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L’idea di questa mia ricerca sul Fuori! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) nasce da anni di frequentazione con Angelo Pezzana a Torino. Il Fuori! non sarebbe esistito senza di lui, e per questo motivo le sette interviste sul Fuori!(inclusa questa, e poi quelle con Maurizio Gelatti, Vice Presidente della Fondazione Angelo Pezzana-Fuori!, Maurizio Cagliuso, archivista e bibliotecario della Fondazione Angelo Pezzana-Fuori!, e gli attivisti del Fuori!, Enzo Cucco, Anna Cuculo, Vera Fraboni e Riccardo Rosso), realizzate durante l’estate 2024 grazie a uno Scholarship Catalyst Program grant della Texas Tech University, sono da considerarsi come dedicate a lui, al suo lavoro e al suo metodo, nonché alla sua abilità di implementare cambiamenti nella società.
Ho incontrato Angelo Pezzana durante gli anni del liceo, quando avevo 17 anni circa e ho mantenuto con lui una lunga frequentazione che successivamente lo ha visto informato di molti dei miei progetti accademici. A Torino, Angelo Pezzana è stato una figura guida soprattutto per la mia generazione cresciuta qui tra gli anni ‘70 e ‘90, per tutti noi che eravamo portati a una ricerca letteraria o artistica e non volevamo inserirci nella vita imprenditoriale della città. Vedere Angelo Pezzana in azione, quando emergeva come figura carismatica dalla sua ascetica scrivania alla Libreria Luxemburg, dove mi riceveva per parlare sempre di tutto e discutere idee e progetti, da sempre ha consolidato in me un metodo di riflessione, ricerca e osservazione del mondo. Non penso di aver mai considerato Angelo Pezzana unicamente come attivista, ma soprattutto come un intellettuale che ha continuato a ricreare la sua immagine e ha comunicato rigore, disciplina e determinazione all’interno di ogni sua operazione pubblica.
Angelo Pezzana ha fondato il Fuori!, primo movimento gay italiano, nel 1971. Nel 1977 ha manifestato individualmente a Mosca per il regista sovietico Sergej Paradžanov, imprigionato perché omosessuale, creando un’operazione mediatica di impatto sulle modalità dell’attivismo spontaneo e individuale. A Torino è stato proprietario della Libreria Hellas (fondata nel 1963), poi della Libreria Luxemburg (dal 1975), dove sono passati i più noti intellettuali contemporanei, ad esempio James Baldwin, Allen Ginsberg, Fernanda Pivano e Gore Vidal. Angelo Pezzana iniziò a lavorare nel gruppo parlamentare radicale nelle elezioni del 1976. Nel 2001 ha fondato il quotidiano online Informazione corretta. Ha collaborato con il quotidiano Libero dal 2003 al 2010 come responsabile di Israele e del Medio Oriente. Nel 1988 è stato il fondatore, con Guido Accornero, del Salone Internazionale del Libro di Torino. Tutte queste esperienze sono confluite nella sua autobiografia Dentro & Fuori: Una autobiografia omosessuale (1996), seguita da Un omosessuale normale (2011). Ha fondato la Fondazione Sandro Penna-Fuori!, che dal 2024 è diventata la Fondazione Angelo Pezzana-Fuori!.
Grazie, Angelo, di questa intervista. Il tuo lavoro di attivista LGBT ha interessato tutti noi che siamo venuti in contatto con te nel corso degli anni a Torino, soprattutto negli ultimi anni Novanta. Ho scelto come argomenti principali per questa intervista il movimento del Fuori! e lo sviluppo dell’attivismo LGBT che tu hai iniziato e formato in Italia.
La rivista Fuori! aveva anche un obiettivo didattico all’interno di un sistema sociale come quello dell’Italia degli anni Settanta. In quale modo le esperienze di vita narrate nella rivista hanno dato una spinta verso la consapevolezza identitaria in Italia?
