Mi assumo la responsabilità di una generalizzazione, come amava dire Paolo Fabbri [La svolta semiotica. Edizione accresciuta, La Nave di Teseo, 2023]. C’è una distinzione che ancora non viene sufficientemente colta, criticata, discussa, soprattutto nell’insegnamento universitario: la differenza tra apprendere e trattenere informazioni. A ciò si aggiunge la distinzione tra informazione e conoscenza, spesso trascurata. Percepisco una tendenza diffusa all’accumulo e alla trasmissione di informazioni, veicolate come catene di effetti. La conoscenza, invece, si sostiene e si diffonde attraverso una serena e implacabile esegesi del sé seguita dalla testimonianza educativa. È un processo che segue una logica differente, come si legge in un contributo recente di Ugo Morelli [Per un’educazione planetaria. Epistemologia, metodo e qualità istituzionale] e che nelle parole di Mauro Ceruti [Una nuova Paideia nel tempo della complessità], questo processo, viene espresso come imprescindibile per la nascita di una nuova Paideia:
L’ostacolo alla formulazione stessa dei problemi complessi del nostro tempo si annida proprio nel modo in cui la conoscenza è prodotta, organizzata e trasmessa. Continuano a essere separate conoscenze che dovrebbero essere interconnesse, perché interconnessi e non separabili sono i molteplici aspetti dei problemi da formulare e da affrontare. Si isolano singoli aspetti di un problema complesso, e si conferma l’illusione di poterli affrontare separatamente con semplici soluzioni tecniche. Le soluzioni cercate e proposte sono dunque il più delle volte, esse stesse, parte e causa del problema. I modi di pensare che utilizziamo per trovare soluzioni alle crisi, come ai problemi più gravi della nostra età globale, costituiscono, essi stessi, uno dei problemi più gravi che dobbiamo affrontare. Perché sono modi di pensare che frazionano ciò che nella realtà è intimamente connesso.
Di tutto questo, oggi, la testimonianza educativa può e deve tenerne conto; come ci ricorda Jerome S. Bruner, essa (la testimonianza) è un’attività creatrice caratterizzata dalle qualità (e dalle antinomie) della «mano sinistra» [Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, Armando, Roma, 1968], tra cui: passione e decoro, inquietudine conoscitiva, militanza educativa e dramma interiore. Inoltre, con Giovanni Maria Bertin, è opportuno ricordare che una relazione educativa non può costituirsi attraverso un rincorrere ad oltranza le spiegazioni dei fenomeni più recenti, né procedere attraverso continui aggiornamenti, ma deve emergere e rinnovarsi come una meta-narrazione, fondamentalmente inattuale:
L’idea pedagogica, in quanto tale, deve essere inattuale; altrimenti, non sarebbe un’idea, ma piuttosto una consuetudine, una prassi o un’ideologia. Inattuale nel senso nietzschiano, ossia nel senso che essa non coincide né deve coincidere (pur non necessariamente rifiutando o svalutando tali tendenze) con le motivazioni e le sollecitazioni prevalenti del presente, che emergono dai problemi urgenti e manifesti. In quanto idea, essa evidenzia le eventuali incongruenze, parzialità e unilateralità di tali tendenze, smontandone l’enfasi e denunciandone la retorica. Inoltre, essa valorizza, all’interno di esse o in contrapposizione ad esse, istanze alternative, misconosciute, represse, deformate o mistificate dall’attualità.
[G.M. Bertin, “Nietzsche: l’inattuale, idea pedagogica”, La Nuova Italia, Firenze, 1977, pp. 5-6]
Si tratta di una pedagogia che informa e arricchisce l’educazione con nuove interpretazioni e significati, orientandola verso una educazione che non sia più, o non solo, di carattere utilitaristico, ma prima di tutto disinteressata, finalizzata allo sviluppo integrale della persona, verso la consapevolezza di sé, e verso una rispondenza reciproca alle esigenze della comunicazione e della cooperazione sociale, nella partecipazione ai valori condivisi. Una educazione permanente in profondità [B. Suchodolski, Educazione permanente in profondità, Imprimitur, Padova, 2003].
Si tratta altresì di formare il soggetto affinché possa affrontare tutti gli eventi, gli accidenti della vita, le possibili sventure, le disgrazie, le angosce; di predisporre un meccanismo atto a garantire un certo tipo di sicurezza, di protezione, e non di forzare un sapere tecnico e professionale, legato a un certo tipo di attività. Questa formazione, o se preferite, con Michel Foucault, “questa armatura protettiva nei confronti del resto del mondo, nei confronti di tutti gli accidenti o di tutti gli eventi che potrebbero verificarsi” [M. Foucault, L’ermeneutica del sé, Feltrinelli, Milano, 2003, pp. 84-85], costituisce ciò che i greci hanno identificato col termine paraskeue, e che Seneca traduce con instructio. L’instructio non rappresenta la formazione in funzione di un fine professionale determinato, ma costituisce, piuttosto, l’armatura utilizzata dall’individuo per proteggersi di fronte agli eventi.
