Poetry is respected only in this country – people are killed for it. There’s no place where more people are killed for it. – Osip Maldel’štam
Nella Russia di Putin una minoranza, più o meno silente, ancora resiste alla propaganda di stato e alla paura, a dispetto di un regime totalitario che ha ormai soffocato ogni forma di dissenso, emanando leggi sempre più repressive ed esercitando un controllo capillare sulla stampa e sulla società civile.
Questa minoranza resiste non solo scendendo in piazza, protestando o portando avanti vere e proprie battaglie politiche, ma anche in silenzio o compiendo gesti che possono apparire irrilevanti agli occhi di una parte dell’opinione pubblica occidentale, ma che sono estremamente significativi in un contesto come quello russo dove si rischiano sanzioni o anni di carcere solo per aver osato contestare il Cremlino.
“Il male, per trionfare, ha solo bisogno che i buoni non facciano nulla. Quindi, non siate inerti.”, diceva Alexei Navalny, il principale oppositore politico di Putin, morto il 16 febbraio 2024 in circostanze poco chiare durante la reclusione nella colonia penale “Polar Wolf” dell’Artico russo.
La verità è che è difficile conoscere esattamente il numero preciso di cittadini che si oppongono alla guerra perché circa il 95% della popolazione si rifiuta di interagire con i sondaggisti. Considerate le forme di controllo in essere, tutti gli altri tendono a dare risposte sicure, in linea con quanto previsto dalla legge, per non correre rischi.
Dunque, come si può misurare il dissenso? Affidandosi alle Ong e agli enti che monitorano il numero di arresti, sanzioni, la tipologia di detenzioni e i casi delle singole persone condannate, ma anche alle storie che coraggiosamente alcuni cittadini condividono con la stampa o altri soggetti.
Secondo quanto riportato da The Moscow Times, dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina nel mese di febbraio del 2022 al mese di maggio del 2024, sono state registrate oltre 20.000 detenzioni e alla fine di giugno sono state perseguite penalmente 966 persone, come riporta OVD-Info Rights. A livello nazionale non tutti hanno avvertito l’ira del Cremlino. Oltre 600 oppositori politici sono in carcere, stando ai dati raccolti da Memorial, e altre decine di migliaia di persone sono state multate. A questi numeri dobbiamo anche aggiungere un centinaio di agenti stranieri.
Leonid Gozman, già dichiarato agente straniero e condannato a otto anni e mezzo di carcere in absentia per aver diffuso “false informazioni” sull’esercito russo, sono due le categorie considerate pericolose dal regime: la prima è composta dagli scrittori e dai commentatori, perché la loro “padronanza della parola” rende le loro valutazioni sulle autorità e sulle relative policy micidiali per il sistema che non può fare nulla per smentirli. Non solo perché dicono la verità, ma anche perché il regime e Putin stesso non sono in grado di instaurare un confronto, una discussione.
Basti pensare alla recente condanna a sei anni di reclusione della regista, sceneggiatrice e poeta Evgenia Berkovich, una delle allieve più vicine al noto regista Kirill Serebrennikov, e della drammaturga e insegnante Svetlana Petriychuk. Colpevoli, secondo un tribunale russo, di aver “giustificato il terrorismo” con una pièce, andata in scena nel 2020, intitolata “Finist Yasny Sokol” (“Finist, il falco coraggioso”) focalizzata sulla storia, basata su fatti realmente accaduti, di alcune donne provenienti dalla Russia, dal Kazakhstan e dall’Uzbekistan che si recano in Siria per sposare combattenti dell’Isis. La decisione non ha scioccato solo le due donne, i loro avvocati, ma anche molti rappresentanti delle élites russe, incluse alcune figure più vicine al regime e favorevoli alla guerra convinte che il caso discrediti il sistema giudiziario russo. Secondo R.Politik, sembra che il processo sia stato costruito da una fazione dell’Fsb che considera la loro pièce“un’interferenza nei loro sforzi volti a contrastare la propaganda terroristica nella sfera pubblica”. Caso aggravato dalle posizioni contrarie alla guerra di Berkovich e Petriychuk, che erano già state arrestate nel 2023. Il Cremlino lascia intendere che le due donne potrebbero ricevere la grazia presidenziale se si dichiarassero colpevoli. Uno scenario, ad oggi, alquanto improbabile.
Torna di nuovo la paura delle “parole” e della loro rappresentazione che il regime intende reprimere con tutti i mezzi i possibili.
