Ancora non si sa molto delle motivazioni dell’attentatore che il 14 luglio ha cercato di uccidere Donald Trump, ferendolo leggermente, ma le prime conseguenze del folle gesto sono già evidenti.
Il presidente Biden ha subito cercato di mostrarsi un uomo di stato, intervenendo ben tre volte in televisione, la prima volta con una condanna totale dell’attentato affermando che “noi americani non siamo così”, la seconda ribadendo il concetto e esprimendo solidarietà allo stesso Trump (chiamato da lui amichevolmente “Donald”), alla vittima e ai feriti della sparatoria; la terza, in un discorso più meditato (o meglio, più meditatamente scritto dai suoi collaboratori, dallo studio ovale della Casa bianca in cui ha condannato non solo l’attentato ma il clima di violenza che ormai domina da anni la politica americana, ricordando il rapimento qualche anno fa della governatrice del Michigan Gretchen Whitmer, l’aggressione da parte di facinorosi trumpiani nella casa della speaker Nancy Pelosi e anche l’attacco al Congresso del 5 gennaio 2021. Poi, la sera tardi in un’intervista alla rete NBC ha ammesso che anche i democratici avevano usato nelle passate settimane un linguaggio violento rimpiangendo di avere lui stesso invitato i suoi sostenitori a mettere Trump “nel mirino”.
Tutti tentativi di limitare i danni, che però ci sono stati e continueranno a esserci. In primo luogo perché l’attentato ha suscitato un’ondata di simpatia tra vasti strati della popolazione e non solo, come è ovvio, tra i repubblicani. In secondo luogo perché gli esponenti di spicco del Partito repubblicano sono stati pronti a rovesciare la narrativa di questi mesi di campagna elettorale rappresentando Trump – un uomo che volta dopo volta ha usato un linguaggio violento promettendo non meglio specificate “vendette” nei confronti dei suoi oppositori e continuando a rivendicare come giusta e doverosa la violenza da lui stesso scatenata sul Congresso nel 2021 – come la vittima e il bersaglio di un tentativo di “colpo di stato” e di un assalto alla democrazia da parte della “cricca” democratica. “Gli hanno rubato le elezioni, lo hanno sottoposto a impeachment, gli impediscono di parlare, lo perseguitano con i processi, e adesso vogliono ucciderlo!” è quanto hanno a caldo dichiarato autorevoli esponenti repubblicani, e la narrazione (falsa) fa oggi particolarmente presa.
In terzo e più importante luogo perché mediaticamente l’iniziativa passa ora ai repubblicani. Se c’erano ancora, fino a pochi giorni fa, alcune residue frange del Partito repubblicano che non amavano l’ex presidente, oggi sono tutti uniti, elettori e notabili, dietro di lui. Tutti, anche coloro che l’avevano contrastato con virulenza (e contraccambiati con altrettanta virulenza) come Marco Rubio, Lindsay Graham o Ted Cruz sono oggi al suo fianco sentendo che il vento soffia ormai forte in suo favore. Trump si è considerato così sicuro del suo totale controllo del partito da nominare suo running mate un giovane senatore dell’Ohio che in passato l’aveva definito un “Hitler americano” e da consentire che alla convention parli la sua arcinemica (l’unica che non si era piegata a “baciare l’anello”), Nikki Haley.
A questo punto quindi i repubblicani dalle posizioni sicure conquistate grazie alla follia omicida di un attentatore sono all’attacco e non più sulla difensiva. Cercano ora di fare breccia su settori tradizionali dell’elettorato democratico – neri, latini, lo stesso sindacato dei teamsters (camionisti) tradizionalmente a fianco dei democratici – facendo parlare alcuni loro esponenti per primi alla convention repubblicana che si è appena aperta a Milwaukee. Non più quindi un Partito repubblicano definito dai facinorosi dei Proud Boys, dagli estremisti bianchi e dagli evangelici fanatici (alla convention è intervenuto anche un Sikh che ha recitato una preghiera della sua religione), ma un partito inclusivo che può raccogliere intorno al martire ex presidente che lo guida la larga maggioranza degli elettori, bianchi, donne, giovani, neri, minoranze, operai, ceto medio, ricchi e ricchissimi. Un partito che rimane quello che è così come Trump lo ha modellato negli ultimi dieci anni: anti immigrati, xenofobo, isolazionista, pro-ricchi, pro-armi, anti-aborto e con pulsioni autoritarie sempre pronte a esplodere.
