Tra i tanti itinerari che si possono scegliere in montagna in questo periodo di vacanze, senz’altro la visita a un giardino botanico d’alta quota può riservare delle piacevoli sorprese.
In Trentino un piccolo gioiello è il Giardino Botanico Alpino di Passo Coe, che si raggiunge comodamente in macchina, venendo da Folgaria lungo la strada provinciale 143 oppure, dal Veneto, percorrendo la strada provinciale 64, molto panoramica e immersa nel bosco. Il giardino è ben segnalato. Si accede dall’ampio parcheggio sul Passo Coe, percorrendo a piedi i cinquanta metri di una stradina sterrata. L’ingresso è a pagamento.
Siamo a milleseicento dieci metri sul livello del mare, sull’Altopiano di Folgaria, territorio di Folgaria-Lavarone-Luserna-Vigolana, denominato Alpe Cimbra. È stato istituito nel 1990, grazie all’intuizione di Alfredo Gelmi, un micologo di Folgaria che ritenne il luogo adatto alla creazione di un giardino botanico. Al Giardino di Passo Coe si fa conservazione dell’ambiente montano e della cultura legata a esso, piuttosto che delle specie botaniche rare. L’ambiente di oggi è molto diverso rispetto a quello del 1919, documentato da una foto visibile presso l’Osteria Coe al Passo. Infatti, nel 1919, l’area era tutta dedicata al pascolo, prativa, per il bestiame. Ora è ricoperta quasi totalmente dal bosco.
Caratteristica è la parte geologica del giardino. Sono visibili i fenomeni tipici del carsismo quali i campi carreggiati, le doline di crollo e i calcari ricchi di fossili. Si può godere la frescura della dolina, in cui il microclima più fresco dovuto all’aria intrappolata in cunicoli sotterranei consente lo sviluppo di specie come il Ribes Petraeum (che nasce sulla pietra).
I diversi settori occupano tre ettari delle pendici del Monte Maggio, con tracciati, a forma di “otto”, che riportano sempre il visitatore all’entrata, attrezzati con pannelli esplicativi. Ciascuna delle trecento entità botaniche presenti nel giardino è identificata con un cartellino; accanto alle informazioni classiche (famiglia, nome scientifico e nome comune in tre lingue: italiano, tedesco, inglese) troviamo una foto a colori del fiore e la tipologia d’uso, distinta in commestibile, commestibile-officinale, officinale, tossica- officinale, tossica.
Al primo impatto ci immergiamo nella cultura delle Terre Alte, con l’orto di montagna, che era ed è coltivato non solo per la produzione degli ortaggi di sussistenza del gruppo famigliare, ma con fiori da recidere per la casa o il cimitero, piante alimurgiche (mangerecce) e officinali per la cura dei disturbi più frequenti, come la Bardana (Arctium Iappa), dalla potente azione diuretica, il Rabarbaro (Rheum palmatum) considerato la panacea per tutti i mali (se ne ricava un’ottima marmellata dai piccioli fatti imbianchire), la Monarda (Monarda didyma) per i disturbi digestivi e respiratori (pianta importata dal Nord-America, detta il tè degli Indiani), l’Assenzio (Artemisia absentium)con proprietà digestive e inebrianti e le aromatiche.
Dall’orto di montagna si passa alla zona detta roccera presente in ogni giardino botanico alpino, che è una ricostruzione dell’ambiente delle rupi dove si possono notare le strategie di adattamento delle piante alle alte quote: le sassifraghe (Saxifraga sp.) hanno foglia carnosa come riserva d’acqua e ornate da sali di calcio espulsi dalla pianta perché assunti in eccesso, lo Hieracium villosum è dotato di peli, che lo proteggono dai raggi ultravioletti (Uv); l’esempio più noto di questa strategia è dato dalle stelle alpine così efficaci nella protezione dagli Uv e dagli agenti atmosferici in generale che vengono coltivate per ottenere prodotti per la protezione della pelle. La Dryas octopetala o Camedrio alpino per resistere alle escursioni termiche estreme adotta un andamento prostrato, strisciante, a cuscino. Nella roccera troviamo anche il Giglio martagone (Lilium martagon) detto Turbante o Cappello del turco (era il fiore sacro al dio della guerra Ares, Marte per i latini, considerato di buon auspicio dai soldati greci, che lo portavano in battaglia. “Martagon” è un vocabolo turco che significa “turbante”).
Si susseguono le aiuole che hanno intento didattico e contengono piante che devono essere attentamente distinte le une dalle altre: infatti se alcune sono officinali, commestibili come l’aglio ursino (Allium ursinum), altre, a foglia similare, come il mughetto (Convallaria majalis), sono velenose; l’Aruncus dioicus, detto barba di capra, è una pianta officinale commestibile, con foglie apparentemente molto simili a quelle dell’Actea spicata, specie tossica e velenosa. Il Polygonatum multiflorum detto Sigillo di Salomone, dai bei fiori disposti come corde su una cetra, ha radice con ottima funzione antinfiammatoria, ma foglie tossiche.
