In accordo con le considerazioni di Mauro Ceruti, ritengo che, all’interno di una idea di complessità e in un mondo in cui il dialogo deve misurarsi e lottare con il primato della persuasione e della seduzione retorica in quel rapporto uno-molti che si è ingigantito nell’universo dei socials, l’apprendimento debba essere collegato ai concetti di relazione e di autonomia. Ѐ qui che vedo configurarsi l’idea di una nuova Paideia, capace di riprendere il meglio della vecchia accezione nelle sfide del terzo millennio.
L’apprendimento è per me lo stare a cavallo sulle cornici così come si sta a cavallo di un manico di scopa. Lo faceva Socrate, il maestro del dialogo, mentre giocava con i suoi figli. Ma le cornici non vanno soltanto cavalcate; devono essere attraversate criticamente, per poter cogliere le differenze fra mondi e per collegarli dopo che sono stati differenziati. L’apprendimento è il non cadere nella trappola dell’omologazione in un unico mondo possibile dove il fuori e l’altrove non hanno cittadinanza. L’apprendimento è saper guardare con la coda dell’occhio.
La coda dell’occhio
La credenza in una realtà assoluta è la condizione estrema dei prigionieri incatenati della caverna di Platone. Consapevolmente o meno, noi viviamo in mondi intermedi. Quando ci immergiamo in un mondo non abbandoniamo gli altri mondi: è come se li percepissimo con la coda dell’occhio, poco al di là della cornice. Il bambino di Winnicott che, illudendosi di essere autonomo dalla madre, comincia proprio così a sperimentare l’ebbrezza della propria autonomia manipolando gli oggetti, sa tuttavia che la madre è là, sufficientemente distante perché egli possa sentirsi solo, ma sufficientemente vicina perché questa solitudine sia vissuta in presenza d’altri. È come se la percepisse con la coda dell’occhio. Il bambino sta apprendendo a fare quel che sperimenterà normalmente nella vita quotidiana: entrerà in un mondo senza perdere la relazione con gli altri mondi, separati da cornici che collegano il dentro e il fuori. Questa capacità di saper vivere nella compresenza di più mondi in termini tali che l’immersione in un mondo non implica l’esclusione di altri mondi, ma la loro percezione, per così dire, laterale, è ciò che per me è teoricamente la pratica della coda dell’occhio. Essa ha a che fare con i concetti di complessità, di autonomia, di relazione.
Il confine tra il sé e il non-sé
Il biologo Steven Rose ha rilevato che «la presenza di un confine semiaperto che separa il sé dal non sé» [1] rappresenta una delle caratteristiche principali della vita a partire dal livello cellulare. «Nella sua forma più semplice, questo comportamento non richiede né cervelli né sistemi nervosi, quantunque necessiti di un sofisticato insieme di caratteristiche chimiche e fisiche». [2] Nelle sue forme più complesse, la presenza di confini e di contesti determina il modo di comportarsi, di agire e di modificare i propri programmi di azione, che è ciò di cui in ultima analisi si occupano i cervelli [3]. Nella complessità dell’azione umana, sociale e individuale, i confini e i contesti sono decisivi per la dotazione di senso di ogni apprendimento e di ogni comunicazione. Di ciò hanno scritto recentemente Vittorio Gallese e Ugo Morelli nel loro Che cosa significa essere umani. [4]
La conoscenza della metacomunicazione (la distinzione tra mappa e territorio, la cornice come oggetto di conoscenza e di significato) è un presupposto importantissimo e necessario per quel tipo di apprendimento che, utilizzando l’immagine kantiana, potrebbe essere definita come l’uscita dallo stato di minorità. Chi non percepisce quei confini al cui interno ciascuno viene a trovarsi dando significato agli eventi e alle cose, mette in pericolo la propria autonomia. Quando il contrasto fra differenti realtà viene fatto sparire e gli uomini non percepiscono più i confini al cui interno essi operano, allora si rischia di essere come i prigionieri della caverna di Platone, i quali vedono ombre e pensano che siano cose, non sanno che esistono mondi al di fuori della loro caverna, non conoscono uomini che vivono senza catene, non hanno consapevolezza di essere prigionieri. Non si renderanno conto che, come avevano rilevato Engels e Marx nell’Ideologia tedesca, le idee dominanti sono le idee della classe dominante. Quando ritornerà il prigioniero liberato, essi non gli crederanno, non crederanno che esistano mondi differenti da quello della caverna. L’essenza del dominio consiste nel nascondere l’altrove, il fuori della caverna.