Contemporaneamente il Partito democratico si viene a trovare in una posizione di estrema debolezza e non ha che se stesso, e il proprio presidente, da incolpare. La narrazione ripetuta infinite volte che l’economia va bene, che i posti di lavoro sono aumentati, che l’inflazione è diminuita, e che bisogna adesso – come ripete incessantemente Biden – lasciargli “finire il lavoro”, per quanto basata su elementi oggettivi, evidentemente non ha convinto gran parte della popolazione che si è invece trovata ad affrontare le ondate di immigrati (davvero massicce), l’inadeguatezza del sistema sanitario, l’aumento dei generi alimentari (che colpisce i più poveri).
Era, ormai da settimane, iniziato un dibattito per portare nuova linfa al messaggio democratico, per renderlo più convincente anche attraverso la scelta di un altro candidato alla presidenza che proiettasse un’immagine di dinamismo, che non si appoggiasse sui “successi”, veri o presunti, del passato ma che ispirasse gli elettori a guardare al futuro con fiducia. (Dopotutto è questa l’essenza della politica americana che, in assenza di ideologia, guarda alle qualità personali del leader, alla sua capacità di entusiasmare, di rassicurare nelle avversità.)
E invece ciò che negli ultimi anni la presidenza Biden ha proiettato è stata un’immagine di incertezza, di inadeguatezza e di paralisi, qualità compendiate dall’età del presidente, dal suo incedere vacillante, dal suo parlare a volte farfugliante. Le mancate riforme (delle armi, del diritto di aborto, della sanità, dell’immigrazione, della polizia), l’altalenante politica estera, in Europa a difesa di un popolo aggredito e martoriato, in Medio Oriente e a difesa di un regime spietato che fa strage di civili inermi, la retorica da guerra fredda nei confronti della Cina, la bolsa riproposizione di un primato americano che molti nel mondo non riconoscono più – tutto ciò ha contribuito al senso di dissonanza, di frattura, tra le intenzioni di un leader (pure rispettato), e la realtà; dissonanza e frattura tra intenzioni e realtà che l’elettorato registrava con i bassi livelli di approvazione nei confronti del presidente e di cui i leader democratici incominciavano a rendersi conto.
Ma Biden, confortato dai familiari, incoraggiato dai consiglieri interessati, sostenuto anche dai possibili candidati alternativi timorosi di esporsi, ha tenuto duro. “Sono io l’uomo giusto per battere Trump” ha detto e ripetuto. Evidentemente ci crede. Si sente pervaso dal senso della sua unicità, della sua insostituibilità.
Ma con altrettanta evidenza le cose non stanno così. Già prima dell’attentato a Trump le prospettive di vittoria per il presidente erano piuttosto incerte; adesso si sono fatte catastrofiche. C’è ancora tempo per cambiare cavallo in corsa? È difficile dirlo. L’occasione era un anno fa, sei mesi fa, ancora qualche giorno fa. Adesso è probabilmente troppo tardi. Salvo un “miracolo”, come quello che ha salvato la vita a Trump, a novembre la catastrofe democratica è assicurata.
Le immagini, qui pubblicate, sono tratte da X. Raccontano la protesta a Milwaukee contro il Partito repubblicano che tiene la sua convention nella principale città del Wisconsin dal 15 al 18 luglio
L’articolo Una catastrofe imminente proviene da ytali..