Noi avevamo adottato una tecnica, presa dalle nostre amiche femministe che si incontravano a fare un’autocoscienza comune. Ognuna raccontava la propria storia e noi abbiamo fatto riunioni dove non cercavamo ideologie ma di capire se la storia di quello che mi stava seduto vicino poteva avere qualcosa in comune con la mia, per cui facevamo autocoscienza. Potevamo anche citare i libri che uscivano negli anni Sessanta-Settanta, tutti impostati sul cambiamento che doveva avvenire riguardo a che cos’era la normalità, perché noi non eravamo neanche degni di essere chiamati “omosessuali” ma “anormali”, con tutti i termini negativi. Noi invece volevamo essere chiamati per quello che eravamo, cioè “omosessuali”, che non potevano dirlo apertamente perché in quegli anni gli omosessuali si nascondevano, chi più chi meno. Io, meno, perché tutto sommato fin dal 1963 quando ho cominciato a fare il libraio e avevo aperto questa piccola libreria nel centro di Torino che si chiamava Hellas, lavorando per conto mio, non dovevo rispondere a nessuno. Per me, il fatto di essere omosessuale non rappresentava più un blocco di fronte alla società o anche alle persone che mi conoscevano, perché rispondevano con un “Pezzana è omosessuale, lo sappiamo, ma per lui sembra una cosa normale”. In realtà, non era normale perché la normalità era ancora quella della famiglia eterosessuale e tutto quello che comportava l’eterosessualità come normalità.
In queste riunioni, quasi tutti quelli che partecipavano erano professori di scuola, non sempre categorie specifiche. Poteva esserci un industriale come anche un commesso di negozio. Le storie personali erano al centro dei nostri incontri. Una volta vennero due che avevano subito dichiarato, “Noi siamo due operai della FIAT”. Quello che parlava, più sveglio, non si sentiva a disagio. Entrambi dicevano, “Tutti i nomi di questi studiosi che avete citato finora, non ne abbiamo mai letto neanche uno. Poi, il mio compagno (qui chiamiamolo Mario, per facilitare) è molto timido e ha sempre timore che gli capiti qualcosa, quindi mi spiace ma non possiamo citare nessuno, dunque stiamo qua ad ascoltare. Ci interessa molto perché noi lavoriamo alla FIAT, un ambiente dove è difficile affrontare argomenti che non siano legati al lavoro che facciamo”.
È andata avanti un po’ così, poi un giorno sono arrivati, dicendo, “Noi abbiamo capito più o meno le cose che voi dite però adesso non ci servono più. Volevamo salutarvi perché intanto il nostro lavoro è duro quindi magari andiamo a fare una passeggiata invece che venire qui a discutere di noi stessi, però volevo raccontarvi quando a Mario è successa una cosa causata da me. Eravamo a Porta Nuova, nella stazione, che era anche un luogo dove noi andavamo per trovare l’amore di una sera”. Si diceva “battere”. Io e Mario eravamo una coppia quindi non andavamo lì per cercare sesso ma perché trovavamo magari altri nostri amici. Allora io a un certo punto dico a Mario, ‘Vai avanti perché ho una scarpa che si è slacciata, ho paura di pestarla e di cadere, vai, poi ti chiamo’. Io mi sono inginocchiato, ho fatto finta di aggiustarmi la scarpa, poi lo guardo e dico, ‘Mario’, lo chiamo, ‘Mario’. Lui si volta dopo qualche metro di distanza e gli ho urlato, ‘Cupiu!’” – Ogni regione italiana aveva un nome locale per definire l’omosessuale. A Torino c’era ‘cupio,’ però pronunciato alla piemontese, cupiu. – “Ecco, allora lui è rimasto lì, quel momento, non riusciva neanche a parlare. Poi, a un certo punto, mi alzo e vedo che lui viene verso di me, mi abbraccia e mi dice, ‘Mi hai salvato, dandomi del cupio davanti a tutti gli altri’. Naturalmente qualcuno rideva, un altro si toccava il gomito per dire, ‘Guarda quei due cosa dicono’. Però, ho trasformato quella parola in niente e da quel momento lui non ha più avuto paura di essere omosessuale anche nel mondo del lavoro. Da quel momento, invece di essere presi in giro, come poteva anche essere, siamo stati guardati come due persone coraggiose e abbiamo avuto un lavoro continuato, rispettato proprio dai nostri compagni lavoratori alla FIAT”. Questo per darti un esempio di cosa si svolgeva nelle nostre riunioni dove non c’erano le regole, ma c’era la sincerità di quello che stava avvenendo.