Autonomia
Se si discute in termini di coinvolgimento, regola mimetica, domanda sul contesto, si parla in realtà della capacità di uscire dai contesti e di saperli vedere come dal di fuori. Ѐ la ragione per la quale noi crediamo e non crediamo, ci coinvolgiamo e non ci coinvolgiamo. L’azione da sola, senza la capacità di trarsi fuori, rischia di diventare ripetitiva, cioè perde il senso di rottura, si naturalizza, si trasforma in comportamento. Per l’autonomia collettiva e individuale è di importanza capitale che il mondo non appaia senza alternative, così come invece si presenta ai prigionieri della Repubblica di Platone. Ѐ necessario, come suggerisce Gregory Bateson, sapersi trarre fuori dai contesti, percepire le differenze, rendere esplicita la frase non detta: «questo è un gioco» e trasformarla, criticamente e sospettosamente, nella domanda: «questo è un gioco?» [5]. Esercitare la pratica del dubbio come metodo per la conoscenza e l’azione. E il dubbio sta a cavallo delle cornici. Se i processi di naturalizzazione sono quelli che nascondono i confini facendoci alla fine apparire come naturali, eterni e immodificabili eventi e cose che invece sono artificiali, storici e modificabili, allora la domanda «questo è un gioco?» può aiutare a comprendere la condizione di autonomia relativa dell’osservatore nell’atto del conoscere. Ѐ, infatti, una domanda che ci poniamo ogni qual volta noi, uomini duplici, capaci di vivere l’unità degli opposti e di attraversare i confini, sappiamo trarci fuori come osservatori e, al di là della cornice, guardiamo con altri occhi, come dall’esterno, quel che facciamo come attori.
Ciò che dobbiamo apprendere è la capacità di saper guardare con altri occhi.
Relazioni di potere e stati dominio
Apprendere a saper guardare con altri occhi comporta una modificazione del potere che sottende la relazione tra colui che insegna e colui che apprende. Comporta l’autonomia di chi apprende.
In uno dei suoi ultimi interventi, una lunga intervista, Michel Foucault suggerisce due tipi di distinzione. La prima è quella fra liberazione e pratiche di libertà, la seconda è fra stati di dominio e relazioni di potere. Si tratta di distinzioni che emergono dall’esperienza delle rivoluzioni e delle lotte di liberazione di questo secolo, ma che vanno estese alle condizioni di vita politica di uno stato democratico odierno. Dopo che le rivoluzioni si sono compiute e le lotte di liberazione sono terminate con una vittoria, dopo che un’azione liberatrice ha raggiunto lo scopo, non soltanto il problema del dominio e di chi lo esercita si presenta di nuovo, ma vi si aggiunge qualcosa in più: l’autorevole legittimazione di uno stato che porta con sé anche il dominio della parola “libertà”, ormai segnata dal processo rivoluzionario o liberatorio e resa sacra.
Criticare il riprodursi di uno stato di dominio entro un contesto dove la libertà è stata resa sacra da un processo rivoluzionario o liberatorio, diventa allora assai difficile, se non impossibile.
Si è spossessati anche del nome e della parola. Il dominio affermato in nome della libertà, in seguito a un atto storico che è stato effettivamente liberatorio, tende a rendere inefficace ogni critica che ha per scopo il cambiamento e il raggiungimento dell’autonomia. Ottenute le condizioni di libertà grazie a una rivoluzione o a una lotta di liberazione, queste, come in una sorta di metamorfosi, finiscono con il convivere con nuovi modi di essere del dominio. Il dominio risorge sotto le spoglie delle libertà.
