La mattina dopo il voto del 4 luglio, la Gran Bretagna si è svegliata con un nuovo primo ministro. A varcare la porta del n. 10 di Downing Street è stato Sir Keir Starmer, leader di un partito laburista che è tornato al potere a 14 anni di distanza dalla fine del governo guidato da Gordon Brown.
Sia le previsioni della vigilia che gli exit polls divulgati immediatamente dopo la chiusura dei seggi si sono rivelati precisi, specialmente per quanto riguarda il partito vincitore – quello laburista – che, accreditato di 410 seggi negli exit polls, ne ha ottenuti 412. Il crollo del partito conservatore, invece, è stato ancora peggiore delle previsioni, con soli 121 seggi ottenuti, un meno 251 rispetto alle elezioni del 2019 (in pratica ha perso due seggi su tre). Di rilievo è stata anche la performance dei liberal democratici, i quali hanno conquistato ben 72 seggi, il miglior risultato da cent’anni a questa parte (ne avevano 8 nel 2019). Rispetto agli exit polls, che lo accreditavano di 13 seggi, ha fatto peggio Reform UK, il partito di Nigel Farage, il quale è tuttavia riuscito a ottenere uno dei 5 seggi vinti dal suo partito.
Il governo Starmer, insomma, potrà godere di una larghissima maggioranza parlamentare, pari a 174 seggi (in più rispetto alla metà dei seggi della House of Commons). Dal punto di vista numerico si tratta della seconda maggioranza ottenuta da un partito nel dopoguerra, dopo quella conseguita da Blair nella trionfale tornata elettorale del 1997 (178 seggi) e prima di quella dello stesso Blair nel 2001 (166 seggi). A distanza si colloca la più consistente maggioranza ottenuta da un governo conservatore: i 144 seggi conquistati dal secondo governo Thatcher, nel 1983.
La legge elettorale certamente ha favorito Starmer, perché in generale essa favorisce i grandi partiti. Se si guarda ai dati percentuali a livello nazionale, infatti, la situazione è diversa: i laburisti hanno infatti ottenuto il 63% dei seggi ma “soltanto” il 34% dei voti; i conservatori 24% e 19%; Reform UK 14% e 1%; i liberal democratici 12% e 11%; i verdi 7% e 1%; lo Scottish National Party 3% e 1%; gli altri percentuali residuali. Reform UK, il partito più danneggiato dalla legge elettorale, ha non a caso sollevato la questione, dato che gli oltre 4.100.000 voti sono serviti a garantirgli solo 5 seggi (loro candidati sono arrivati secondi in ben 103 constituencies), mentre i liberal democratici, che hanno seguito il partito di Farage con circa 3 milioni e mezzo di voti, sono arrivati a ben 72 seggi grazie a un consenso maggiormente reginalizzato, soprattutto nel sud del paese. Ha ottenuto addirittura più seggi di Reform UK anche Sinn Fein (7 seggi), con soli 211.000 voti, ma tutti collocati in constituenciesnord-irlandesi. In effetti la legge elettorale è tarata per il bi-partitismo, mentre negli ultimi anni vi è stata una certa frammentazione, con consensi crescenti per i partiti minori. Non è da dubitare che vi sarà un dibattito nei prossimi mesi o anni; d’altronde la questione era stata da tempo sollevata proprio dai liberal-democratici che, tradizionale terzo “incomodo” fra tories e labour, erano stati sempre (ma non questa volta) sotto-rappresentati in parlamento.
In alcuni casi, seggi sono stati conquistati con maggioranze risicatissime (le minori: 15 voti a Hendon e 18 a Poole, seggi entrambi vinti dai laburisti); in molti di questi seggi vinti dai laburisti ha certamente pesato il successo di Reform UK e la conseguente divisione dei voti di centro-destra e destra, la cui somma sarebbe stata invece superiore a quelli ottenuti dal partito di Starmer in ben 180 seggi.