Quindi il suo compagno ha dato una spinta psicologica.
Nessuno psicologo, nessun medico, niente delle professioni tradizionali, ma la ricerca di trovare qualcosa che ci liberasse da un qualche cosa che non avevamo ancora capito che doveva essere di nostra proprietà.
Il movimento del Fuori! è stato sicuramente molto importante quando l’hai creato con il gruppo a te associato. Nel corso degli anni, il Fuori!ha creato un’idea di comunità di persone interessate a migliorare il tessuto sociale e culturale in Italia. In quale modo l’esistenza di una comunità e del Fuori! hanno portato a questa presa di coscienza identitaria?
Quando uno dice, “Noi omosessuali”, va detto che in generale ognuno viveva la propria vita in modo diverso ma avevamo dei momenti comuni, per cui se uno andava in treno e leggeva un libro con un titolo che poteva far capire di essere omosessuale, lo teneva con la copertina girata all’incontrario, insomma tutte cose che classificavano una solitudine invece che un interesse. Perché se uno legge un libro sui viaggi in Sud America e magari il vicino commenta, “Interessante questa cosa, posso dare un’occhiata?” “Prego, si immagini”; ecco, noi invece avevamo delle storie che imponevano la solitudine nel momento in cui tu le affrontavi e questa era una cosa che ci impediva di essere “normali”.
Invece, è stato un aiuto affrontare il cambiamento con dei comportamenti che dovevano essere quelli di tutti, per capire come dovevamo fare e rivoluzionare la società in generale attraverso non tanto azioni violente e rivoluzionarie. Dovevamo fare una rivoluzione anche quando abbiamo scelto il nome Fuori!. Ci eravamo chiesti cosa volesse dire la lettera R, perché le altre erano facili da spiegare, ma la R, cos’era? Abbiamo detto tutti che R era “Rivoluzione”, ma c’era rivoluzione e rivoluzione, e noi volevamo e avevamo bisogno di un cambiamento della società che fosse non violento e anche una modernizzazione. Volevamo essere noi stessi, come quelli che avevano capito che noi facevamo parte di un cambiamento, non solo nostro, ma anche quello delle donne e qui c’erano gli esempi delle femministe.
Poi, anche attraverso l’importanza del Partito Radicale, Marco Pannella aveva fatto capire che dovevamo cambiare tante tradizioni sbagliate. Noi potevamo inserirci esattamente allo stesso titolo di tutti gli altri, quindi non c’era più la divisione tra eterosessuali e omosessuali, ma persone che volevano vivere in una società più aperta. Questa è stata la chiave per cui noi ci siamo affiliati al Partito Radicale dopo due anni e di colpo ci siamo trovati ospiti di centinaia delle sue sedi dove potevamo agire. In quegli anni non c’erano tutte le cose che ci sono adesso ma noi andavamo avanti con i volantini, che poi distribuivamo. Era tutto un altro mondo ma lì eravamo insieme ad altri e questa è stata la presenza che ci ha poi portato a capire certe parole, tipo “famiglia”, a cui avevamo dato la responsabilità e la colpa di tanti dolori familiari. È chiaro che quando uno deve nascondere la propria sessualità, la situazione con la famiglia è sempre complicata, difficile. Noi eravamo arrivati a capire che bisognava riqualificare una parola, “normalità”, che non era più quella della sessualità di chi ci opprimeva, ma semplicemente era un termine da modernizzare. Questo ci è stato d’aiuto perché l’abbiamo fatto in maniera “normale”, dando così valore alla parola.
