Geelong ha poco più degli abitanti di Venezia. È, per dimensione, dopo Melbourne, la seconda città dello Stato del Victoria, in Australia. È un porto e ha un passato industriale, in via di sgretolamento.
Ha un nome, che fatico a pronunciare, derivante dal termine col quale gli aborigeni Wathawurrung indicavano la baia.
É una città di provincia in declino occupazionale, ma con una crescita demografica rapida, il cui tessuto urbano è segnato dalla gentrificazione.
Non ne conoscevo l’esistenza fino a quando non sono andata a cercarla, su una carta geografica, per capire da dove arrivasse il Back to Back Theatre, leone d’oro alla carriera della 52ª Biennale Teatro che si è appena conclusa a Venezia. La compagnia australiana, per la prima volta in Italia grazie all’invito di Stefano Ricci e Gianni Forte, direttori del settore teatro dell’istituzione veneziana, nel 2022 ha ottenuto il premio Ibsen, creato dal governo norvegese, considerato una sorta di Nobel.
Leone d’oro e Ibsen si aggiungono ad altri riconoscimenti conseguiti negli ultimi vent’anni per le produzioni realizzate.
Il Back to Back Theatre esiste da oltre tre decenni ed é guidato dal 1999 da Bruce Gladwin (1966) direttore artistico che riunisce in sé le figure del regista, del drammaturgo, dello scenografo. Intorno a Gladwin – lo si vede consultando il sito del Back to Back e il catalogo della Biennale – c’è un gruppo folto di persone che si occupano della “macchina” performativa e della sua organizzazione amministrativa. Ma tutto si muove e si regge intorno a un nucleo fondamentale di interpreti:
Sarah Goninon, Simon Laherty, Sarah Mainwaring, Scott Price, Tamika Simpson. Attori, ma anche co-creatori e ispiratori degli spettacoli della compagnia, che sono neuro- diversi o con disabilità.
Dei Back to Back hanno scritto influenti testate come il New York Times e il Guardian: la compagnia da tempo si divide tra il lavoro in Australia (con il teatro, i workshop didattici ma anche le produzioni cinematografiche e televisive) e le tournée in America settentrionale, Europa e Asia. La loro cifra è l’esplorazione di temi sociali, politici, filosofici attraverso una poetica scarna di limpida crudezza che utilizza la disabilità come strumento di ricerca e indagine artistica.
Lo sforzo è teso a cancellare i pietismi di facciata, a superare il politicamente corretto e a mettere sotto i riflettori le ammaccature della nostra comune umana imperfezione. Gli artisti del gruppo – che é specchio, va tenuto presente, di una più ampia comunità che ha fatto del teatro elemento di crescita personale, di lavoro e di vita – portano sul palcoscenico storie del nostro tempo inquieto e la variegata incompletezza di ogni essere umano. Frantuma, il Back to Back Theatre, l’ottuso senso di onnipotenza che pervade le società in declino e scandaglia gli anfratti bui delle coscienze imbellettate. É questa la filigrana che fa da colonna vertebrale allo spettacolo presentato a Venezia, per due sere, al termine di questa Biennale teatro. “Food Court”, che si è visto Al Teatro Piccolo Arsenale, in campo della Tana, è un lavoro storico del gruppo. Risale al 2008 ma resta una perla teatrale la cui attualità non è stata intaccata perché mette a nudo temi universali. Lo spettacolo, concentrato in sessanta minuti, riproduce con una linearità essenziale, neutra e tuttavia bruciante il crescendo dei meccanismi del bullismo, la crudeltà e la nuda ebbrezza della sottomissione praticata con l’oltraggio verbale e quello fisico.
Durante la cerimonia di premiazione del gruppo, Bruce Gladwin ha ricostruito la genesi di questo testo suggerito da una conversazione udita mentre la comunità stava pranzando. Due attori parlavano di cibo ma anche di potere e controllo. Da qui nacque l’idea, elaborata in sala prove con gli attori, che ha prodotto la sceneggiatura.
Dal 2008 a oggi ci sono stati avvicendamenti all’interno del gruppo di interpreti, ma lo spettacolo ha conservato la propria forma che prevede l’elasticità scenografica, per adattarlo ai luoghi in cui viene portato, e la strepitosa improvvisazione musicale di un importante gruppo australiano di jazz di avanguardia “The Necks “, un trio che accompagna dal vivo, come avvenuto a Venezia, ogni rappresentazione.
Al Piccolo Arsenale – con lo sfondo dei muri che ancora conservano tracce di un albero dipinto per un antico fondale – attraversati da una sotterranea intensificazione dell’ inquietudine, avviluppati dalla musica come da un respiro carico di ansia, attori e pubblico hanno condiviso la progressione di dialoghi tossici, azioni malvagie inanellate in una catena di eventi senza una reale causa, senza una effettiva motivazione. Un susseguirsi di atti che arriva all’omicidio.
Nelle ultime battute di “Food Court”, mentre il palcoscenico si trasformava in una foresta maligna come quelle delle fiabe più disturbanti, si veniva risucchiati e avvolti dai rami minacciosi e scuri in una dimensione di negatività offuscante e incombente, penetrante e pervasiva dalla quale ciascuno di noi può essere soggiogate, Diventando, in un attimo, vittime o carnefici o incarnando entrambi i ruoli contemporaneamente.
Galleggiava tutto intorno una coltre di spiriti senza pace. Quelli di un “fatto di cronaca” agghiacciante, avvenuto trent’anni fa nei pressi di Liverpool, cui lo spettacolo allude in modo non diretto: l’uccisione, preceduta da sequestro e torture, di un bambino di due anni da parte di altri due bambini di dieci anni. Un dramma nel dramma, un abisso che fa sprofondare nelle peggiori crudeltà narrate e mai spiegate dalla Bibbia. Una tragedia che ha segnato persone e famiglie a loro volta già segnate dalla vita.
Sui gorghi dell’umano sentire ha messo più volte l’accento il 52º festival intitolato non a caso Niger et Albus. Un festival, che chiude i quattro anni di direzione di Ricci e Forte, con lo sguardo rivolto alla teatro postdrammatico, alle mescolanze tra realtà, cronaca, ruolo etico e sociale e politico del palcoscenico. Un festival, quello di quest’anno, che ha regalato la visione di spettacoli di grande intensità e di magistrale realizzazione. Come il lituano “Have a Good Day!” affresco della società dei consumi – che come un Saturno ingoia i propri figli- in forma di opera per dieci cassiere, suoni di supermercato e pianoforte.
O come il più recente lavoro di Milo Rau, registra, drammaturgo, giornalista svizzero fondatore di una compagnia di produzione teatrale e cinematografica e dell’Istituto internazionale di omicidio politico. Al Teatro alle Tese, in chiusura del Festival della Biennale, è andato in scena “Medea’s Children” che intreccia la tragedia greca e la tragicità di una cronaca recente: il figlicidio di cinque ragazzi in Belgio, nel 2007. “Medea’s Children” é analisi delle più profonde emozioni, dei sentimenti e del dolore dentro e intorno a una donna che uccide i propri figli. Tutto narrato attraverso le voci, e gli occhi, dei bambini.
L’articolo Il grande teatro venuto da lontano proviene da ytali..