La seconda categoria, invece, annovera gli attivisti politici, spesso giovani, che con il loro coraggio, altruismo e la chiarezza delle posizioni possono suscitare la simpatia di molti cittadini che non si sentono in linea né con il Cremlino né con gli oppositori. Dunque, entra in gioco il fattore umano che può ancora fare la differenza.
Chi è già in carcere, tra volti familiari in Occidente, come Vladimir Kara-Murza, o sconosciuti, è, invece, alla mercé del regime russo e delle torture inflitte dai carcerieri.
L’obiettivo della repressione non è la vendetta, se si esclude ovviamente il caso Navalny, ma l’esercizio del controllo per il quale non è sempre necessaria la privazione della libertà. Spaventare i cittadini può essere sufficiente: il numero di persone terrorizzate e ridotte al silenzio a causa della repressione è decine di migliaia di volte superiore a quello delle persone in carcere.
In tal senso, il caso della pediatra di sessantasette anni Nadežda Buyanova, incarcerata, a seguito della denuncia della madre di un paziente, per aver diffuso “informazioni false” sull’esercito russo, è esemplificativo. Molti medici ora saranno incentivati a restare in silenzio per paura di ritorsioni. Lo stesso sta avvenendo anche per altri esponenti del mondo scientifico.
Le “lezioni” del regime possono rivelarsi anche fatali. Pensiamo ad Alexei Navalny o ad altri soggetti vulnerabili. Proprio nei giorni scorsi Alexei Soldatov, il pioniere russo di Internet, è stato condannato a due anni di detenzione in una colonia penale con l’accusa di abuso di potere legato alla gestione di un gruppo di indirizzi IP da parte di un’organizzazione presso cui non ricopriva alcuna posizione.
Il crimine commesso? Secondo il figlio Andrei Soldatov, noto giornalista d’inchiesta, è quella di avere una mente indipendente, un’autentica integrità e un figlio che vive in esilio scrivendo dell’evoluzione del proprio Paese in una dittatura. Si tratta di una condanna a morte, secondo i familiari, visto che Soldatov è malato terminale.
Ma la resistenza, come si diceva poc’anzi, può essere anche quotidiana e silenziosa. Sempre The Moscow Times ha raccolto le testimonianze di alcuni cittadini che, non potendo protestare e rischiare di finire in carcere, hanno deciso di usare il proprio corpo per dimostrare di essere contrari alla guerra, facendosi tatuare la scritta “Нет войне” (“No alla guerra”), il segno della pace o altri disegni ispirati a Navalny. Un gesto che ha provocato in altre persone, secondo il racconto della ragazza intervistata anch’essa tatuata, sollievo e gratitudine: “Ci hai appena salvato. Tutti tacciono, nessuno ne parla [della guerra] – per noi era molto importante vedere questo”. Incanalare la rabbia, la depressione, il senso di isolamento può essere fondamentale per sopravvivere in una fase storica in cui la “vita è divenuta improvvisamente fragile. Abbiamo solo il presente e potrebbe non esserci un domani”, secondo un’altra ragazza intervistata. I tatuaggi diventano, dunque, un “reminder quotidiano per non arrendersi”, per combattere “l’ignoranza e l’oscurità”.
I cittadini ricorrono anche agli abiti e alle scarpe di colore blu e giallo (i colori della bandiera ucraina) o alla tintura per capelli. Un moscovita è stato multato di recente per essersi tinto i capelli utilizzando quei colori e anche questo è vietato in quanto costituisce “propaganda visiva”. Ma non passa solo attraverso il corpo questa forma di resistenza silenziosa. Non dobbiamo dimenticare i poster contro la guerra da appendere in casa o, in alcuni casi, nei luoghi di lavoro (polizia permettendo), gli adesivi sulle auto e le scritte sui muri e in ascensore. Altri, invece, preferiscono raccogliere fondi per offrire supporto legale e aiutare le famiglie di coloro che sono stati arrestati oppure scrivere lettere ai detenuti, un gesto importante soprattutto per chi è recluso.