Non voglio dire che la liberazione o questa o quella forma di liberazione – continua Foucault – non esistano: quando un popolo colonizzato cerca di liberarsi dal suo colonizzatore, si tratta certamente di una pratica di liberazione. Ma sappiamo benissimo che… la pratica di liberazione non basta a definire le pratiche di libertà che saranno in seguito necessarie affinché quel popolo, quella società e quegli individui possano definire in modo autonomo delle forme ammissibili e accettabili della loro esistenza o della società politica. Ѐ per questo motivo che insisto sulle pratiche di libertà piuttosto che sui processi di liberazione, i quali, lo ripeto, hanno un loro posto, ma non mi sembra che possano definire da soli tutte le forme pratiche di libertà. [6]
Perché i processi di liberazione hanno bisogno delle pratiche di libertà? La risposta è semplice: ogni processo di liberazione che esaurisca in sé tutte le pratiche di libertà finisce con il trasformare le relazioni di potere in stati di dominio. Secondo Foucault le relazioni di potere si trasformano in stati di dominio quando si cristallizzano diventando immobili, quando cioè non modificano coloro che vi partecipano. Se quindi le relazioni di potere tendono a mantenere rigide le gerarchie e le dissimmetrie esistenti fra coloro che vi partecipano, oppure i partecipanti usano tutti i mezzi fisici e simbolici per conservare la loro posizione entro il sistema di relazione dato, allora esse si trasformano in stati di dominio. Sotto questo aspetto i confini fra relazioni di potere e stati di dominio non sono facilmente individuabili. I rapporti fra genitori e figli, per esempio, sono relazioni di potere basate su gerarchie e dissimmetrie, ma diventano stati di dominio quando non si modificano, quando cioè la comunicazione simbolica è in una parte decisiva utilizzata per il mantenimento e la conservazione dei rapporti così come sono.
Secondo Foucault non possono esistere società senza relazioni di potere. Inoltre è sbagliato, a suo parere, identificare tout court, così come fa Sartre, il potere con il male.
Il potere non è il male. Il potere significa giochi strategici… Prendiamo anche una cosa che è stata oggetto di critiche spesso giustificate: l’istituzione scolastica. Non vedo che cosa ci sia di male nella pratica per cui, in un dato gioco di verità, qualcuno che sa più di un altro dice a quest’ultimo cosa bisogna fare, insegna, gli trasmette un sapere, gli comunica delle tecniche; il problema è, invece, sapere come in queste pratiche – in cui il potere non può non esistere e in cui non è cattivo in sé – sia possibile evitare gli effetti di dominio che fanno sì che un bambino possa essere sottomesso all’autorità arbitraria e inutile di un maestro, uno studente possa essere lasciato alla mercé di un professore autoritario, ecc. Credo che questo problema vada posto in termini di regole di diritto, di tecniche razionali di governo e di ethos, di pratica di sé e di libertà. [7]
L’apprendimento ha senso se si pone in una dinamica di relazione di potere che può essere modificata in vista dell’autonomia di chi apprende. Se l’apprendimento è saper guardare con altri occhi, non è possibile farlo se non si è autonomi e si diventa autonomi solo impedendo che le relazioni di potere si trasformino in quegli stati di dominio che, come nella caverna di Platone, non appaiono come tali perché si presentano come l’unico mondo possibile oltre il quale non c’è niente, anzi un mondo che non ha un altrove. E tuttavia, le pratiche di libertà sono necessarie per resistere, ma non sufficienti per cambiare il mondo. Devono persistere anche dopo che vi è stato un cambiamento, una liberazione o una rivoluzione, ma non bastano. Le pratiche di libertà hanno bisogno di quell’utopia regolativa che, in democrazia, come nell’insegnamento e nell’apprendimento, misuri la capacità di saper applicare il dialogo (dia-logos: relazione tra esseri umani che si co-appartengono mentre creano mondi intermedi) là dove prevale la retorica uno-molti. La sconfitta di Socrate, il quale, come ricorda Hannah Arendt, fu condannato perché volle applicare il dialogo là dove, nella democrazia ateniese, prevaleva la retorica, dovrebbe essere la bandiera della nostra vittoria futura nella sfida della complessità di questo terzo millennio.
note
1 S. Rose, Il cervello del ventunesimo secolo, Torino, 2005, pp. 30-31.
2 Ivi, p. 31.
3 Ivi, p. 32.
4 V. Gallese, U. Morelli, Che cosa significa essere umani. Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente. Cortina, Milano. Ho recensito questo libro ne il manifesto del 26 giugno 2024.
5 G. Bateson, Teoria del gioco e della fantasia, in Id., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976, p. 222.
6 Ivi,pp; 274-275.
7 M. Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, cit., pp.291-292.
Immagine di copertina: EMILY MACK ART
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