Venezia si ritrova al centro di un terremoto politico a causa di un’inchiesta della magistratura. In questi momenti è facile cadere nella tentazione di dire “son tutti uguali “, “non cambia mai niente”. D’altronde non è certo la prima volta che tra il fare politica, ovvero l’arte di governare per il bene pubblico e percorrere l’interesse personale, il confine, seppure netto, viene superato con enorme, troppa facilità.
Allo stesso tempo, proprio la storia, ci insegna che non sono però tutti uguali i politici, e ricordarlo non può che farci bene.
Non solo, ricordarlo, approfondire la storia e le idee di quei politici che invece hanno creduto nella politica e sulle sue potenzialità per cambiare la società, può appassionarci ad una qualità politica, dal modo di pensare a quello di agire, di cui sempre di più se ne sente l’esigenza.
Ho avuto il piacere, nonché l’onore, di intervistare Marco Boato che si è impegnato nel fare politica fuori e dentro le istituzioni sempre con grande rigore e dedizione.
Lei fu uno dei fondatori di Lotta continua. Lotta continua nasce formalmente a Torino ma è evidente che anche l’università di Trento fu fondamentale nella nascita del movimento. Può raccontarci un po’ di quei momenti così intensi?
Il movimento della sinistra extraparlamentare Lotta continua è nato – senza alcuna deliberazione formale o statutaria nella fase originaria – nel settembre 1969 a partire da Torino, a motivo della centralità nell’Italia di allora delle lotte operaie alla Fiat e negli altri stabilimenti industriali di quella città. Lotta Continua si formò prevalentemente per la convergenza tra gli esponenti dei Movimenti studenteschi delle principali città universitarie italiane, che avevano dato vita al ’68, e quindi al nuovo “biennio rosso” 1968-69, e le “avanguardie” operaie delle lotte di fabbrica, non solo di Torino e del Piemonte, ma anche di molte altre città. Anche il Movimento studentesco di Sociologia a Trento ebbe un ruolo di rilievo in questo processo di “fusione” tra operai e studenti, che caratterizzò tutto l’”autunno caldo” del 1969. Molti di noi in quei mesi parteciparono anche direttamente all’esperienza torinese, che era allora il baricentro nazionale di quella vicenda, ma via via, in modo consensuale, decidemmo anche di distribuirci nelle principali città, dapprima al Nord e al Centro e poi anche al Sud del paese. Furono mesi di impegno quasi “totalizzante” ed entusiasmante, che si conclusero però tragicamente con la “strage di Stato”, come fu chiamata, del 12 dicembre 1969 a Piazza Fontana di Milano. Era il segno più tragico, pur con alcuni episodi precedenti, di quella “strategia della tensione”, che poi ha dilaniato l’Italia per molti anni, senza tuttavia riuscire a prevalere.
Lotta Continua resta in vita meno di dieci anni. Molte le battaglie portate avanti, quale pensa sia l’eredità che ha lasciato e che a distanza di tanti anni può essere ancora attuale?
La principale eredità è costituita dalla capacità, in una prima fase, di saldare tra loro lotte operaie e lotte studentesche, a partire “dal basso”, senza apparati burocratici o superfetazioni ideologiche. E, in una seconda fase, di estendere quel movimento antiautoritario anche al resto della società, nei quartieri, nelle scuole medie superiori, nelle carceri, nelle caserme, nelle “istituzioni totali”. Da un certo momento in poi, dalla metà degli anni ’70, dopo il referendum vincente sul divorzio, un ruolo fondamentale ebbe il femminismo, che contribuì a mettere in crisi il rapporto donna-uomo anche nella sinistra extraparlamentare di allora, fino a contribuire all’auto-scioglimento di Lotta continua alla fine del 1976. Ma l’omonimo quotidiano e l’area di riferimento sociale e politica continuò a permanere fino all’inizio degli anni ’80, quando l’esperienza si esaurì definitivamente, lasciando il campo ad altri movimenti collettivi, sui temi dell’ecologia, della pace, dei diritti civili, di cui molti di noi, insieme a tanti altri, furono ancora protagonisti, anche nel nuovo movimento dei Verdi.