Si passa alla zona del bosco e della pozza alpina. Il bosco ha delle presenze curiose: i grandi formicai, che mutano di luogo negli anni e gli abeti visitati dal picchio. Un tronco d’abete presenta una spaccatura e più fori: segni lasciati dal picchio e divenuti nidi e luoghi di ricovero per gli animali della foresta. Simili tronchi sono contrassegnati dalla Forestale con una “P”, a indicare la necessità di non abbatterli. La pozza è poco profonda, artificiale, alimentata dalla pioggia e dall’acquedotto. Ha fondo in argilla, a cui va fatta periodicamente manutenzione. Fungeva da abbeveratoio per gli animali, ma ora è il luogo dei tritoni e delle piante lacustri tra cui la Typha angustifolia, la Caltha palustris e la Mentha longifolia. Tornando all’ingresso, visitando la parte più a nord del giardino, ci si trova di fronte a dei campi coltivati a scopo didattico, con patate, cipolle, mais, fagioli tipo Spagna, dal fiore rosso molto ornamentale; un piccolo ricovero per animali che ospita d’estate due asinelli, delle galline, qualche coniglio. Tutt’intorno alla “stalla” piante nitrofile, come l’Ortica (Urtica dioica), il Buon Enrico (Blitum bonus-henricus) o spinacio selvatico. In mezzo al vialetto ci si imbatte nel Veratro (Veratrum album) pianta particolarmente decorativa, ma altamente tossica, con foglie disposte a spirale, la quale deve essere distinta attentamente dalla “simile” Genziana maggiore (Gentiana lutea), la cui radice è utilizzata per la produzione di grappe e le cui foglie sono meno striate e disposte l’una opposta all’altra, in una forma a croce.
Alcune zone presentano dei muretti a secco, eretti negli anni novanta del Novecento, secondo il modo tradizionale di delimitare le proprietà e contemporaneamente eliminare i sassi dai campi. Anche qui si sviluppano felci, il Sempervivum e altre entità botaniche.
Nel sottobosco della parte vicina alla zona denominata Vaia perché maggiormente colpita dalla tempesta del 2018, si nota il Mirtillo (Vaccinium myrtillus), la Clematide alpina (Clematis alpina), rampicante che è raro vedere in fiore, il Botton d’oro (Trollius europaeus), alcune orchidacee, tra cui l’orchidea sambucina (Dactylorhiza sambucina), i cui fiori possono variare, da esemplare a esemplare, dal colore giallo al colore magenta, facendogli così assumere il nome comune di Orchidea Adamo ed Eva nei paesi scandinavi.
Si passa accanto a un Cirmolo (Pinus cembra), dal legno profumato e con aghi disposti a ciuffo, in gruppi di cinque, un piccolo esemplare di abete bianco (Abies alba), molti abeti rossi (Picea abies), alcuni sradicati dalla tempesta Vaia, che mostrano le loro possenti radici superficiali, adatte a sopportare il peso della neve, ma non la violenza del vento di quella tempesta. Ci sono poi betulle (Betula pendula), spesso a cespuglio con due o tre fusti e dei bei cuscini di ginepro (Juniperus communis), conifera che a bassa quota prende l’aspetto di un piccolo albero mentre ad alta quota forma dei cespugli alti venti o trenta centimetri.
Una curiosità è la sezione del tronco dell’Avez del Prinzep, che era il più alto abete bianco d’Europa, con i suoi cinquantaquattro metri di altezza; oltre cinque metri e mezzo di circonferenza; vecchio circa duecentocinquant’anni quando nel 2017 subì lo schianto. Guardando la sezione del tronco si possono contare gli anelli di accrescimento formati annualmente dall’albero come in una sorta di macchina del tempo. Un’ultima ragione per visitare questo giardino d’alta quota è la cosiddetta flora di guerra o flora castrense, ovvero la presenza di specie che sono state importate inconsapevolmente nel periodo della prima guerra mondiale sotto forma di semente assieme al foraggio per gli animali utilizzati per il trasporto di armamenti e derrate alimentari per le truppe. Diverse specie piuttosto “banali” che conosciamo e che crescono anche vicino alle nostre abitazioni hanno questa origine. Per citare qualche esempio Matricaria discoidea, Linaria vulgaris, Oxalis fontana, Sorghum halepense e il ben noto Chenopodium bonus-henricus sono riportate come specie castrensi in Trentino.
Immagine di copertina: una panoramica del Giardino Botanico Alpino di Passo Coe tratta dal sito ufficiale di Alpe Cimbra.
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