Vincere Giro e Tour in una sola stagione è un capolavoro che nella storia è riuscito solo a un pugno di fenomeni. Parliamo di personaggi come Merckx e Pantani, per rendere l’idea, ossia di miti immortali di fronte ai quali non si può far altro che togliersi il cappello. Eppure, il bis di Tadej Pogačar, che a venticinque anni ha già conquistato ben tre Grande Boucle, ha un sapore speciale. Ci dice, infatti, che siamo al cospetto di un fenomeno destinato, se non commette errori al momento impensabili, a riscrivere per intero la storia del ciclismo. Era dai tempi di Coppi e Bartali e del “Cannibale” belga che non assistevamo, difatti, a un simile dominio, come se gli dei avessero deciso di concentrare in un solo uomo tutte le virtù che deve possedere un atleta. Il punto è che Pogačar potrebbe spingersi addirittura oltre: per motivi di età, per la migliore qualità odierna di biciclette e tracciati stradali (non ci dimentichiamo che Coppi e Bartali correvano in un’Europa appena uscita dal secondo conflitto mondiale) e per gli incredibili passi avanti che sono stati compiuti in fatto di equipaggiamento e alimentazione.
Tuttavia, nella stagione degli atleti-robot, delle macchine umane prive di genuinità e degli eccessi esaltati oltre ogni limite, la vera grandezza di questo mite sloveno dai modi gentili sta proprio nella sua sobrietà. Altri, al posto suo, si sarebbero già montati la testa; lui continua a pedalare come se non avesse ancora vinto niente, macinando chilometri su chilometri e concedendosi, al massimo, un po’ di intimità con la compagna Urška al traguardo. Non è tipo da copertine patinate, insomma, non è un personaggio da gossip, difficilmente lo vedremo concorrere in qualche reality show e mai rilascerà un’intervista sopra le righe o una dichiarazione offensiva nei confronti di chicchessia. E il bello è che questo modo di essere, nel suo caso, è spontaneo. Non c’è nulla di costruito in questo ragazzo perbene che non si vergogna di essere tale, dotato del coraggio di remare in direzione ostinata e contraria, di rifiutare il divismo e di coltivare valori antichi, ormai desueti, come la gentilezza, la cortesia, la lealtà e la passione autentica per quello che fa.
Probabilmente, al termine della carriera, avrà vinto tutto ciò che c’era da vincere, ma di lui non rimarranno solo i trionfi. Come abbiamo già scritto quando regalò la borraccia a un bambino al termine di un Giro stradominato, sono questi piccoli gesti a fare la differenza. E così, persino i record, notevoli, a tratti quasi sovrumani, passano in secondo piano. Con Tadej, infatti, a trionfare sono la bellezza interiore, l’esempio che fornisce, la nobiltà d’animo, quel pizzico di follia che incarna e, più che mai, il senso di libertà che trasmette quando si alza sui pedali e vola nel vento. Come faceva un certo Pantani, prima che venisse fermato per sempre da accuse infamanti che solo ora vengono finalmente messe in discussione. Pogačar è nato nel fatidico ’98, a settembre, il mese della Vuelta di Spagna, lunica grande corsa a tappe che non ha andora conquistato.
È nato, dunque, nel segno del “Pirata”, nell’anno della sua consacrazione, alla vigilia della sua rovinosa caduta dalla quale, purtroppo, non si è più rialzato. A noi, pertanto, piace pensere che il destino lo abbia spedito sulla Terra per raccoglierne il testimone. Come Marco lo aveva raccolto da Gimondi ventisei anni fa, quando il campione bergamasco lo accolse vittorioso al traguardo di Parigi e ne sottolineò l’impresa sotto l’Arc de Triomphe. Non sappiamo cosa direbbe di lui il fuoriclasse con la bandana in testa, ma senz’altro ciò che Borges scriveva a proposito del calcio vale anche per le due ruote: “Ogni volta che un bambino sale su una bicicletta, lì ricomincia la storia del ciclismo”. E la storia di Tadej è appena all’inizio.
Immagini:: Fotografie di Tadej Pogačar nel Tour de France 2024 (fonte: Wikimedia Commons).
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