso il parlamento. Viceversa ora dalle urne è uscita un’Assemblea nazionale frammentata. A dimostrazione che il brand del doppio turno, ossia il taglio delle ali estreme, cessa di operare se queste si assestano dal dieci per cento a oltre.
Altrimenti, come accaduto in Francia, è arduo. Una lezione anche per il Belpaese e i sogni di facile import istituzionale. L’insegnamento è che nessun sistema elettorale, di suo, può supplire all’azione politica. Quindi se un’oligarchia emergente (nel senso di Roberto Michels) sfida le oligarchie tradizionali e conquista rilevante consenso, allora riuscirà a bypassare qualsiasi sbarramento elettorale. Il motivo è che l’ingegneria istituzionale prova (più o meno bene ed equamente) a rappresentare lo spazio politico. Mai però può crearlo.
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