Diego Armando Maradona arrivò a Napoli un afoso giovedì di quarant’anni fa. Era il 5 luglio 1984 e il San Paolo era gremito in ogni ordine di posti, quando alle sei e mezzo del pomeriggio il divo sbarcato da Barcellona si presentò in tuta e maglietta, regalando al pubblico una serie di palleggi che rendevano bene l’idea della sua classe ed erano premonitori dei capolavori cui avremmo assistito negli anni successivi. Eppure, non è di questo che voglio parlarvi: questo lo sapete già. Voglio parlarvi di Napoli, della sua gente, del suo cuore pulsante, degli scugnizzi che accorsero quel giorno allo stadio per assistere non all’esibizione di un calciatore ma all’apparizione di un Dio che presto, al pari dell’originale, almeno per chi è credente, avrebbe conosciuto il suo Golgota, la sua corona di spine e la sua croce. Perché Diego è stato quanto di più vicino sia mai esistito a una divinità e, al tempo stesso, quanto di più prossimo sia mai esistito al peccato. Ha inebriato le folle e gettato via se stesso. Ha combattuto battaglie significative ed è stato sconfitto da un sistema che, di fatto, gli ha spezzato le gambe. Infine se n’è andato, nel novembre di quattro anni fa, e da allora il mito si è trasformato in leggenda, fino a scatenare fenomeni di sopportabile isteria cui riconosciamo, se non altro, il pregio della sincerità.
Diego non poteva esistere senza Napoli e Napoli, dopo Diego, non è stata più la stessa. A sua volta, ha vinto e perso, sofferto, pianto, gioito, è caduta e si è rialzata, ha tremato, ha stretto i denti e oggi è una città alla costante ricerca di un’identità, difficile da trovare ma indispensabile per avere un domani, soprattutto in assenza di un nuovo idolo da venerare com’è avvenuto nei sette anni in cui il “Pibe de oro” ne ha illuminato la dolente grandezza.
Maradona ha rappresentato per Napoli l’epifania della bellezza, la riscossa e il riscatto, l’orgoglio ritrovato e la follia, l’immensità e il vuoto, il tutto e il niente, una contraddizione permanente e una felicità impossibile da descrivere a parole. Scugnizzo fra gli scugnizzi, profumava di popolo, di periferia, di fango, di terra, di passione. Era stato povero a Buenos Aires e la ricchezza, a nostro giudizio, in parte la sperperava anche perché lo metteva a disagio. Pochi campioni sono stati dissoluti come lui, nessuno ha dissipato un simile talento, sottoponendo un fisico non imponente a uno strazio insopportabile per chiunque. Eppure, se a Diego perdoniamo tutto, compresi gli eccessi, gli errori e verrebbe quasi da dire i “crimini” che ha commesso, innanzitutto contro se stesso, è perché gli riconosciamo una genuinità di cui oggi s’è smarrito il seme.
Per una comunità abituata al nulla, ha costituito una sorta di angelo vendicatore, capace, con il proprio smisurato talento, di riparare i torti subiti fino a quel momento. Per i compagni di squadra, ha rappresentato l’opportunità di far vedere al mondo che non erano poi così scarsi. Per tutti coloro che l’hanno ammirato, domenica dopo domenica, è stato il simbolo del Sud indomito che si ribellava allo strapotere dell’opulento Nord.
Volendo utilizzare un paragone storico, potremmo affermare che è stato un Masaniello senza troppe pazzie, in quanto nei suoi gesti, nel suo modo di comportarsi e di giocare c’era la giusta dose di concretezza e pragmatismo. Diego predicava, certo, si schierava dalla parte dei compagni, e anche per questo era adorato dall’intero spogliatoio, ingaggiava duelli titanici con l’ordine costituito e con qualunque potere mettesse in discussione la sua visione del mondo all’insegna della purezza, tutto vero, ma in campo puntava a vincere e, spesso, ci riusciva, talvolta anche da solo.
Persino San Gennaro, in quegli anni, dovette condividere la devozione con il fenomeno in maglia azzurra col 10 sulla schiena, al punto che, come ha ricordato Mimmo Carratelli sul Corriere dello Sport, venne travestito da Maradona e diventò Sangennarmando. E i tifosi, racconta ancora Carratelli, scandivano una filastrocca che recitava: “San Gennà, non ti crucciare / tu lo sai, ti vogliamo bene / ma ‘na finta ‘è Maradona / squaglia ‘o sanghe dint’è vene”.
La vera tristezza, pertanto, è avere la certezza che quel tempo non tornerà. Non si tratta di una “retrotopia” di quelle descritte da Bauman, ma di un’amara constatazione: quella stagione, pur con tutti i suoi difetti, era davvero migliore. Perché Diego era Diego nella Napoli di Pino Daniele, di Massimo Troisi, di Luciano De Crescenzo, del “Petisso” Pesaola e dello speciale condotto da Gianni Minà per rendere omaggio al primo, storico scudetto partenopeo. Era la Napoli di Ermanno Rea, un universo in cui si ritrovavano, fianco a fianco, i ragazzi dei quartieri difficili e i grandi intellettuali, accomunati da una passione smisurata che vedeva in quel funambolo il proprio punto di congiunzione.
Maradona ha avuto anche una dimensione politica: tutti i Sud del mondo si incrociavano sul suo viso, affidandosi poi ai suoi piedi come quella sera a Stoccarda, quando nel pre-partita si esibì in una memorabile serie di palleggi con gli scarpini slacciati sulle note di “Life is life”.
Era ancora vivo, quando arrivò, lo spirito del ’43, quello delle Quattro giornate, della rivolta di popolo che scaccia i nazi-fascisti e dei figli della strada e del disagio sociale che non si rassegnano a un destino di morte e sottomissione.
Diego, come ha riportato Darwin Pastorin su Tuttosport, una volta ha affermato:
Da giovane avevo la grinta della fame. Passata la grinta della fame, ho avuto la grinta della gloria. Adesso ho la grinta della vita.
Purtroppo, quella grinta non esiste più ma la memoria di quella presentazione al cospetto di una folla oceanica non andrà mai perduta, almeno fino a quando un bambino di Acerra, ormai cresciuto, continuerà a raccontare della volta che Maradona venne a giocare per beneficienza in un campo pieno di fango, in condizioni che ricordavano da vicino quelle di Villa Fiorito. Del resto, anche quando ballava sul tetto del mondo, lui da quell’impasto di miseria e disperazione non se n’era mai voluto andare. Non ha mai voluto abbandonare la sua gente, non si è mai dimenticato da dove venisse.
Ribadiamo: ha commesso una miriade di errori. Tuttavia, noi la pensiamo come Manu Chao: “Si yo fuera Maradona viviría como él“, se fossi Maradona vivrei come lui. Solo che Diego è stato unico, inimitabile. Anche per questo, quattro decenni dopo, alla vigilia della faraonica presentazione che avrà luogo al Bernabéu quando vi sbarcherà Mbappé e dopo averne viste altre non meno imponenti, ci ricordiamo soprattutto di quel pomeriggio che ha cambiato per sempre il volto di una città comunque inquieta ma finalmente in pace con se stessa. Diego, dal canto suo, continua a parlarci di giustizia sociale, uguaglianza e diritti degli ultimi; gli altri, al massimo, sono dei fuoriclasse.
L’articolo Si yo fuera Maradona viviría como él proviene da ytali..