Chi, invece, resiste, ma è fuggito all’estero (come lo stesso Gozman, la maggior parte dei collaboratori di Navalny, la moglie di Navalny stesso recentemente dichiarata “terrorista” e molti altri, tra personalità note e semplici cittadini), in alcuni casi, è, comunque, sottoposto a condanne in absentia. Ma per quale motivo, si chiede Gozman? Certamente non per prevenire il loro ritorno (considerate le conseguenze) o render loro la vita più difficile (lo è già) o spaventarli. Forse, con queste sentenze, le autorità, avendo affrontato diversi fallimenti, vogliono convincersi di essere forti e potenti, dichiarando terrorista chiunque vogliano. Ma al di là delle motivazioni, sono state già individuate alcune strategie per cercare di contrastare la deportazione in Russia dei cittadini russi che si sono dichiarati contro la guerra e che potrebbero subire conseguenze penali. Subito dopo l’invasione di febbraio del 2022 è stato, infatti, creato da parte di alcuni referenti dell’opposizione attualmente in esilio, l’“Anti-War Committee of Russia” che si occupa di fornire supporto legale ai russi che hanno preso una posizione netta e chiara contro la guerra. Il Comitato, già dichiarato dalle autorità russe “organizzazione indesiderata” nel mese di gennaio, ha formato un team di quindici “consoli” (che risiedono in nove differenti Paesi europei e negli Stati Uniti), tra cui è possibile annoverare il direttore di Novaya Gazeta Europe, Kirill Martynov, la giurista della Free University Elena Lukyanova e l’ex diplomatico russo Boris Bondarev. Senza dimenticare i co-fondatori Michail Chodorkovskij, Garry Kasparov e Lyubov Sobol, stretta collaboratrice di Navalny.
Un console può offrire il proprio supporto se la persona si oppone alla guerra sistematicamente e pubblicamente e collabora con organizzazioni contro la guerra e con i media indipendenti, il che crea una minaccia reale di persecuzione politica e di detenzione al ritorno in patria. Naturalmente, i consoli non sono in grado di prestare aiuto per ottenere visti, la cittadinanza o la residenza permanente, ma l’esigenza di creare questo team nasce proprio dal numero crescente di deportazioni e dal rifiuto di rinnovare i permessi per i russi che subiscono persecuzioni nel Paese d’origine a causa del loro attivismo.
Secondo l’agenzia di stampa economica indipendente The Bell, parliamo di una diaspora che coinvolge 650.000 russi che hanno lasciato il Paese in due momenti diversi: il primo, dopo l’invasione dell’Ucraina e il secondo in autunno, dopo l’annuncio da parte delle autorità russe della campagna di mobilitazione “parziale”. Molti sono rimasti all’estero, altri sono rientrati in quanto risultava difficile adattarsi a una nuova vita in un Paese straniero.
Armenia, Kazakhstan e Georgia, ove si sono stabiliti, rispettivamente, 110.000, 80.000 e 74.000 russi, offrono l’accesso senza visto e, dunque, rientrano tra le destinazioni più popolari. Oltre 48.000 russi si sono trasferiti negli Stati Uniti, rendendoli la quinta destinazione più popolare. Alcuni degli 80.000 russi circa trasferitisi in Israele potrebbero aver lasciato il Paese dopo l’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas, mentre, in ambito europeo la Germania ospita il maggior numero di emigrati (36.000 persone), seguita dalla Spagna, con circa 16.000 persone. Portogallo e Cipro, destinazioni popolari per coloro che operano nel settore IT, non hanno pubblicato dati dal 2022 o non tengono conto del numero di arrivi (è il caso di Cipro). Poi troviamo anche Thailandia, Indonesia, Azerbaigian e Grecia, che non forniscono dati in merito. Ciò significa che il numero totale potrebbe essere sottostimato. Quella che Putin nel 2022 aveva definito una “naturale e necessaria pulizia della società” da “feccia e traditori” è divenuta nel 2023 “un ulteriore elemento che collega la Russia con i suoi partner stranieri”.
