Entro, con questo mio scritto, nel dibattito stimolato dal prof. Ceruti, con la Lectio doctoralis Una nuova Paideia nel tempo della complessità, pubblicata in queste pagine il 25 maggio. Appartengono a tale intervento stimolanti domande sull’emergere di una nuova umanità e sul lavoro necessario a rigenerare il pensiero. Vorrei, a mia volta, esplorarle, aggiungendone altre: quali sono le modalità in cui può sorgere una nuova umanità? Quali sono gli strumenti che occorrono a un nuovo modo di pensare?
Per prima cosa, chiediamoci: com’è l’umanità odierna? La prima immagine che mi si presenta è il Cane nella corrente di Goya: il muso di un cane si sporge da un piano inclinato vuoto, color ocra chiaro. Null’altro: il cane è perso in una sabbia in cui sembra sprofondare, non c’è paesaggio, solo, in un angolo, il cane. Cosa gli sta succedendo? Sta affondando in un’acqua fangosa o sotto una duna del deserto o sta emergendo? Qualsiasi cosa stia capitando, il cane è spaventato, ha gli occhi rivolti verso l’alto, come ad aspettare qualcosa, che non arriva. L’umanità, così come il cane di Goya, è seppellita dalla corrente della storia.
La seconda immagine è del 1925 quando Eliot scrive Gli uomini vuoti. «Siamo gli uomini vuoti / Siamo gli uomini impagliati / Che appoggiano l’un l’altro / La testa piena di paglia». “Sonnambuli”, ibride creature dalla coscienza impagliata, che barcollano, appoggiandosi le une alle altre. Un’esperienza umana impoverita, senza energia, ricolma di “passioni tristi” vive in un «mondo reso unidimensionale, […] dove il calcolabile pretende di occupare l’intero spazio della vita» (Benasayag), dove la domanda essenziale è: «Come funziona?»
Una nuova umanità ha a che vedere con persone deste, di un tipo di veglia che non si oppone al sonno, ma alla veglia disattenta, indolente, robotizzata. Risvegliarsi è fare attenzione. Quella disposizione del corpo e della mente che «consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto […] essa è come una radura, un’apertura nell’essere, un’accoglienza dell’altro sia esso inteso come persona che come concetto». (Simone Weil)
Armati di attenzione, si tratta allora di sognare ciò che verrà, usando questo sogno come motore del risveglio, un risveglio in cui è in gioco tutta la vita. Occorre entrare in rapporto con quello che la ragione vede come un magma non differenziato di follia. Al contrario, si tratta di una varietà inesauribile di modi dell’esperienza, ciascuna con le sue specifiche pratiche di accesso, ciascuna custode di un ‘tesoro’ conoscitivo particolare. Hillman osservava, a questo proposito, che i sogni ripristinano nella coscienza il senso del molteplice. Abbiamo bisogno di narrazioni diverse, bizzarre, provocatorie, paradossali. Abbiamo bisogno di passare e ripassare in un punto di soglia, una zona intermedia che separa il dentro dal fuori. Esitare e poi farsi trasportare in una trama vivente di dimensioni aliene. La soglia implica risorse da passeur: contrabbandare nel mondo della veglia i rimedi che scaturiscono dal mondo del sogno, accostarsi a un tipo di percezione poetica legata a connessioni fulminee, che trova ovunque corrispondenze. Come diceva Celan: «La poesia è un dono fatto agli attenti».
Una conoscenza che potremmo anche definire estatica, usando la parola greca ekstasis nel suo significato di «uscita dalla stasi», come ciò che toglie il ristagno, che evita l’irrigidimento. L’estatico è momento originario della creatività umana, confinato dalla nostra cultura nell’esperienza religiosa. Fra esperienza estatica e poetica c’è un nucleo germinale, dato da una inclinazione a un sentimento oceanico, disponibile a una diminuzione del controllo, a un rilassamento delle difese che apre all’immaginazione, al passaggio di un messaggio inatteso.