Ad ogni modo, il sentimento per il cambiamento era ormai ampiamente diffuso nel paese. Persino il Sun, il tabloid più diffuso nel Regno Unito, pur evidenziando qualche distinguo in virtù della sua impostazione tendenzialmente conservatrice, si era espresso a favore dei laburisti al grido di “time to change” (il quotidiano ha spesso seguito l’onda, appoggiando ogni partito poi risultato vincitore, a partire dal 1979). Certamente i disastri degli ultimi governi conservatori e lo spostamento dei labour verso il centro hanno influenzato l’endorsment (che, fornito il giorno del voto, ha assunto un tono calcistico alludendo alla necessità di avere un nuovo manager – allenatore – ma specificando che il riferimento non era a Southgate, allenatore della nazionale inglese impegnata a Euro 2024, sottintendendo che l’oggetto della critica era il primo ministro).
Se il risentimento nei confronti del partito conservatore era abbastanza diffuso, come detto esso si è in realtà manifestato maggiormente con uno spostamento dei voti a destra, piuttosto che a sinistra. Rispetto al 2019, infatti, i laburisti hanno avuto una crescita solo dell’1,6% mentre il -20% dei conservatori si è diretto soprattutto verso Reform UK (+12,3%).
Se si analizzano bene i dati, infatti, la strabordante vittoria non può essere considerata immune da ombre. La prima riguarda l’affluenza: essa non ha raggiunto il 60%, di un niente superiore al dato del 2001, risultato peggiore del dopoguerra, dopo il quale vi era stata una risalita (fino al 67,3% del 2019). In termini di voti assoluti, poi, i laburisti hanno raggiunto la quota di 9.700.000, mentre erano arrivati a 10.269.000 nel 2019. Calcolando che gli aventi diritto sono circa 48 milioni, il consenso sul totale del corpo elettorale si colloca quindi attorno al 20%. Se i laburisti sono riusciti a riconquistare quel “red wall” operaio del nord che avevano perso nelle ultime tornate, c’è da dire che i consensi del partito sono rimasti quelli del 2019 in aree come le West Midlands e l’Inghilterra sud-occidentale, e sono addirittura calati a Londra. Solo in Scozia i labour sono riusciti ad assorbire in larga misura il netto calo del partito nazionalista, lo SNP.
Da un lato la vittoria annunciata potrebbe aver scoraggiato il voto (ma è da vedere se abbia scoraggiato maggiormente i previsti vincitori o i previsti sconfitti). Comunque il governo, che ha cinque anni per cercare di portare avanti le promesse elettorali senza la pressione di elezioni di medio termine, dovrà consolidare certamente il consenso nel paese. Sicuramente, rispetto a Blair, Starmer ha il vantaggio di avere una leadership indiscussa nel partito; come noto, invece, il New Labour del periodo 1997-2005 era “avvelenato” dalla continua rivalità/tensione fra Blair e Brown.
La scuola sarà uno dei cavalli di battaglia del nuovo esecutivo. Solo uno dei 25 membri del governo Starmer viene da scuole private: un cambiamento enorme rispetto al governo precedente, in cui gli appartenenti alla “working class” costituivano una percentuale risibile e, tra i membri del governo in carica ad ottobre 2022, il 61% aveva frequentato scuole private. Nel manifesto elettorale laburista vi è l’intenzione di tassare le fees di coloro che si iscrivono alle scuole private in modo da reperire risorse da destinare alle statali.
Nel suo discorso di insediamento Starmer è stato molto conciliante, sottolineando la necessità di ricostruire il paese e di perseguire “il ritorno a una politica del servizio pubblico”. La scuola sarà uno dei cavalli di battaglia del nuovo esecutivo. Solo uno dei 25 membri del governo Starmer viene da scuole private: un cambiamento enorme rispetto al governo precedente, in cui gli appartenenti alla “working class” costituivano una percentuale risibile e, tra i membri del governo in carica ad ottobre 2022, il 61% aveva frequentato scuole private. Nel manifesto elettorale laburista vi è l’intenzione di tassare le fees di coloro che si iscrivono alle scuole private in modo da reperire risorse da destinare alle statali.