Infine, vi è un ulteriore girone dell’inferno putiniano, certamente il peggiore, che accoglie un’altra tipologia di vittime: quelle che non sono riuscite a scappare e che rischiano non solo di sparire per sempre, ma anche di subire danni permanenti. Parliamo degli internati negli istituti psichiatrici per motivi politici “malati di un solo morbo”: il dissenso. In Urss la psichiatria, già dagli anni Trenta del Ventesimo secolo e anche dopo la dissoluzione dell’Urss, era impiegata sistematicamente per punire coloro che si opponevano al regime comunista. Negli anni Settanta tale pratica raggiunse il picco con Jurij Andropov, direttore del Kgb dal 1967 al 1982, che ordinò la creazione di un network di ospedali psichiatrici per “difendere il governo sovietico e l’ordine socialista” contro gli oppositori politici. Tra le vittime più note di questa pratica, solo per citarne alcune, ricordiamo la poetessa Natal’ja Gorbanevskaja, che insieme ad altre sei persone prese parte alla manifestazione del 1968 sulla Piazza Rossa contro l’invasione della Cecoslovacchia. Dichiarata schizofrenica, fu una delle poche donne che ebbero la disgrazia di affrontare nel 1970 la condizione di prigioniera in un ospedale psichiatrico di tipo speciale, da cui fu dimessa nel 1972. Non si può dimenticare il poeta e scrittore Iosif Brodskij, che fu segnato profondamente dall’internamento, e Vladimir Bukovskij, scrittore e dissidente rinchiuso in manicomio nel 1963 (poi liberato nel 1976 grazie a uno scambio di prigionieri), che nel 1972 aveva denunciato gli abusi della psichiatria sovietica nel dossier pervenuto in Occidente (un anno prima rispetto alla pubblicazione in Italia) “Una nuova malattia mentale in Urss: l’opposizione”. Va ricordato che Bukovskij era detenuto inizialmente, ai fini della valutazione psichiatrica, presso l’Istituto Serbskij di Mosca, gestito dallo Stato e ancora operativo. Secondo quanto riportato da BBC News Russian, il quesito sulla reale natura dell’Istituto – fondazione medica od organo di potere – è stato sollevato nuovamente a giugno del 2023 quando Putin ha richiesto la creazione di un dipartimento di ricerca per analizzare “il comportamento sociale” delle persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+.
Come ricorda Vladimir Kara-Murza nel suo intervento del 15 marzo 2022 alla Camera dei rappresentanti dell’Arizona prima dell’arresto, Andropov “è stato uno che per anni ha dato priorità all’individuazione e al perseguimento dei dissidenti politici in Unione Sovietica. Una delle cose che fece fu istituire un’orribile pratica di psichiatria punitiva. I dissidenti, persone che si opponevano al regime comunista, venivano confinati con la forza in istituti psichiatrici, dichiarati pazzi mentali e tenuti lì in condizioni di tortura per anni e anni. È a quest’uomo che Vladimir Putin ha dedicato una targa commemorativa nel dicembre 1999. Per me e per molti miei amici e colleghi in Russia, non c’erano più dubbi su chi fosse Putin e su cosa avrebbe fatto.”
Nel suo appello “Viviamo così” del 1970 contro la detenzione del biologo Žores Medvedev, Aleksandr Solženicyn si espresse sulle gravi condizioni in cui si versava la società russa. “Ecco come viviamo: senza un qualsiasi mandato di arresto o senza una qualsiasi ragione medica, si presentano di fronte a una persona sana quattro guardie e due medici […] – Siamo gli organi della violenza: Tutti in piedi! – quindi gli piegano le braccia e lo rinchiudono in manicomio. Questo può succedere domani con chiunque di noi […]”. A cinquantaquattro anni da quell’appello, la previsione si è avverata. Seppur non siano stati ancora raggiunti i livelli di repressione degli anni Settanta, Vladimir Putin ha potenziato la psichiatria punitiva, in particolare dal 2012, anno delle proteste di piazza Bolotnaja, e dal 2022, a seguito dell’invasione dell’Ucraina.
Secondo quanto riportato da La Repubblica nel mese di maggio, basandosi sui dati di Ovd-Info, Memorial e Pervij Otdel elaborati dal media indipendente Agentsvo, “la frequenza delle sentenze che impongono il ricovero obbligatorio nel 2023 è aumentata di cinque volte rispetto alla media del biennio 2021- 2022”. Sono 55 i processi di matrice politica che si sono conclusi nell’ultimo decennio (ma concentrati negli ultimi anni) con la condanna al cosiddetto “trattamento sanitario obbligatorio”. Fino al 2020 si è registrata una media di circa tre condanne al ricovero forzato l’anno, mentre nel 2021 questo numero è salito a sette per poi calare, nel 2022, ai valori precedenti. Dopo l’emanazione della legge contro le “fake news”, nel 2023 la frequenza di tali condanne è aumentata nuovamente. Si tratta di un numero che si è più che quintuplicato fino ad arrivare a 25 casi. Nei primi quattro mesi del 2024 sono state rilevate otto condanne di questo tipo.
“Rispetto al totale delle condanne in casi a matrice politica”, prosegue La Repubblica, “la percentuale di ricoveri forzati è aumentata da meno del 2 per cento, registrato nel 2010, al 3,3 per cento del 2023”. I dati potrebbero essere indicativi in quanto il tema della salute mentale è ancora oggetto di stigma, molti casi vengono tenuti nascosti e a volte gli imputati accettano le decisioni della Corte per evitare il carcere.