Un meccanismo di sicurezza, di protezione, intessuto da esseri umani che hanno cura della grana della propria voce, che coltivano la passione per le parole come elementi di potenza generativa che rendono unica la presenza nella relazione educativa. Voci che si impegnano attraverso parole che consentono ad educatrici e educatori, a studentesse e studenti, di rispondere “Sì” alla domanda: “Tra dieci anni, mi ricorderò di questa voce?”.
Ma quand’è che le parole hanno potenza generativa? Quando sono parole concrete. La ricerca di queste parole è complicata perché la cultura cosiddetta alta, in Occidente, si è mossa progressivamente verso un allontanamento dai corpi e soprattutto da quei corpi che vengono considerati gerarchicamente inferiori (ancora oggi), e tra questi i mestieranti, i braccianti, tutta l’umanità che non rappresenta l’intelletto. Se ne è occupato a lungo Norbert Elias [Il processo di civilizzazione, Il Mulino, Bologna 1982] che ha descritto in modo molto preciso l’uscita di scena del corpo nelle sue funzioni, dall’Umanesimo in poi, delineando come tale processo non sia solo relegato ad una minoranza di filosofi ma sia un fenomeno collettivo che pervade i ceti aristocratici in giù, fondando una cultura nuova dei corpi. Si assiste a progressivi scivolamenti verso l’astratto, parole astratte che hanno fatto nascere teorizzazioni distanti dalla concretezza di situazioni, dalla diversità delle esistenze, fino alla riduzione della complessità del vivente.
Avere parole concrete significa che le persone iniziano a maneggiare parole che si radicano nella loro quotidianità; parole che devono essere “aperte”, ossia non devono chiudersi in rigide definizioni. Parole aperte significa anche parole in grado di rischiarare significati, disponibili a fare tutt’uno con le parole erranti che cercano il meticciamento.
Tornando ancora sulla differenza tra apprendere e trattenere informazioni, ancora una volta è la nostra cara letteratura a fornirci una “simulazione” di cosa significa spingere alle estreme la ritenzione informativa. Funes El Memorioso di Jorge Luis Borges, come ricordano sia Umberto Eco che Giuseppe O. Longo, è destinato a ricordare tutto, senza sentire nulla; è destinato ad accumulare dettagli senza capacità di pensiero sistemico, di meccanismi di filtraggio che offrono l’opportunità di capire che cosa è utile custodire e che cosa no, che cosa è importante ricordare e salvaguardare per il tempo futuro e che cosa no. In questo senso, Funes è disadattato, incapace di comprendere gli eventi della sua vita: è condannato a citare informazioni. Ossia, è condannato a non svilupparsi integralmente ma a partecipare a salti attraverso i fenomeni della vita, procedendo per inerzia, di lampo in lampo, limitandosi a custodire una mole inutile di dati, «tutti i rami e i grappoli di un pergolato, la forma delle nuvole australi dell’alba del 30 aprile 1882, il tracciato della schiuma che un remo sollevò dal Rio Negro alla vigilia dell’impresa di Quebracho» [J.L. Borges, Finzioni, 1986, p. 25].
Verso la metà del racconto el memorioso afferma: «Ho più ricordi io da solo di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini da quando il mondo è mondo» (p. 103).
Il nuovo fenomeno che investe Funes può sembrare motivo di orgoglio; tuttavia, questa facoltà, può trasformarsi molto in fretta in una maledizione, fino ad essere schiacciati dal peso dei ricordi; ricordare tutto, infatti, significa essere costretti ad un disallineamento temporale permanente: Funes interagisce nel tempo presente solo cognitivamente, di dettaglio in dettaglio, senza mai essere in contatto con sé, con le proprie emozioni e con i propri sentimenti. Tant’è che, a distanza di tempo, quando intende ricordare un certo momento della sua vita, non può che portare alla luce dettagli di dettagli, e mai stati d’animo e risonanze interpersonali.
Questa condizione conduce Ireneo Funes all’isolamento e in seguito all’incomunicabilità. Sorte paradossale, visto che Funes, afferma Borges, «Aveva imparato l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes, non c’erano che dettagli, quasi immediati» (p. 105).
Si deve tentare, con tutte le energie a disposizione, di svincolare l’educazione dall’impasse in cui è precipitata, un’impasse come ‘morsa’ che da un lato intende l’educazione come mero atto intellettuale, dall’altro come poco più di un passatempo. In entrambi i casi si perde di lucidità, rigore e passione. È vero, in conclusione è fondamentale ricordare che, a macchia di leopardo, sono sempre presenti luci soffuse che fanno ben sperare; luci che non temono l’inattualità e la creatività, che quotidianamente ricercano nuove equilibrazioni nella relazione educativa, spartendosi potere e sapere con studentesse e studenti, generando insieme nuove condizioni nelle curve di enunciazione e visibilità. Luci soffuse che cercano di essere meno peregrine e più diffuse.
Immagine di copertina: Wassily Kandinsky, Yellow-Red-Blue, 1925
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