Nato a Londra nel 1962, Starmer ha iniziato la propria carriera come avvocato per i diritti umani per poi diventare director of public prosecutions, ruolo ricoperto fra il 2008 e il 2013 (qui un nostro ritratto di due anni fa). È entrato in Parlamento nel 2015, per diventare leader del partito laburista nel 2020. Come leader di opposizione si è trovato ad avere a che fare con tre primi ministri: Johnson, Truss e Sunak.
Un ruolo importante nel nuovo governo lo ricoprirà Rachel Reeves, la quale – dopo tre anni da ministro ombra – è divenuta, prima donna, Chancellor of the Exchequer, ovvero ministro dell’economia. Di formazione economica (ha ottenuto il suomaster alla London School of Economics), ha iniziato la carriera lavorando in banca, prima alla Banca d’Inghilterra, poi a HBOS. Dopo aver fallito l’elezione in parlamento sia nel 2005 che nelle suppletive del 2006, è entrata nella House of Commons nel 2010,ricoprendo poi ruoli in vari comitati economici o come ministro ombra nell’ambito di pensioni e lavoro, prima di passare all’economia.
Un’altra donna, Angela Rayner, sarà la vice di Starmer: dopo una carriera iniziata nel sindacato, è stata eletta in parlamento nel 2015. Anche il ministro dell’interno sarà un’altra donna, Yvette Cooper, che ha alle spalle una carriera più lunga, essendo stata coinvolta già nei governi capeggiati da Blair e da Brown. Alla Giustizia è andata Shabana Mahmood, prima donna musulmana ad essere eletta in Parlamento nel 2010. Ministro degli esteri sarà invece David Lammy, figlio di genitori provenienti dalla Guyana: nel corso della sua carriera parlamentare, iniziata nel 2000, si è distinto per battaglie in favore delle minoranze etniche. Nelle prossime settimane impareremo a conoscere meglio i membri del nuovo governo, le cui prime politiche saranno esplicitate da re Carlo III nel discorso di apertura formale del parlamento del 17 luglio.
Nelle ultime settimane di campagna elettorale i laburisti si sono guardati bene dal fare promesse radicali riguardo alla Brexit. Mentre il partito era capeggiato da Corbyn, nel 2016, Starmer divenne ministro ombra per quell’uscita dall’Unione Europea che i conservatori si avviavano a formalizzare. In tale occasione era fervente sostenitore di un secondo referendum sulla Brexit (così come fierissimo oppositore della Brexit era Lammy, l’attuale ministro degli esteri). A distanza di otto anni, e dopo un complicatissimo processo di uscita, Starmer ha garantito che “in his lifetime” il Regno Unito non rientrerà nell’UE; nell’imminenza del voto, inoltre, ha ribadito che, se eletto primo ministro, non avrebbe cercato neppure di instaurare con essa rapporti più stretti. Altri membri del partito hanno evitato di sbilanciarsi sul fatto che questo possa succedere durante un’eventuale seconda legislatura al potere. Nel frattempo, secondo gli ultimi sondaggi, il 55% degli elettori ritiene che la Brexit sia stata un errore. Se tale percentuale dovesse aumentare di molto nei prossimi anni, magari la questione si riaprirà, anche se un rientro a pieno titolo sembra impraticabile.
Concludiamo con una nota di colore su un aspetto che certamente non ha avuto comunque alcun impatto sul risultato elettorale. A un italiano – abituato a districarsi fra tessere elettorali, carte d’identità e matite copiative – sembrerà incredibile, ma quelle del 2024 sono state le prime elezioni politiche in Gran Bretagna in cui è stato obbligatorio presentarsi al seggio con una qualche forma di identificazione (che, per ultra-sessantenni e disabili, arriva a includere abbonamento dell’autobus). La norma, introdotta nel 2023 e già sperimentata in alcune elezioni locali, è stata adottata perché fra il 2019 e il 2023 “ben” 1.462 casi di frodi elettorali sono stati denunciati alla polizia; fra questi 11 riguardavano impersonificazione di altri individui al seggio. Nel consigliare l’adozione della norma, la commissione elettorale ha peraltro consigliato di allargare le maglie, ammettendo al voto persone prive di forme di identificazione, ma accompagnate da persone che, essendone invece dotate, potessero garantire l’identità dei primi.
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