Ma in questo caso il carcere è davvero il male minore?
Le condizioni negli ospedali psichiatrici sembrano più “miti” rispetto ai centri di detenzione preventiva. Ma chi è stato internato descrive un controllo totale che è ancora più severo rispetto alle prigioni.
Anastasia Pilipenko, avvocato di Viktoria Petrova, arrestata nel maggio del 2022 per aver diffuso, secondo le autorità, “fake news” sull’esercito russo e poi trasferita in un ospedale psichiatrico dopo circa un anno di detenzione preventiva, ha dichiarato che il sistema psichiatrico viene regolarmente utilizzato nei casi a matrice politica perché conviene sia agli investigatori sia ai tribunali. Generalmente il trattamento psichiatrico in Russia è volontario. Si verifica un’eccezione quando un tribunale ordina il trattamento senza consenso. In base alla legge, un tribunale non è obbligato a tenere conto delle opinioni degli esperti. Ma, in pratica, sostiene Pilipenko, i giudici tendono a fidarsi ciecamente degli specialisti che conducono l’esame. Una persona può essere internata anche prima della condanna, com’è avvenuto proprio nel caso di Petrova. Gli psichiatri, inoltre, non sono tenuti a stabilire una connessione diretta tra la loro diagnosi e il presunto crimine.
È più facile esercitare pressione su un imputato in ospedale rispetto a un centro di detenzione preventiva perché nel primo caso le visite dell’avvocato sono limitate a due giorni, mentre nel secondo caso si arriva a un massimo di cinque giorni. Quando si tratta di una diagnosi psichiatrica, i processi sono chiusi al pubblico e le decisioni sul trattamento obbligatorio, a differenza delle sentenze, non devono essere pubblicate. Nessuno può sapere con certezza se il numero di persone sottoposte a tale trattamento per motivi politici sia in aumento o meno rispetto alle condanne al carcere.
Scorrendo le testimonianze di tanti cittadini internati negli ospedali psichiatrici – Sergej Pribylov, attivista che nel 2018 tentò di incendiare le auto di alcuni funzionari governativi per protestare contro le guerre russe in Siria e Ucraina, il giovane diciannovenne Maksim Lypkan, “colpevole” di aver diffuso “fake news” sull’esercito e già assente durante l’inizio del processo in quanto trasferito in una struttura psichiatrica, la stessa Viktoria Petrova, Aleksej Volskij, imputato sempre per le cosiddette “fake news” sull’esercito, solo per citare alcuni casi famosi. Il copione, salvo variazioni legate al singolo caso, è sempre il medesimo. In un’intervista rilasciata a Doxa, riportata dall’Huffington Post, Pribylov descrive bene le condizioni di vita di una “психушка” (manicomio): “Orari rigidi, regole severe, marce forzate, perquisizioni e un’osservazione totale e costante da parte del personale sanitario, che prende nota di tutto.” Non esiste intimità (neanche sotto la doccia) e chi si oppone viene considerato “alterato”, dunque messo in cella di isolamento e costretto a un altro periodo di internamento. Per non parlare dell’assunzione di potenti medicinali che provocano gravi effetti collaterali o della violenza fisica, dell’umiliazione e del tentativo di annullare la persona, com’è avvenuto nel caso di Petrova. Secondo la testimonianza del suo avvocato, la ragazza è stata costretta a spogliarsi per un “esame fisico” sotto gli occhi degli infermieri maschi, “l’hanno scossa come una bambola di pezza” e hanno minacciato di picchiarla “come gesto di benvenuto” nella struttura medica, è stata legata a un letto e le sono stati iniettati dei farmaci che l’hanno resa incapace di parlare per circa due giorni.
Le hanno fatto capire, dunque, che in ospedale “non era più un essere umano”.
Mentre Putin si autocelebra, come ricorda Andrej Pertsev, inaugurando nuove strade, fabbriche, grandi ospedali, scuole e cercando di dimostrare ai cittadini che l’economia russa è viva, che le sanzioni non funzionano e che la guerra continua come al solito, lontano da loro, gli eroi della minoranza sono sempre più decisi a combattere, anche se privati della voce e dei diritti, in un Paese che sta rendendo la “disumanizzazione” una delle tante pratiche repressive standard.
La “maggioranza silenziosa” se ne accorgerà?
L’articolo Minoranza silenziosa. La resistenza russa proviene da ytali..