La sfida lanciata al mondo della cultura e della scienza da Mauro Ceruti, lo scorso 25 Maggio su Ytali (cfr: Una nuova Paideia nel tempo della complessità) per la generazione di una grande Paideia «che contenga in sé il senso dell’irriducibile legame di ogni cosa con ogni cosa»; che riconosca come «la ricerca di un nostro rapporto coevolutivo con tutti gli attori del mondo, viventi e non viventi, sia la precondizione per la nostra stessa sopravvivenza e la possibilità di delineare un futuro vivibile e fecondo»; e che, perciò, sappia accogliere a proprio fondamento «l’indivisibilità e nello stesso tempo la pluralità dell’umanità», coinvolge direttamente un tema formativo e pedagogico, oggi come sempre, di grande portata antropologica: l’educazione alla fruizione consapevole e continuativa dell’opera di scrittura poetica.
Nella mia lunga esperienza di docente di Letteratura, ho sempre saputo che l’approccio scolastico al prodotto letterario ha finalità molto diverse da quelle che legittimamente si propone un’insegnante di altre discipline: un bravo docente di Matematica cerca ragionevolmente di formare dei giovani, ma discreti, matematici; o un docente di Chimica può sperare di creare dei decenti piccoli chimici; ma lo scopo di un insegnante di Lettere non può essere quello di generare tanti piccoli scrittori e poeti. Tantomeno discreti o solo decenti: ce n’è già un fottio in circolazione. Lo scopo dell’insegnamento della Letteratura (per via della natura stessa della disciplina) è invece quello di un batesoniano deutero-apprendimento, vale a dire lo sviluppo e la capacità, nell’allievo, di un pensiero autonomo, aperto e continuamente rinnovato dall’abilità e dall’abitudine a trattare la costruzione del linguaggio e della sua interpretazione. La finalità ultima dell’educazione all’opera poetico-letteraria è quindi la conoscenza e il potenziale dominio delle infinite possibilità della lingua; vale a dire della sua elaborazione e della sua articolazione in linguaggio, che si riflettono nelle inesauribili possibilità di elaborazione e di articolazione del pensiero e dell’educazione al sentimento del mondo che ne ricaviamo.
In questo nostro tempo, il problema del linguaggio è quanto mai un problema fondamentale di civiltà.
Per esempio, una delle ragioni per le quali pare oggi difficile leggere e comprendere, in tutto il loro portato drammaticamente esiziale, la guerra tendenzialmente nucleare che Russia e Nato hanno a lungo preparato ed oggi conducono, per interposta distruzione dell’Ucraina, e quella reciprocamente genocidaria che Israele e Hamas hanno a lungo preparato e oggi conducono, per interposto massacro dei Palestinesi di Gaza, è la semplificazione e la serializzazione dei linguaggi con cui ne vengono diffuse e assimilate le narrazioni ufficiali. Sono linguaggi che dilatano all’inverosimile la dinamica omicida amico-nemico, che ripropongono la sacralizzazione dei confini, che rilanciano l’astratta retorica dello stato nazione, della difesa del suo territorio e dell’integrità etnica della sua popolazione, che pongono l’affermazione della pace come esclusiva conseguenza di una guerra vittoriosa e “giusta”, previo l’annichilimento del nemico e della sua storia.
Sembriamo attraversare una follia generalizzata, suscitata ovunque da un coacervo intrecciato di crisi a vario livello e attestata da una generale afasia linguistico-culturale, per la quale non sappiamo trovare alcuna plausibile terapia, neppure di contenimento, perché, come scrive Mauro Ceruti, «le soluzioni cercate e proposte sono, il più delle volte, esse stesse parte e causa del problema», dato che «i modi di pensare che utilizziamo per trovare soluzioni alle crisi, come ai problemi più gravi della nostra età globale, costituiscono, essi stessi, uno dei problemi più gravi che dobbiamo affrontare. Perché sono modi di pensare che frazionano ciò che nella realtà è intimamente connesso». Siamo cioè di fronte – e non solo per quanto riguarda la guerra e la pulizia etnica – a un enorme problema di tipo cognitivo e antropologico, che concerne il formidabile elemento dell’intreccio fra coscienza e cultura con cui l’uomo da sempre costruisce e fa evolvere la propria civiltà negli ecosistemi di relazione che la producono e la fanno poi vivere.
Pertanto, nel rapporto più generale fra civiltà umana e pianeta stiamo attraversando una crisi evolutiva, nella quale la micidiale e distruttiva declinazione dei tre flagelli, peste guerra e terremoto (oggi: infezioni virali incontrollabili, guerre a deriva nucleare e crisi climatico-ambientali ripetute), che da sempre affliggono e spesso corrompono nella storia le società umane e la loro ecologia, sta portando oggi verso derive collassanti e probabilmente esiziali: è a tutti noto, infatti, che le crisi evolutive portano con sé la possibilità di scomparsa, più o meno rapida e più o meno violenta, di intere specie e di interi ecosistemi, compresi, stavolta, la nostra e i nostri.
