Ci sono campioni destinati a segnare un’era, ci sono campioni destinati a durare per sempre e infine c’è lui: Roberto Baggio da Caldogno, che del calcio ne incarna l’essenza. Non a caso, ancora adesso, ovunque si rechi, specie quando si esibisce su un terreno di gioco, può avere accanto chiunque ma la platea ha occhi solo per lui. E se tutto questo accade, il motivo è semplice: Roby ha saputo sbagliare e accettare serenamente i propri errori, ha saputo essere umano in un ambiente che andava via via disumanizzandosi, è rimasto se stesso mentre altri si trasformavano in macchiette o in burattini del potere.
A salvarlo è stata l’educazione familiare, adcompagnata da una personalità schiva e scevra da ogni forma di esibizionismo, dalla fede buddhista e senz’altro dall’amore della famiglia che si è costruito e con la quale vive serenamente nel vicentino, lontano dai riflettori e circondato dall’affetto delle persone che davvero gli sono care. A differenza di altri, infatti, ha sempre anteposto l’uomo al calciatore, non è mai diventato un divo, non ha mai ceduto alle sirene del business, non ha accettato fanfare e adulazione e, per questo, ha pagato un prezzo altissimo, vedendosi sorpassato da personaggi assai meno talentuosi e corretti di lui. Le persone, tuttavia, se ne sono accorte e, come detto, ovunque si rechi, è accolto dagli applausi, persino quando viene rievocata, come faremo d’ora in poi, l’amara finale di Los Angeles del 17 luglio 1994. Trent’anni fa, a Pasadena, con Sacchi in panchina e un clima rovente, non solo a livello atmosferico, una Nazionale meno spettacolare del previsto giungeva all’atto conclusivo dei Mondiali americani contro il Brasile meno talentuoso di sempre, superato in scarsezza solo dal disastro attuale, a dimostrazione di quanto la magia originaria, già allora, fosse stata corrotta dal contatto con i fiumi di denaro e le smisurate ambizioni della vecchia Europa.
Tornando a noi, se eravamo arrivati fin lì, era solo grazie a lui, al suo talento, alla sua doppietta contro la Nigeria e alla tregua armata che aveva stipulato con un allenatore che non sopportava, ritenendo, non a torto, che ne ingabbiasse la classe e gli impedisse di esprimersi al meglio. Del resto, questa è stata una costante della sua carriera: solo Mazzone lo ha davvero apprezzato per come era, ricevendo in cambio dal Divin Codino la miglior versione di sé. Roby, difatti, è stato quanto di più simile a Maradona si possa immaginare: non solo per le qualità esibite in campo ma, soprattutto, per il suo spirito indomito e battagliero, per la carica anti-sistema che ha sempre avuto, per le sue lotte serrate con chi continua a danneggiare il calcio, per le sue denunce e per il suo non essersi mai rassegnato alle passioni tristi di una stagione senza poesia, senza umanità e, di conseguenza, senza speranza. Per fortuna, non si è lasciato andare agli stessi eccessi di Diego, ma la sua dimensione politica e sociale è innegabile. Anche per questo è tuttora così apprezzato: perché è considerato un simbolo, un punto di riferimento, un vendicatore di torti e soprusi, un combattente che ha rischiato e patito in prima persona per affermare le proprie idee, uno sconfitto ma non un vinto, un idealista concreto, un utopista con i piedi ben piantati per terra, un cantore del bello e un dispensatore automatico di meraviglia.
Gli abbiamo perdonato quel rigore, anche perché, ormai possiamo dircelo, non meritavamo davvero di vincere quella finale. La leggenda, in Brasile, narra che sia stata la mano di Senna, scomparso tragicamente a Imola pochi mesi prima, a deviare in cielo il tiro di Baggio. In Italia, a cominciare da lui, abbiamo preferito invece sostenere la tesi secondo cui Roberto abbia visto una porta nel cielo e abbia calciato là dove solo la sua immaginazione aveva visto una rete. Fatto sta che ha fallito l’appuntamento decisivo, ha perso la partita della vita e gliene saremo eternamente grati. Ci ha insegnato, infatti, ad accettare i nostri limiti: una lezione di cui qualcosa è rimasto, nonostante l’asfissiante contemporaneità che ci circonda.
Trent’anni, e il mito è ancora qui, a ricordarci che un altro mondo e un altro calcio sono sempre possibili.
L’articolo Roberto Baggio, l’essenza del calcio proviene da ytali..