La scomparsa di Sven-Göran Eriksson non ci coglie di sorpresa. Purtroppo, sapevamo che il maledetto tumore che lo ha colpito gli concedeva solo pochi mesi di vita. Eppure, il dolore non si attenua. Perché Eriksson era, al tempo stesso, un uomo mite e un condottiero determinato, un signore e un combattente tenacissimo, una persona leale come poche e uno che non si arrendeva mai. Possedeva la forza di coloro che sono in grado di apprezzare la meraviglia di ogni singolo giorno e ce l’ha trasmessa fino alla fine, spronandoci a essere felici e a sorridere perché l’esistenza è comunque un’avventura meravigliosa. Ci proveremo, caro Sven, ma non sarà facile. Innanzitutto, perché è difficile essere come te, avere le tue stesse risorse psicologiche e le tue stesse qualità morali. Poi perché i tempi sono profondamente cambiati, ahinoi in peggio. Infine, perché se ne stanno andando tutti i simboli di una stagione, neanche troppo lontana, nella quale, per l’ultima volta, ci siamo sentiti davvero protagonisti di qualcosa di importante.
Venticinque anni fa, ad esempio, la tua Lazio conquistava a Montecarlo l’unica Supercoppa europea della sua ultra-centenaria storia, battendo addirittura il Manchester United di Sir Alex Ferguson, reduce dalla tripletta dell’annata precedente e composto da campioni di livello planetario. La Lazio, tuttavia, non fu da meno, supportata dal talento dei suoi fuoriclasse, da Stanković a Verón, dal gol decisivo di Salas e da una difesa composta da personalità come Nesta e Mihajilović, ed è inutile star qui a ricordare quanto ci manchi il povero Sinisa.
Quella notte, laziali e non, ci sentimmo sul tetto del mondo, in un’Italia che in pochi mesi aveva visto il Parma di Malesani vincere la Coppa UEFA, la Lazio vincere l’ultima edizione della Coppa delle Coppe e adesso sempre la Lazio trionfare contro una corazzata che avrebbe continuato a egemonizzare il panorama calcistico globale negli anni a venire. Se ciò fu possibile, è perché eravamo davvero i numeri uno. E in una realtà che fino a quel momento non aveva vinto granché, allenava uno dei migliori tecnici in assoluto, a conferma del prestigio che avevamo acquisito come movimento calcistico nel corso dei decenni. Non entriamo nel merito degli scandali che hanno poi travolto Parma e Lazio: per quanto imprescindibili nell’analisi complessiva di quel periodo, non è questa la sede opportuna. Tornando a Eriksson, ci limitiamo a dire la verità: al di là del tifo, nelle tre stagioni e mezzo che ha trascorso alla guida dei biancocelesti, lo abbiamo amato profondamente. Per come faceva giocare la squadra, per i risultati che otteneva ma, più che mai per le qualità umane che incarnava. Non si scomponeva mai, neanche nei momenti più più duri, riuscendo, grazie a questa calma olimpica, a compiere una rimonta storica ai danni della Juve di Ancelotti che, nel 2000, consentì alla Lazio di conquistare il suo secondo scudetto. Come tutte le favole, anche quella del mite Sven nella Capitale ebbe la sua conclusione, a dire il vero infausta: una sconfitta per 2 a 1 contro il Napoli, cui fecero seguito le dimissioni di un uomo che aveva capito di non potersi occupare contemporaneamente di un club così importante e della Nazionale inglese, che lo aveva chiamato al suo capezzale dopo il clamoroso fallimento di Euro 2000.
Fu un addio gentile, senza patemi d’animo, senza fare drammi e caratterizzato da reciproca stima e amicizia. Non a caso, quando negli ultimi mesi ha deciso di congedarsi ricevendo l’abbraccio della gente che lo aveva applaudito per anni, ovunque sia stato, da Roma, sponda Lazio, a Genova, sponda Samp, passando per la panchina del Liverpool, su cui Klopp gli ha concesso l’onore di sedersi in occasione di un’amichevole, ha ricevuto autentiche ovazioni. Del resto, era impossibile non volergli bene, non condividerne la dolcezza, non rendersi conto di avere a che fare con un personaggio atipico in un calcio e in un mondo sempre più incattiviti. Lo salutiamo, dunque, con commozione ma senza lacrime. Sven, infatti, ci aveva esortato a sorridere e ad amare la vita, e noi non intendiamo tradirlo.
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