In un simile contesto di crisi epocali – come e più che in ogni altro luogo e in ogni altro tempo della secolare vicenda umana planetaria – la poesia si pone di nuovo come atto di responsabilità non solo nei confronti della storia, ma nei confronti della vita tutta, e in esse va a individuare i fondamenti, i valori e le possibilità di una continuamente rinnovata civiltà umana. La poesia, cioè, viene di nuovo chiamata alla sua funzione antropologica più precipua e decisiva: quella di una corale e continua rivitalizzazione dei linguaggi, che informano i modelli di pensiero e di comportamento con i quali interroghiamo, ci raccontiamo e, quindi, viviamo la nostra condizione di donne e di uomini nel mondo. E coi quali ci educhiamo, pertanto, a leggere e a comprendere meglio noi stessi e lo stato della nostra civiltà.
La poesia ha, infatti, a che fare (e un fare prezioso e insostituibile) con la materia prima fondamentale con la quale noi costruiamo la nostra vita, che è la lingua. Noi costruiamo la nostra vita, il nostro pensiero della vita, il nostro pensiero del mondo, la nostra azione nel mondo, la nostra relazione con gli altri, la nostra visione del futuro… attraverso la lingua. E la poesia è la continua sorveglianza (che i poeti fanno per noi) sul movimento e sulla ricchezza della lingua; sulla sua capacità di dare e di rinnovare le possibilità di attribuire significato alla nostra vita e alla nostra storia; sul suo essere per noi luogo di condivisione, di appartenenza, di reciproca comprensione; sul suo essere materia di scambio originaria per la costruzione dell’essere umano e della sua stessa umanità; sul suo essere sempre, insomma, ponte verso l’altro e verso l’altrove.
Che cos’è, infatti, la poesia se non un ponte che consente di attraversare, senza violarla ed anzi esaltandola, la sacralità della vita in tutti i suoi aspetti e di condividerla in un attivo rapporto di reciprocità con la comunità dei lettori e potenzialmente con tutti? La poesia costruisce ponti lanciati sull’improvviso aprirsi del vuoto in cui il consumarsi del tempo precipita le cose che accadono e che ci accadono. E lo fa, perché è creazione tecnica di fatti linguistico-musicali di valore esperienziale per tutti, i quali, come ogni altro fatto, diventano irrevocabili e, pertanto, sempre percorribili dall’interpretazione del lettore. Così, essi danno, di nuovo e per tutti, senso e possibilità alla continuità della vita di fronte ai piccoli o grandi baratri di scomparsa, annichilimento e morte che costantemente la minacciano nell’esperienza che ciascuno di noi ne fa.
Ho imparato proprio dai poeti, che ho letto e frequentato lungo tutto il mio tempo, che è proprio questa sua caratteristica di essere ponte che rende la poesia un operatore di civiltà, così come mi piace definirla in tante riflessioni avanzate sulla sua essenza e sulla sua funzione antropologica. E questo, per almeno tre ordini di ragioni che ora vorrei, ancora una volta, brevemente illustrare.
Innanzitutto, come già accennavo, mi pare che ogni atto di scrittura poetica sia, prima di ogni altra cosa, la costituzione di un fatto linguistico (il fare del greco poiéin) o di una concatenazione (ponte?) di fatti linguistici che prima non c’era e che poi diventa qualcosa di concreto e di non più revocabile, come ogni altro tipo di fatto o di fatti tra loro interrelati. Quando tali fatti linguistici avvengono, segnano subito un prima e un dopo la loro comparsa nella realtà della lingua e quindi modificano, anche solo in infinitesima parte, la sua proprietà di dare forma a cose e pensieri che forma stanno perdendo o che forma ancora non hanno, in un rapporto vivo fra memoria e profezia che dà senso al presente dell’esperienza. Questo processo di costruzione, da parte del poeta, implica la scelta di una tecnica e l’adozione di una postura. O meglio, l’assunzione di un particolare suo punto di osservazione sulle cose del mondo e degli uomini, comporta, per il poeta, un lavoro di rimodellazione, nella propria voce, degli aspetti fonetici, sintattici e semantici o dei valori sonori, ritmici e prosodici della lingua, per realizzare una loro nuova messa in forma (la poesia è, infatti, lavoro complesso sul significante, spiega l’amico Alberto Bertoni, poeta e filologo di grande sapienza) che apre, prima inusitate, possibilità di pensare un frammento anche piccolo dell’esperienza umana che la lingua nomina e racconta, facendosi ponte di linguaggio poetico che consente a tutti di accedere a quelle possibilità. Arricchendo e ri-semantizzando le nostre facoltà di linguaggio, quindi, la poesia ci aiuta ad estendere e a ri-vificare le nostre capacità di pensiero, aprendo, nella quotidianità della nostra esistenza, ponti piccoli e grandi, tutti inaspettati, verso una migliore comprensione di noi stessi e degli altri e, pertanto, verso l’immaginazione del nostro futuro.
