Antonio Polito,
Il costruttore. Le cinque lezioni di De Gasperi ai politici di oggi
Mondadori, 2024
Su De Gasperi hanno scritto Andreotti, Ballini, Craveri, Tognon e molti altri, oltre alla figlia Romana, in forma di libro e di articoli. Sono sempre vivi i Quaderni degasperiani per la storia dell’Italia contemporanea, arrivati al VII volume e curati dallo storico prof. Pier Luigi Ballini.
Per dire che ne avevamo abbastanza? No, tutt’altro. È vero infatti che, ciononostante, la figura di De Gasperi non è tuttora nota e valorizzata come meriterebbe. E che ne scriva un giornalista di fama accresce la possibilità che sia ora conosciuta da una fascia più larga di persone, che quel giornalista sono abituate a leggere sul Corriere e vedere in tv.
La storia della sua vita, in breve, la trovate nell’introduzione, meno di quaranta pagine. Nei capitoli successivi trovate l’esposizione e la discussione di cinque lezioni che Polito ricava dalla storia della sua vita.
La valorizzazione del politico De Gasperi è importante, e ne è importante la diffusione, per il contributo di idee e di scelte decisive che si sono affermate per suo merito e impulso. Che spiegano perché i cattolici sono stati quelli che abbiamo conosciuto nel dopoguerra; perché l’Italia distrutta è stata ricostruita… Perché si è progressivamente affermato il sogno pacifista di un’Europa dei popoli. Perché De Gasperi ha dato “lezioni di politica”, e infatti il volume di Polito si articola sugli insegnamenti che si possono ricavare dalla sua storia, dalle posizioni che ha sostenuto, dalle cose che ha scritto: cinque lezioni che riportano all’attualità gli insegnamenti dello statista, su temi che sono ancora vivi ai nostri giorni.
La prima lezione: il vero democratico è antifascista e anticomunista allo stesso tempo, è quella che oggi può apparire scontata. Non lo era allora. Oggi sappiamo che la democrazia è come un tavolo con più gambe. Si regge sull’elezione dei rappresentanti del popolo, ma anche sul tipo di governo, su livelli istituzionali plurali, sulla magistratura indipendente, sulla pluralità dei partiti, su spazi di autonomia della società civile, del mondo sindacale e dell’informazione, su principi fondamentali condivisi e non facilmente modificabili.
All’epoca di De Gasperi, che per antifascismo finì in carcere, i vecchi liberali erano propensi a tenere il popolo fuori dal governo, mentre i socialisti volevano superare la democrazia borghese. Mentre molti anche tra i cattolici pensavano che il fascismo fosse “un modo moderno di governare, con un capo supremo e un solo partito, senza tante complicazioni e troppe libertà”. È stata la lezione della Costituzione che ha fatto capire la differenza e l’importanza di una democrazia costituzionale, ma De Gasperi aveva già chiaro che il metodo democratico e la precisa definizione delle strutture della vita democratica avevano un’importanza fondamentale, così come fondamentale era operare perché l’Assemblea costituente fosse il più unitaria possibile.
Più attuale e anche più complessa la seconda lezione: la politica estera è sempre la chiave della politica interna. Condizionare, cioè, la politica interna alla politica estera, e non viceversa. Quali stati si considerano amici e quali in vari modi no, determina certo almeno nei fondamentali la propria politica interna, ma a sua volta quella decisione (la politica estera) nasce anche da proprie considerazioni di politica interna, dalla propria libertà di movimento e posizionamento, dalla misura in cui si è da altri condizionati e dalla misura in cui siamo in grado di condizionare altri. Ciò che Polito intende evidenziare qui è che fu De Gasperi a costruire la special relationship che avrebbe legato la Repubblica italiana agli Stati Uniti, a scegliere il campo occidentale mentre il mondo si divideva in blocchi, a inserire una nazione sconfitta come la nostra nel blocco del Patto atlantico. Evitare l’orbita russa ma non rompere con i comunisti. Decisioni da cui sono derivate poi scelte di politica interna, anche di carattere istituzionale, ed eventi in qualche misura decisivi, come gli aiuti alla ricostruzione.
Sarebbe però erroneo ritenere che in quelle decisioni si siano esaurite le sue scelte politiche fondamentali e le sue prese di posizione con effetto sulle Istituzioni. Occorrerebbe parlare anche della laicità dello Stato, della libertà religiosa, cose ben evidenziato nel libro. È bello scoprire oggi (per chi non lo sapeva) che ha combinato la scelta atlantica con il progetto di unificazione europea – a partire da “pane, carbone e soldi” – portandovi dentro, insieme ad altri due leader cattolici, Robert Schuman e Konrad Adenauer, la cultura dell’universalismo e del solidarismo cristiano.
