Le luci della Convention democratica si sono appena spente, segnando l’inizio della campagna elettorale più cruciale nella carriera di Kamala Harris. Tuttavia, mentre la vicepresidente si prepara a questa sfida, deve affrontare anche le crescenti pressioni da parte degli attivisti pro-Palestina. Il movimento degli “uncommitted”, che ha raccolto migliaia di voti durante le primarie democratiche in segno di protesta contro la politica dell’amministrazione Biden verso Israele, ha espresso la propria frustrazione per non essere stato rappresentato sul palco della convention, nonostante i tentativi di dialogo con il team di Harris.
Durante le primarie democratiche in Michigan a febbraio, l’Uncommitted Movement aveva lanciato un chiaro avvertimento al presidente Joe Biden: “Imponi un embargo sulle armi contro Israele, o non voteremo per te.” Questo avvertimento avrebbe potuto compromettere la vittoria di Biden negli stati chiave del Midwest nelle prossime elezioni di novembre. Nei mesi successivi, il dissenso degli arabo-americani, studenti e altri democratici contrari alla guerra ha influito negativamente sui sondaggi del presidente, mettendo in dubbio il suo successo negli stati del “Blue Wall”.
Mentre il malcontento tra alcune fasce di elettori democratici cresceva, l’opinione pubblica nazionale si spaccava sempre più sulla questione israelo-palestinese. Un recente sondaggio Gallup ha rivelato che la maggior parte degli americani è contraria all’azione di Israele a Gaza, nonostante un aumento del sostegno a Israele negli ultimi mesi, dal 36 al 42 per cento. Tuttavia, il 48 per cento degli intervistati rimane fortemente critico. Questa divisione è particolarmente netta tra elettori democratici e repubblicani: il 76 per cento dei repubblicani approva l’azione di Israele, rispetto al 23 per cento dei democratici e al 34 per cento degli indipendenti. La spaccatura è evidente anche a livello generazionale, con la maggior parte degli anziani a favore di Israele, mentre gli under 35 sono in gran parte contrari.
L’amministrazione Biden ha mantenuto una politica di forte sostegno a Israele, compresa l’assistenza militare e la difesa del diritto di Israele di proteggersi. Tuttavia, rispetto al passato, c’è stata una maggiore enfasi sulla situazione umanitaria nella Striscia di Gaza, con tentativi timidi di mitigare l’impatto delle operazioni israeliane nell’area.
Gli attivisti pro-Palestina avevano sperato in una posizione diversa da parte di Kamala Harris, soprattutto riguardo all’embargo sulle armi a Israele. Questa speranza si basava sulle parole della vicepresidente durante un discorso a Selma, in occasione dell’anniversario delle Marce da Selma a Montgomery, quando Harris aveva posto l’accento sulla crisi umanitaria a Gaza, descrivendo scene devastanti di famiglie ridotte a mangiare foglie, neonati malnutriti e bambini che muoiono per fame e disidratazione.
Ciò che vediamo ogni giorno a Gaza è devastante,
aveva dichiarato, aggiungendo che il governo israeliano doveva fare di più per garantire il flusso di aiuti umanitari, senza scuse.
Nonostante queste parole forti, Harris aveva ribadito il sostegno incondizionato degli Stati Uniti a Israele, dichiarando che il diritto di Israele a difendersi è incontestabile, così come l’impegno dell’amministrazione Biden alla sicurezza israeliana.
Hamas non può controllare Gaza e la minaccia che rappresenta per Israele deve essere eliminata,
ha sottolineato la vicepresidente, definendo Hamas una brutale organizzazione terroristica.
Sebbene Harris non abbia criticato apertamente le scelte di Biden o di Israele a Gaza, ha sottolineato la gravità della sofferenza umana tra i palestinesi, affermando che una soluzione a due stati deve garantire ai palestinesi il diritto alla libertà, alla dignità e all’autodeterminazione.
Una linea ribadita la sera della Convention, quando Harris ha dichiarato che “sosterrà sempre il diritto di Israele a difendersi e farò sempre in modo che Israele abbia la capacità di farlo”, pur riconoscendo i diritti e le sofferenze dei palestinesi.
Tuttavia, le speranze degli attivisti erano già state deluse quando, pochi giorni fa, la campagna elettorale di Harris aveva ribadito la sua posizione sull’embargo, attraverso una dichiarazione del consigliere per la sicurezza nazionale, Philip Gordon, figura chiave nelle dinamiche della politica estera dell’amministrazione Biden.
Per molti attivisti, questa presa di posizione ha rappresentato una doccia fredda, confermando che, nonostante le pressioni, la linea di Harris non si discosterà da quella tradizionale del Partito Democratico, almeno per ora.
Ma chi è Philip Gordon?
La vicepresidente Kamala Harris a Selma
Philip Gordon è attualmente assistente del Presidente e consigliere per la sicurezza nazionale della vicepresidente Kamala Harris, un ruolo simile a quello ricoperto da Jake Sullivan e Antony Blinken per l’allora vicepresidente Biden, durante l’amministrazione Obama. Oggi i due sono rispettivamente consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di Stato.
Con una carriera di rilievo nella politica estera, Gordon è un veterano della diplomazia americana. Democratico di lunga data, ha ricoperto importanti incarichi tra cui quello di direttore per gli Affari Europei presso il National Security Council sotto il presidente Bill Clinton, assistente segretario di Stato per gli Affari Europei ed Eurasiatici e assistente speciale del Presidente per il Medio Oriente durante l’amministrazione di Barack Obama.