In secondo luogo, penso vada considerato che ogni atto di scrittura poetica comporta sempre in sé l’istanza nucleare di un desiderio di bellezza e di trasformazione del mondo. Mi sembra di aver scritto da qualche parte che, per cambiare il mondo, bisogna prima saperlo immaginare diverso e più bello da com’è; e per immaginarlo bisogna saperlo dire, saperlo raccontare diverso, con parole nuove, portatrici di nuovi o di perduti significati: questa è, appunto, la facoltà che sa sviluppare in noi la poesia, la sua funzione civile che è prima di tutto una funzione linguistica, una capacità di parola. Ѐ per tale motivo, del resto, che la grande opera di scrittura poetica è sempre stata la prima risposta (dall’Odissea alla Divina Commedia o al grande romanzo europeo di Otto e Novecento) alle crisi di civiltà che l’umanità ha attraversato e che sempre si sono manifestate come impoverimento e crisi del linguaggio, cioè dei modelli di pensiero, con cui si dava valore e senso alla vita dei singoli e delle comunità. Lavorando di recupero e di rinnovamento sulla materia prima della vita dell’uomo – la lingua – la poesia offre quindi possibilità di recupero e di rinnovamento del senso e del valore di quella vita stessa e dei modi di pensarla, di agirla e di condividerne la bellezza: la poesia si fa così ponte per varcare i crepacci e gli abissi in cui la sacralità della vita tutta può, come rischia di accadere oggi, precipitare e persino sparire. Chi scrive poesia – come ama ripetere un poeta amico mio, Paolo Fabrizio Iacuzzi – si getta di continuo nell’«abbraccio del mondo e della storia» e quell’abbraccio offre poi al suo lettore.
Infine, ritengo si debba educarsi a pensare che ogni atto di scrittura poetica, in qualsiasi tempo sia stato compiuto, ci è sempre contemporaneo e, di qualsiasi cosa parli, parla sempre di noi e di noi adesso. Così ho cercato, ogni volta, di insegnare a vivere la poesia ai miei allievi e così raccomando, quando posso, ai suoi lettori. La poesia, infatti, è un ponte che attraversa lo spazio e il tempo che si frappongono fra un autore e un suo lettore, e che si deve percorrere sempre nei due sensi di marcia. Un amico caro, il poeta e scrittore Giancarlo Sissa, è solito dire che «i poeti sono sempre almeno in due, uno che scrive e uno che legge» la poesia. Altrimenti la poesia stessa non esiste, non c’è proprio. E un altro poeta, il carissimo Lino Angiuli, ha scritto di aver sentito che la sua poetica ha avuto una svolta profonda quando ha deciso di passare dall’io al noi nel soggetto della sua scrittura, dando a quest’ultima quella dimensione corale che oggi la caratterizza e che è propria soltanto della grande poesia. Del resto, il poeta esercita per noi una fondamentale opera di restituzione e di appartenenza che ha un grande valore comunitario: nelle forme della lingua che elabora ci restituisce possibilità di senso che non abbiamo pensato di avere a disposizione e alle quali scopriamo di appartenere nel momento stesso in cui le leggiamo (al punto, a volte, di illuderci di averle pensate prima noi e di ritrovarle soltanto nelle sue parole). Franco Loi, infatti, ripeteva spesso che la poesia non svela, cioè non toglie il velo a quanto prima fosse nascosto, ma rivela, cioè mette un nuovo velo di significato alle cose della lingua e della vita. Per tutte queste ragioni, dunque, la risposta del lettore, la sua assunzione di giudizio su quello che viene leggendo è imprescindibile perché la poesia possa farsi ponte di quelle amicizia, coralità e condivisione che essa suscita e delle quali s’informa. Giacomo Trinci, un altro dei poeti a me cari, dice infatti che la lingua della poesia deve «invadere» i – e non «appartarsi» dai – territori della storia e della vicenda umana e chiamare il lettore a una «presa di posizione».
C’è un’ultima considerazione che voglio lasciare a chiosa di tutto questo discorso. Un altro amico caro, che purtroppo oggi non è più fra noi, il poeta Fabio Doplicher, mi disse una volta che per lui la poesia condivide con la pace la speranza di «svegliarci ancora vivi domani mattina». E tale speranza mi pare sia fondata proprio in quella sostanza di cui entrambe – la pace e la poesia – sono fatte: il discorso sulla sacralità intrecciata e sulla reciprocità complessa della nostra vita e della vita tutta.
Immagine di copertina: Vincent Van Gogh Notte stellata sul Rodano (1888), Musée d’Orsay
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