La storia di Lotta Continua è indissolubilmente legata al processo per l’omicidio Calabresi che coinvolse in particolare Adriano Sofri ma anche Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi. Come visse Lei gli anni del processo e l’esito dello stesso?
Quella vicenda giudiziaria è esplosa nel 1988, a oltre dieci anni dallo scioglimento di Lotta continua. All’epoca ero senatore, dopo essere già stato deputato radicale. Ne ho seguito tutte le lunghe e contradditorie fasi processuali, anche perché nella prima fase io stesso, insieme a Mauro Rostagno, ricevetti una comunicazione giudiziaria al riguardo. Mauro Rostagno non poté difendersi, perché il 26 settembre di quell’anno venne assassinato dalla mafia a Trapani. Io presentai alla Procura di Milano una denuncia per calunnia, che però incredibilmente venne archiviata contestualmente al mio totale proscioglimento in istruttoria. I tre imputati di Lotta continua vennero prima condannati, poi assolti, poi nuovamente condannati, alla faccia delle condanne “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ho personalmente seguito tutte le fasi processuali, anche testimoniando nell’aula della Corte d’assise di Milano sulla innocenza degli imputati. Ma fu tutto inutile, nonostante l’incredibile alternanza tra condanne e assoluzioni, a cui seguì la condanna finale dopo sette processi. Sono rimasto della mia convinzione iniziale, ma ovviamente la sentenza è ormai definitiva, ed è costata molti anni di carcere al mio amico Adriano Sofri, che non ha mai cessato di rivendicare la propria innocenza, difendendosi strenuamente nel processo fino all’ultimo.
Lei dei sette fondatori del movimento fu l’unico a fare una carriera politica in parlamento. Fu una scelta che l’allontanò dai compagni dei movimenti extraparlamentari?
Più che fondatori, parlerei di promotori del movimento di Lotta continua. E ovviamente furono molti più di sette. Nella mia prima legislatura parlamentare, 1979-1983, fummo eletti come indipendenti nelle liste del Partito radicale di allora in tre ex-esponenti di Lotta Continua: Mimmo Pinto, Pio Baldelli e io. E nella legislatura precedente, 1976-79, era già stato eletto per la prima volta Mimmo Pinto. Personalmente io poi ho continuato l’impegno politico-parlamentare – non parlerei di “carriera”, termine che mi fa orrore – alternandolo con l’insegnamento universitario a Padova. Non ho mai avuto alcuna difficoltà con chi aveva vissuto la mia stessa precedente esperienza politica. Siamo rimasti amici e con molti ho continuato a dialogare e a collaborare anche come parlamentare, a prescindere dai diversi percorsi successivi di ciascuno. Con molti ho anche poi vissuto l’esperienza della nascita di un nuovo movimento, quello dei Verdi, di cui personalmente, nell’arco di quarant’anni faccio ancora parte, e che ho contribuito a fondare con Alexander Langer, anche lui proveniente da Lotta continua.
Lei è nato a Venezia in una famiglia che ha segnato la politica veneziana. Come molte famiglie impegnate viene da una tradizione cattolica. Si è sempre definito Cristiano progressista, fondando anche l’organizzazione politica e culturale “Cristiani per il socialismo”. Cosa significa oggi essere cristiano progressista? E quanto, ma soprattutto, in che modo ha inciso (se ha inciso) nelle sue azioni politiche?