In queste posizioni, ha contribuito a plasmare la politica statunitense in Medio Oriente, in particolare nell’ambito dell’accordo sul nucleare con l’Iran e della gestione della guerra civile siriana. Gordon ha inoltre una vasta esperienza nelle politiche mediorientali, avendo lavorato presso istituzioni di prestigio come il Council on Foreign Relations e la Brookings Institution.
Gordon è ben noto ai funzionari israeliani. Nel 2016, è stato coautore di un rapporto bipartisan su come riparare le relazioni tra Israele e gli Stati Uniti, dopo anni di tensioni che avevano portato a significative differenze di vedute su numerose politiche chiave.
Il diplomatico è anche un prolifico autore di articoli e saggi che hanno delineato molte delle linee guida della politica estera americana. Nel libro The Obamians. The Struggle Inside the White House to Redefine American Power (2012), i giornalisti James Mann e Jim Mann descrivono Gordon e tutta una generazione di democratici come delle persone ansiose di dimostrare che il loro partito non era un rifugio di pacifisti, ma comprendeva pienamente le questioni di sicurezza nazionale ed era disposto a usare la forza americana quando necessario.
Sul fronte della NATO e delle relazioni con la Russia, Gordon si è mosso nel solco del mainstream democratico. Nei primi anni 2000, ha sostenuto l’idea di un’integrazione della Russia nell’ordine internazionale, promuovendo il dialogo su temi come il contro-terrorismo e il controllo delle armi. Durante l’amministrazione Obama, ha appoggiato il “reset” delle relazioni con la Russia, credendo nella possibilità di una cooperazione su questioni cruciali come il disarmo nucleare e l’Afghanistan.
Tuttavia, con il tempo, e soprattutto dopo l’annessione della Crimea nel 2014 e l’intervento russo nell’Ucraina orientale, Gordon ha assunto una posizione più scettica. Nel gennaio 2018, ha co-firmato un rapporto del Council on Foreign Relations con il repubblicano Robert Blackwill, in cui si chiedeva a Washington di “imporre costi reali a Mosca” e di rafforzare le difese contro future minacce, sostenendo che la sfida geopolitica posta dalla Russia agli Stati Uniti fosse in crescita.
Per quanto riguarda la Cina, Gordon ha criticato l’approccio aggressivo dell’amministrazione Trump, esprimendo al contempo preoccupazione per il nazionalismo crescente di Pechino. In un articolo del 2020, Gordon ha delineato una strategia più equilibrata, suggerendo che gli Stati Uniti dovrebbero concentrarsi su quattro pilastri fondamentali: ricostruire la forza economica interna, rafforzare le alleanze regionali, competere strategicamente ed economicamente con la Cina, e allo stesso tempo cooperare su temi di interesse comune come la crescita economica globale e la prevenzione dei conflitti militari.
Gordon sottolinea che, sebbene sia necessario contenere l’espansionismo cinese e frenare le pratiche distorsive del mercato di Pechino, gli Stati Uniti devono anche cercare una cooperazione pragmatica con la Cina per promuovere obiettivi comuni e mantenere la stabilità globale.
L’approccio strategico di Gordon alla politica estera, evidente nelle sue posizioni sulla Cina, riflette un più ampio scetticismo sull’efficacia degli interventi militari. Questo punto di vista emerge chiaramente anche nei suoi scritti, dove critica le politiche interventiste degli Stati Uniti, in particolare in Medio Oriente.
Gordon offre una visione chiara e critica della politica estera statunitense in due dei suoi libri più significativi: Winning the Right War: The Path to Security for America and the World (2007) e Losing the Long Game: The False Promise of Regime Change in the Middle East (2020).
Nel suo libro del 2007, Gordon propone un cambio di paradigma nella politica estera americana, spostando l’attenzione dalla “guerra al terrorismo” a un approccio più articolato che comprenda la diplomazia, lo sviluppo e lo Stato di diritto. Critica l’approccio militaristico adottato dopo l’11 settembre, sottolineando come abbia prodotto effetti negativi, tra cui l’erosione delle libertà civili, l’alienazione degli alleati e un diffuso sentimento antiamericano.
Gordon sostiene che trattare il terrorismo come una guerra contro un nemico indistinto piuttosto che come un problema di sicurezza specifico ha portato a errori strategici, come l’invasione dell’Iraq, che ha distolto risorse da questioni più urgenti.
Secondo Gordon, gli Stati Uniti dovrebbero adottare una risposta più mirata al terrorismo, che faccia leva su intelligence, diplomazia e risoluzione dei problemi alla radice, piuttosto che su azioni militari globali. La sua strategia suggerisce un equilibrio tra sicurezza e protezione delle libertà civili, avvertendo che il sacrificio dei valori fondamentali potrebbe rafforzare gli estremisti.
Nel libro del 2020, Gordon analizza criticamente la politica degli Stati Uniti di regime change in Medio Oriente, evidenziandone i fallimenti e le conseguenze indesiderate.
Attraverso una revisione storica degli interventi in paesi come Iran, Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, Gordon dimostra come questi tentativi abbiano spesso portato a instabilità, guerre civili e la crescita di gruppi estremisti. La rimozione di regimi autoritari, invece di instaurare governi stabili e democratici, ha frequentemente generato vuoti di potere e conflitti settari.
Gordon critica l’illusione bipartisan che la rimozione di un dittatore porti automaticamente a esiti positivi, senza una pianificazione adeguata delle conseguenze. Conclude esortando la politica estera americana a una maggiore cautela, suggerendo di privilegiare la diplomazia, l’impegno economico e il sostegno agli attori locali piuttosto che l’intervento militare, riconoscendo i limiti del potere americano e la complessità del contesto mediorientale.
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