Il termine ‘passaggio’ richiama i Passages di Walter Benjamin. Il 26 settembre 1940 Walter Benjamin arriva a Portbou. Con sé reca una borsa di cuoio: contiene il suo ultimo manoscritto e pastiglie di morfina. È un uomo in fuga, braccato. Quel giorno la Spagna ha chiuso il confine e Benjamin teme il respingimento. La sera ingerisce le pillole di morfina e pone fine alla sua vita.
Dani Karavan, scultore israeliano, costruisce nel 1994, proprio a Porbou, Passages, un Gedenkort (luogo della memoria) in ricordo di Walter Benjamin.
Punto di intersezione fra Land Art, scultura ed architettura, quest’opera è una crepa, una coltellata nella terra viva, un condotto coperto da lamine di metallo ossidate, una discesa agli Inferi.
Sul monumento è scritto: «Alla memoria dei senza nome». Gli uomini in fuga di ieri si avvicinano a quelli di oggi. Dice Karavan: «I visitatori avranno modo di fare un’esperienza che permetterà a ciascuno di tracciare la linea che congiunge la storia alla propria vita. Così potrà nascere un luogo di meditazione dove ci si potrà ricordare di tutti gli uomini, dei quali Benjamin, in una certa maniera, simbolizza il destino».
Insieme al sogno, l’arte è uno degli strumenti di attraversamento delle soglie. L’arte è qualcosa che ha a che fare con il rendere vive le cose. Il fare dell’artista, residuo di animismo, evoca una presenza che ci guardi e ci tocchi, ci trasformi e ci curi, ci scompigli.
L’opera d’arte, campo di forze che si affida a un metodo empatico, può diventare una possibilità di sostenere e trasformare le narrazioni. Ne è un esempio il lavoro di Maria Lai. Nel 1981 Lai scopre una leggenda tramandata ad Ulassai, suo paese di nascita.
Una bambina viene mandata sulla montagna a portare del pane ai pastori. Giunta sul luogo, sente il brontolio del tuono: sta per scoppiare un temporale. La bambina si rifugia, allora, in una grande grotta e proprio qui trova tutte le greggi e i pastori che si riparano, aspettando la fine della bufera. All’improvviso, fuori dal rifugio, si vede svolazzare un nastro celeste portato dal vento. I pastori lo notano, ma non gli danno importanza, lo giudicano una frivolezza. Ma la bambina capace di stupore, non mette freno al suo istinto, corre dietro al nastro, incurante della pioggia. In quel momento la grotta frana e inghiotte greggi e pastori.
Lai propone che tutti, casa per casa, si leghino con un nastro celeste, e poi, insieme, portino il nastro sulla montagna con un gesto apotropaico, rito di pace per scongiurare le frane, da cui il paese è spesso minacciato. Lai pone così la partecipazione della comunità al centro dell’evento artistico. Il nastro celeste si manifesta come una perfetta metafora dell’arte, che non interviene a eliminare problemi pratici, non promette niente, ma addita vie d’uscita a chi è capace di stupore.
L’arte possiede un’altra caratteristica necessaria a una nuova umanità: la capacità di piangere sulle macerie, di ascoltare i sussurri della storia e trarne ispirazione. Di lunga data è il rapporto fra la bellezza e il male. Una vera estetica dimora nel territorio dell’etica, accostandosi al male, non certo per annientarlo ma per trasfigurarlo. Etica ed estetica devono stare abbracciate.
Di questo parla un sogno:
Sto visitando un convento, un palazzo antico. Entro in una grande sala, dove c’è una parete affrescata. Nell’affresco movimenti neri a fiamme e qua e là spunta l’azzurro di una luce che cerca di rompere il nero. È un dipinto che lascia senza fiato. Fuori il pittore, forse Kiefer, in boxer, mi dice: «Lasciami vestire e arrivo».
Siamo in un luogo che richiama l’antico, la storia e la sua memoria. Lì dentro una grande parete affrescata, fiamme nere con squarci d’azzurro. È finita la tempesta? L’azzurro porta luce e speranza nell’inferno del nero? Fuori dalla sala, Anselm Kiefer, in boxer, forse intimo della sognatrice.