Eravamo cinque fratelli maschi, figli di una madre cristiana e di un padre laico, che entrambi durante la guerra avevano fatto parte di “Giustizia e libertà” e poi del Partito d’Azione. Purtroppo in questi ultimi anni, i primi tre fratelli sono scomparsi: dopo Sandro e Maurizio, il 7 luglio 2024 ci ha lasciato anche Stefano, che lei su ytali ha ricordato insieme alla scomparsa del nostro amico Giovanni Benzoni. Più che “progressista”, preferisco definirmi “cristiano critico” e anche anticlericale, termine che ha usato anche papa Francesco. Dopo il golpe militare in Cile contro Salvador Allende, l’11 settembre 1973, anche in Italia abbiamo formato il movimento dei “Cristiani per il socialismo”, durato alcuni anni, di cui ho fatto parte contemporaneamente con l’impegno politico in Lotta continua. Ho sempre mantenuto la mia fede, la mia ispirazione cristiana, ma vivendola con laicità rispetto ai vari impegni politici che hanno caratterizzato la mia ormai lunga vita, arrivata ora agli ottant’anni. I valori cristiani, a cui ho sempre fatto riferimento, sono sempre rimasti gli stessi. Le scelte politiche contingenti rimangono autonome. Non è un caso che a Venezia io, da giovane, abbia fatto parte della redazione della rivista anti-integralista Questitalia, fondata e diretta dall’ottimo Vladimiro Dorigo fino al 1970. Certamente la mia fede cristiana ha inciso e incide anche sulle mie scelte politiche, ma sempre attraverso una autonoma mediazione sul piano politico-culturale. Essendo un Verde a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso, ho accolto con entusiasmo l’enciclica “Laudato si’” di papa Francesco, sulla cura della casa comune.
Lei è stato in Parlamento per sei legislature, vivendo da parlamentare quella che fu poi definita Tangentopoli. Come fu vivere una cesura così importante nella storia del nostro paese sia da conoscitore delle istituzioni sia da “addetto ai lavori”?
Quegli anni di “Tangentopoli” li ho vissuti come una esperienza contradditoria. Ovviamente nessuno di noi Verdi ha avuto a che fare con quelle vicende giudiziarie. La magistratura aveva certamente il dovere di perseguire i reati di corruzione e simili, in base al principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, anche se mi ero chiesto come mai si fosse attivata dopo così tanti anni di inerzia. Ma non ho condiviso la logica del pool di Milano di fare piazza pulita di una intera classe dirigente, fino ad arrivare ad un certo punto, incredibilmente, a candidarsi col procuratore Borrelli a governare in prima persona l’Italia. Un corto circuito politico-giudiziario del tutto inaccettabile. Molti degli indagati furono poi condannati con sentenze definitive, ma molti altri, pur incriminati e arrestati, risultarono poi del tutto innocenti. Ed alcuni nel frattempo si suicidarono, in carcere e fuori. Negli anni successivi, all’epoca della Bicamerale D’Alema, fui io incaricato di essere il relatore sul “sistema delle garanzie” e in particolare sulla giustizia. E in quei due anni, 1997-98, fui oggetti di attacchi feroci da parte di settori della magistratura, che non accettavano un diverso rapporto costituzionale tra politica e magistratura, tema che è ancora di grande attualità.
Come abbiamo detto precedentemente, lei è stato parlamentare per sei legislature e ancora oggi ricopre un ruolo come co-presidente di Europa Verde. Da quando ha iniziato ad oggi, secondo Lei il modo di fare politica è cambiato? In che modo?
Certamente è tutto, o quasi, radicalmente cambiato, purtroppo. Molte forze politiche, non tutte per la verità, sono diventate “partiti-persona”, con un ruolo esorbitante dei vari leaders rispetto al complesso del soggetto politico interessato. La democrazia interna ai vari partiti è spesso ridotta al minimo, molte volte senza rispettare le regole interne, quando ci sono, e le scadenze congressuali. Purtroppo l’art. 49 della Costituzione è rimasto completamente inattuato, e questa assenza incide molto di più ora, quanto più il tessuto democratico interno è ridotto fino all’asfissìa delle regole democratiche. Inoltre la formazione delle classi dirigenti è sempre più spesso basata sulla subalternità decisionale al leader di turno, mentre ci sarebbe grande bisogno di una adeguata formazione politica a tutti i livelli, da quelli locali a quelli nazionali ed europei. Prima di altre riforme istituzionali, ci sarebbe davvero bisogno di una vera e propria riforma della politica.
L’articolo La politica cambia ma la “lotta continua” proviene da ytali..