Abbiamo appreso della morte di un amico, don Sandro Vigani, occasionale, prezioso, collaboratore della nostra rivista, alla quale, poco prima della malattia, aveva promesso un contributo più assiduo.
Un articolo, in particolare, ci parla di lui, un pezzo delicato e profondo… dedicato a quando non esisteva l’immondizia.
Ci fa piacere riproporlo qui di seguito.
Sandro era un prete e un giornalista di qualità, capace di connettere intelligentemente, con la sua impareggiabile sensibilità, fede e professione. Ci conoscemmo agli inizi del 2000, grazie al comune amico e collega Leopoldo Pietragnoli. Io alla guida della comunicazione del Comune di Venezia. Lui alla guida della parrocchia di Trivignano, estrema periferia mestrina, dove la città diventa campagna.
Don Sandro s’era messo in testa che la vecchia sala parrocchiale di San Pietro Apostolo, in disuso e dissesto, andava restaurata. Per il suo indubbio valore di polo sociale e culturale in un quartiere senza spazi di aggregazione, sarebbe stato compito del Comune stesso di sostenere l’operazione.
La sua insistenza impeccabilmente cordiale e ben argomentata, le sue lunghe attese di fronte alla mia stanza a Ca’ Farsetti insieme a un esponente dei parrocchiani, furono tali che a mia volta mi trovai a fare una pressione così persistente sul sindaco Paolo Costa e sull’intransigente assessore Marco Corsini da portarli dalla nostra parte ed escogitare il modo giusto e legittimo per sostenere un’operazione più complessa di quanto immaginassero don Sandro e i suoi parrocchiani.. Si riuscì cosi a ottenere un coinvolgimento del Comune nel restauro della sala.
Sono particolarmente orgoglioso di quell’operazione – e so che lo sono altrettanto Costa e Corsini – convinto com’ero – quanto lo erano don Sandro, Paolo e Marco e la giunta – dell’importanza di luoghi d’incontro sociale e culturale nelle nostre periferie desertificate.
Don Sandro era un sacerdote di grande umanità e di sincera fede, era un ottimo cuoco, conversatore simpatico, oltre che – lo dicono tutti quelli che hanno lavorato con lui a Gente Veneta – giornalista di vaglio e ottimo direttore.
Ai suoi familiari il cordoglio di ytali
Quando non esisteva l’immondizia
Mia nonna materna, all’inizio dello scorso secolo, emigrò in America con i fratelli e il padre. Ma non fece i conti con l’amore, rimasto al paesello. Tornò per convolare a nozze, ma il promesso sposo non si faceva trovare. Pensò che avesse deciso di lasciarla. La cosa era più complessa… o forse più semplice: lui non aveva un vestito decente per presentarsi alla morosa. Finché sua zia gli imbastì una giacca con una vecchia coperta. Solo allora si presentò alla morosa, che nel frattempo aveva incominciato a lavorare alla Scimmia d’Oro, l’osteria della canzone “Al di qua e al di là del Piave”.
Cose d’altri tempi: il riciclaggio d’una coperta salvò un amore! In realtà nella società contadina di un tempo la parola riciclaggio non esisteva, perché ogni cosa veniva usata fino alla sua consumazione. Ricordo anch’io che i vestiti dei fratelli o dei cugini più grandi, passavano ai fratelli e ai cugini più piccoli, quando ai primi non andavano più bene. Se durante l’uso si strappavano, la mamma o la zia che sapeva cucire applicava una toppa e via. Per non parlare delle scarpe: duravano una vita! Forse erano fatte con materiali più duraturi di quelli di oggi, o forse conoscevano fin troppo bene la bottega del calzolaio. Quelli del nostro paese erano due, lavoravano assieme. La loro bottega sapeva di cuoio e dell’odore inconfondibile del mastice che usavano: quante volte ho portato le scarpe perché la suola era consumata o bucata!
Oggi produciamo in media a testa cinquecento chili di immondizie all’anno – mezza tonnellata – 127 dei quali in cibo.
Quando mi recai per le prime volte in Romania, mi accorsi subito che nei villaggi mancavano i bidoni delle immondizie sulle strade. Il motivo, scoprii con un certo stupore, era il fatto che non c’erano immondizie.
Accedeva così anche tra la nostra gente dei campi: non esisteva la raccolta delle immondizie da parte dei netturbini, semplicemente perché non esistevano immondizie. Nulla veniva buttato via. I pochi rifiuti organici della cucina venivano raccolti in una grande buca chiamata – non senza ironia – corte, che altro non era se non il moderno compost. I rifiuti biologici delle persone finivano nel grande letamaio: una vasca che in genere sorgeva vicino all’aia della casa colonica, che raccoglieva il letame della stalla, sulla quale sporgeva una piccola casetta in legno, il gabinetto di casa. Non si buttava nulla del cibo: far cadere a terra o gettar via un pezzo di pane equivaleva a bestemmiare. Le mamme raccontavano ai bambini che Gesù era sceso da cavallo per raccogliere una briciola che aveva visto per terra. Quando le donne versavano la polenta sul tagliere, i bambini correvano per mangiare le crosticine bruciacchiate e amare che si formavano nel paiolo. Le penne più morbide d’oca e di gallina servivano per creare calde coperte imbottite. Gli scartozzi (le foglie) delle pannocchie servivano per riempire i materassi. Guai a buttare via la cenere del focolare: serviva a fare la lisciva per lavare la biancheria che risultava candida e profumata. I pochi giocattoli di legno, latta o pezza passavano tra le mani dei bambini di generazione in generazione. I barattoli di conserva e le lattine del petrolio erano utilizzati per gli usi più vari, le corna dei buoi per portare la pietra con la qual affilare la falce…
Insomma, nella società di un tempo non esisteva il consumismo, non era concepibile lo stile dell’usa e getta, tutto era necessario fino alla sua naturale consumazione. Oggi accade l’opposto… e non sempre è un bene!
Fonte: Barilla Center for Food and Nutrition
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