Poi, eterno problema, contro la sinistra interna scelse la linea della responsabilità fiscale. Il rigore serve per la crescita, la crescita fornisce le risorse per le riforme sociali, così sintetizza Polito. Chi resiste oggi alla tentazione della spesa in deficit senza limiti?
Il Ministero della spesa chiesto da Fanfani non fu istituito. Ma si crearono importanti strumenti di intervento nell’economia: l’ENI che fu di Mattei, per istituire il monopolio pubblico delle fonti fossili, la Cassa per il Mezzogiorno che realizzò le prime strutture nel Sud. E, non ultimo, si distribuirono ai contadini un milione di ettari di terre non coltivate. Innovazioni come si vede di grande rilevanza.
La quinta lezione è quella maggiormente di attualità: il leader è forte se sono forti le istituzioni, non i partiti. Naturalmente si può obiettare che sono i partiti che forgiano le istituzioni, così come concorrono a determinare la politica nazionale, o più precisamente realizzano “il diritto dei cittadini di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49 Cost.). E quindi se i partiti non sono a loro volta forti c’è il rischio che le istituzioni siano “forgiate” per altre vie, da altre forze che non hanno la dignità e la visibilità del partito, più opache e sotterranee, qualche cosa come la P2, ad esempio. Ma il senso dell’espressione è proprio mettere in evidenza che le istituzioni rappresentano la legalità, la continuità, l’affidabilità, mentre i partiti operano in una fascia intermedia, tra la funzione pubblica e il libero agire privato.
Proprio perché De Gasperi credeva nelle istituzioni gli era chiaro che nella Costituzione italiana, stante l’incertezza su chi avrebbe governato, si era scelto di configurare un governo debole, il cui capo è semplicemente il presidente del Consiglio dei ministri, senza reali poteri di guida dell’attività di governo (ad esempio non può revocare il singolo ministro indisciplinato), se non quelli derivanti dalla propria autorevolezza, e quindi da quella del suo partito. Debolezza accentuata dal fatto che in un sistema elettorale proporzionale – quale era quello della prima fase della Repubblica – il singolo ministro rappresentava spesso altro partito della coalizione o altra corrente dello stesso partito del Presidente, e quindi una sua eventuale revoca poteva produrre una crisi di governo. Situazione profondamente diversa da quella attuale, in cui il governo è notevolmente rafforzato dal sistema elettorale prevalentemente maggioritario.
La nostra Costituzione nasce quindi con un problema di governabilità. E finisce con il produrre un sistema caratterizzato da istituzioni troppo deboli e partiti troppo forti, così come è stato in Italia per un lungo periodo; mentre oggi la situazione può dirsi ribaltata, partiti deboli e governo che, da debole, è diventato più forte per effetto del sistema elettorale prevalentemente maggioritario.
Non si sa se rafforzare il governo mediante il sistema elettorale era quello che De Gasperi voleva ottenere con la legge elettorale del 1953, che l’opposizione social-comunista bollò come «legge-truffa», paragonandola alla legge Acerbo del 1923. Personalmente egli aveva condotto il governo “con molto impegno e con molto autoritarismo”. Invano i partiti con cui collaborava gli ricordavano che egli non era Primo ministro, ma Presidente del Consiglio dei ministri.
È vero che pose la questione di fiducia sulla cosiddetta legge-truffa, ma forse «non aveva simpatia per un’iniziativa che ai suoi occhi era una scorciatoia per eludere problemi di fondo legati a un assetto costituzionale imperfetto».
Con i criteri della politica di oggi, sarebbe davvero impossibile accusare di «truffa» quel meccanismo elettorale, che prevedeva un sistema di apparentamenti con premio di maggioranza, una volta raggiunta la soglia del cinquanta per cento dei voti, cui avrebbe corrisposto il 65 per cento dei seggi. Come si sa, la battaglia campale per l’approvazione della legge fu vinta, ma la guerra fu persa perché per pochi voti la maggioranza assoluta non scattò.
Come vedete, siamo ancora oggi come allora alla ricerca di correggere quell’assetto costituzionale imperfetto, augurandoci di non produrre nell’attività riformatrice più danni che vantaggi.
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