Nella mostra Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce, svoltasi a Venezia nel 2022, Kiefer si misura col fuoco, strumento insieme creativo e distruttivo, inizio e fine in cui creazione e distruzione sono inestricabilmente collegati.
Anselm Kiefer, nato nel 1945 in una casa bombardata, si è fatto carico, nel suo lavoro artistico, del lutto, poco elaborato, della Germania. Dice l’artista: «Per me le rovine non sono nulla di strano – sono belle, rappresentano un inizio. Da bambino non avevo giocattoli, ma tra le macerie della nostra casa potevo trovare un sacco di materiali. Costruivo case, alte anche parecchi piani, a partire dai mattoni. Sono nato sotto le bombe, da allora faccio i conti con le macerie della storia».
Misurarsi con la guerra, in Kiefer, è un modo per rielaborare un lutto collettivo. Frugare nelle ferite – e creare ferite. Come la religione, l’arte ha il compito di tollerare l’intollerabile: entra in relazione con esso, vi convive, ne esamina i confini, gli spessori, le regole, i meccanismi interni.
Sempre in dialogo con fugaci fantasmi, l’artista assume su di sé il male, accettando di subire una temeraria esposizione, naviga in un mare infinitamente assurdo, aggrappandosi alle opere come se fossero boe, tentando di intuire contesti differenti, ponendosi in contatto con dimensioni lontane. Un po’ come i pipistrelli, che volano al buio, negli interstizi e intravedono la luce.
Tornando al sogno: Kiefer “in boxer” forse ci ricorda che inglobando nel nostro lavoro la distruzione, il cielo si rasserena. Non bisogna solo spalare le macerie, ma usarle per costruire case, rifugi dell’anima.
È quello che fa Berlinde De Bruyckere in City of Refuge, titolo preso da un brano di Nick Cave (Faresti meglio a scappare, faresti meglio a scappare. / Faresti meglio a correre nella città di rifugio), mostra ospitata nel sud della Francia, in una commenda templare, la Commanderie de Peyrassol. In risposta agli eventi della pandemia, De Bruyckere fa nascere una surreale figura di arcangelo, di cui scorgiamo solo i piedi e le gambe, non il volto. Poco amichevole, quest’angelo, portatore del tremendum, ispira contemporaneamente tormento e speranza. L’arte diventa qui santuario e rifugio, onora tutti coloro che cercano e offrono protezione, così come la musica nel film L’arpa birmana è elegia per i morti della guerra.
Insieme al sogno, alla narrazione, alle arti, c’è una disciplina che le comprende un po’ tutte e lavora con la molteplicità degli sguardi e dei mondi, mettendo in discussione il concetto di alterità: l’antropologia. Di antropologia parla un sogno:
In periferia, quasi campagna. Una casa grande, cemento scrostato, con un architrave di legno, sopra c’è scritto «Casa dell’antropologia». Mi viene incontro la relatrice della mia tesi, camminando a saltelli. La seguo.
Il sogno inizia in un luogo periferico, quasi campagna, quei posti che bisogna andare a cercarsi, fuori dalle rotte consuete. Lì, in un luogo eccentrico come l’inconscio, si trova la casa dell’antropologia. Cos’è una casa dell’antropologia? È la casa di chi vuole usare un metodo antropologico, che vada al di là della ragione deduttiva e raziocinante? La casa dei riti sciamanici? La casa dei mondi altri? E poi: la relatrice della tesi nel sogno saltella. Il suo modo di muoversi non è un normale camminare, ma salta, come un bambino, con gioia, in punta di piedi, con una disposizione d’animo di curiosa scoperta. Un luogo in cui si può provare allegria, stare nell’incanto, sentirsi vivi. Una Casa della molteplicità, un posto dove i rappresentanti di diversi mondi culturali possano ritrovarsi, parlare, mangiare, dormire e sognare insieme, come in un rito di incubazione. Sarebbe bello tornare ai collettivi di desiderio, di cui parlava Fachinelli, aperti all’immaginazione e alla sperimentazione del possibile, attenti all’inconscio considerato forza generativa da accogliere. Forse c’è posto per questo e per tanto altro nella casa dell’antropologia.
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