L’espressione idiomatica “coming out” e il termine “out” sono presi dagli Stati Uniti. Cosa ne pensi di questa influenza e di questa terminologia?
Infatti, questa è la nostra origine grammaticale che è stata la base della parola del nostro movimento. Fuori! nasce proprio dal “coming out” in modo che tu non sei più quello che soffre per te stesso in quanto non puoi essere “normale” e quindi continui a vivere una vita nascosta. Invece no, tu devi cambiare e in che modo? Quando abbiamo fatto il numero zero del Fuori!, uscito in mille copie prima di andare in edicola, avevamo preso come immagine la definizione di un prodotto qualunque che, rispetto agli altri, era migliore perché si capiva bene che era genuino, vero e buono. Abbiamo pensato che Fuori! voleva dire: esci dalle tenebre perché se tu ti nascondi non potrai mai far capire chi sei a tanti altri che invece magari potrebbero anche ascoltarti ed è questo che abbiamo poi scoperto che era vero. Allora questa è la cosa importantissima che ci ha aiutati, ma non per la R di “Rivoluzione”, ma cambiamento.
Adesso il Fuori!è diventato Fondazione Angelo Pezzana-Fuori! Il tuo attivismo, determinato, organizzato e con un focus così coraggioso ti coinvolge personalmente da sempre, portando a una commistione tra privato e pubblico. Quali sono stati i tuoi modelli nel creare il movimento, la rivista e scegliere le forme di attivismo come le manifestazioni individuali e spontanee che tu ed Enzo Francone avete portato a fruizione a Tehran (Enzo Francone a Tehran, 1979) e Mosca (tu, a Mosca, 1977; Enzo Francone a Mosca, 1980) con grande coraggio?
In una riunione che avevamo fatto a Manchester in Inghilterra, per dare una dimostrazione internazionale, non solo nazionale, di quello che si doveva fare per cambiare la storia, era venuta fuori la storia di Sergej Paradžanov, un regista russo-sovietico che era stato incarcerato e condannato alla prigione per diversi anni perché era omosessuale. Non aveva nulla contro il governo sovietico. Faceva dei film impostati addirittura quasi su un livello, non vorrei dire religioso, ma è difficile trovare una definizione; non erano ideologici, quindi non era un nemico. Semplicemente era uno che non rispettava gli obblighi che il Marxismo imponeva anche dal punto di vista di chi scriveva un libro o chi faceva il regista di un film. Allora questo era stato un esempio che avevamo portato per coinvolgere tutti i partecipanti, visto che eravamo già una quindicina di movimenti europei, a fare una manifestazione sulla Piazza Rossa per richiedere la fine della prigione di questo mite regista che non aveva nulla del rivoluzionario ma del “diverso”.
Abbiamo deciso di fare questa iniziativa. Io sono andato in un’agenzia turistica torinese del Partito Comunista perché naturalmente volevamo andare senza dover proclamare il motivo e anche per aggregarmi, se c’era un viaggio turistico e infatti mi sono iscritto. Ci aspettavamo che ognuno facesse la stessa cosa nel proprio paese, invece dopo aver visto quello che stava succedendo in maniera molto più approfondita, tutti, tranne me, hanno declinato dicendo, “Non posso, ho un impegno”, perché era brutto dire, “Ho paura di andarci perché magari finisco in Siberia”. Io, invece, avevo una situazione che mi permetteva di rischiare perché ero nel Gruppo Parlamentare Radicale di Marco Pannella e avevo alle mie spalle l’aiuto di un personaggio come lui che se per caso mi capitava qualcosa, sarebbe intervenuto in maniera molto forte.
Infatti andò così. Allora ero amico di un corrispondente del Corriere della Sera, Piero Ostellino e avevo telefonato per dirgli se mi poteva preparare degli indirizzi di altri corrispondenti disponibili ad essere intervistati da me, poi volevo anche andare a vedere come viveva Sakharov, uno studioso famosissimo, ma tenuto quasi in una semiprigione a casa propria.
Abbiamo parlato per quasi un’ora al telefono. A un certo punto lui mi ha detto, “Che errore ho fatto. Tutto quello che ci siamo detti è stato già registrato perché a Mosca c’è un palazzo dove tutti i corrispondenti stranieri sono obbligati ad avere il loro studio, la loro sala, la loro stanza per il proprio lavoro e tutto quello che noi diciamo, sentiamo, è stato già registrato e loro sanno già tutto quello che sta per arrivare”. E io ho detto, “Ormai ci sono e non posso fare assolutamente marcia indietro”. Parto con loro e avevo preso con me un asciugamano, e poi avevo preso anche una biro che non sembrasse un pennarello perché altrimenti me l’avrebbero sequestrato. Era una penna un po’ spessa per scrivere e avevo con me anche un asciugamano da viaggio. Arrivati a Mosca, tutti quelli del mio viaggio sono diretti al loro albergo, io sono stato trattenuto e e mi hanno persino spremuto il dentifricio per controllare se non contenesse qualcosa di esplosivo. Quando hanno visto che non avevo niente con me, mi hanno portato in albergo.
Non ho mai partecipato a questo viaggio turistico di una settimana ma intanto sono andato a trovare Sakharov anche se era molto complicato. Ho avuto comunque sempre una macchina con due guardie sovietiche, di quelle con il cappotto di pelle nera lungo, quasi fino ai piedi, che faceva solo paura guardarlo. Però sono rimasto fino a quando ho invitato i giornalisti stranieri, poi mi sono preparato per andare sulla Piazza Rossa perché il mio albergo era proprio lì. In quel momento sono sceso dalla mia camera con l’asciugamano, con la scritta “Basta con l’articolo 121”, in inglese. Mentre stavano per prendermi, per impedirmi di andare a fare la manifestazione, c’era una giornalista e fotografa americana e ha fatto scattare una foto. Quella è l’unica foto che siamo riusciti ad avere, che lei poi ha mandato al suo giornale, The New York Times e poi è uscita anche su altri giornali non sovietici.
Sono stato arrestato e portato in nel Palazzo della Lubjanka nel centro di Mosca, dove venivano condannati quelli interrogati. Era una stanza enorme: io ero seduto da una parte, poi c’era uno spazio, un tavolo lunghissimo, vicino a me una ragazza che avrà avuto vent’anni, che traduceva quello che mi dicevano. Quando mi ha visto, mi ha detto, sottovoce, “La ringrazio tanto, perché ho diversi amici che sono gay”, – perché usavamo già allora la parola gay – “per quello che lei sta facendo, la ringraziamo tutti tantissimo”. Dopodiché ci sono le domande. La prima, quella che più interessava loro, “Ci deve dare l’elenco di tutti gli omosessuali che avrà visto a Mosca da quando è qua”. “Io non ho conosciuto nessuno, l’unica persona che sono andato a trovare è questa figura meravigliosa di scienziato. Non conosco nessuno”. Poi mi hanno detto, “Lo sa che con l’azione che lei ha fatto non potrà mai più mettere piede nell’Unione Sovietica?”
Allora io lì ho tirato fuori un po’ il mio senso anche ironico di fronte a delle cose molto serie. Quando mi hanno detto, “Non potrà mai più mettere piede qua”, io ho risposto, “No, invece potrò venire ancora quando l’Unione Sovietica sarà veramente un paese Socialista”, dato che loro usavano il termine Socialista come Comunista. Ho detto, “Penso invece che tornerò”, ma non sono più tornato. Poi c’è stato un settimanale letterario che evidentemente poteva permettersi di dire anche delle cose che, se uno capiva bene il contenuto, avrebbe compreso cos’era successo in quel mio viaggio. Pur criticando tutto quello che ho fatto, a un certo punto attaccavano il Parlamento italiano, “Anche il Parlamento italiano si è scatenato contro di noi perché hanno detto che se il Presidente del Partito Radicale viene a sapere che può succedere qualche cosa a Angelo Pezzana, scatenerà tutto il Parlamento italiano contro l’Unione Sovietica”. Detto apertamente, come se fosse una difesa dell’Unione Sovietica, ma fra le righe ha fatto capire che l’Unione Sovietica, di fronte a un attacco forte e duro di Pannella, ha preferito mandarmi, spedirmi in Italia, e chiudere lì la questione, quindi mi è andata bene. Non ho mai rinfacciato a nessuno che sono andato da solo, perché avevo alle spalle un aiuto enorme che era quello di Pannella.
Secondo te, esiste ancora un tipo di attivismo di prima persona come quello al quale hai preso parte, oppure è stato sostituito da una “advocacy” basata, ad esempio, su contributi finanziari ad associazioni come HRC (Human Rights Campaign) negli Stati Uniti che credo in parte lavorino con avvocati e con la militanza?
Non vorrei essere troppo tranchant, ma credo che questo in Italia non si sia mai affermato, perché non c’erano gli stipendi, chiaramente se uno faceva parte di un movimento lo faceva perché ci credeva, ma senza avere come come obiettivo anche la parte economica.
In parte questo è avvenuto con l’UNAR (Ufficio Nazionale Anti-discriminazione Razziale), che finanziava un’associazione e struttura del governo italiano alla quale si poteva lasciare parte della proprietà e ricevere fondi. Equivaleva a dire che si veniva messi sotto controllo, ma venivano dati dei soldi in cambio. Questo credo che sia l’unico tentativo, ha funzionato ma con cinque o sei strutture. Hanno chiesto anche a noi e avevo rifiutato perché non mi sembrava logico.
Però, qualunque tipo di lavoro e soprattutto un movimento come quello che è stato il Fuori! deve rispondere a una esigenza di contenuti. Per questo, si può fare un archivio senza chiederci per chi lo facciamo e allora tutto è molto più confuso. In questo caso, credo che un archivio abbia un senso quando noi ci diamo una regola per come l’abbiamo strutturato. Quindi, se io faccio una tesi di laurea e stabilisco con il mio professore cosa possa essere, allora devo avere un archivio che produce e può essere aperto al pubblico in modo che uno studente abbia tutta l’assistenza possibile per completare una laurea. Un archivio deve fare capire la storia e quindi anche ad aiutare ad impostare una ricerca e le sue fonti. In ultima analisi, è un lavoro che richiede una professionalità e risponde alla domanda su come classificare i libri, che prima veniva fatto fino a qualche anno fa con il nome dell’autore e con il titolo e non interamente per soggetto. In realtà, questo non serviva a nessuno perché se voglio fare una tesi che abbia un contenuto specifico, questo soggetto devo richiederlo all’Archivio, o di Torino, Bologna o Roma, per verificare se ci sono materiali che riguardano quell’argomento. Facciamo un paragone. Come vivevano gli omosessuali sotto il Fascismo in Italia? Ecco, allora questo è un argomento. Se io invece questo argomento lo classifico come “Mario Rossi”, e poi con il titolo di un volume, poi non so individuare i libri che mi interessano per la mia tesi, risultando anche in anni perduti da parte di chi ha fatto questa ricerca e che non è mai stata usata da nessuno.
Noi abbiamo invece compreso che l’archivio deve essere basato sul contenuto e non su dei nomi o dei titoli che non servono a nulla. Abbiamo implementato questo dopo anni e anni di tentativi e lavoro, che ha dato un risultato ancora quasi del tutto da cambiare, da migliorare al 90%. Dobbiamo ancora realizzare questo cambiamento.
Un mese fa mi hanno chiesto se accettavo di fare la Fondazione Angelo Pezzana-Fuori!, cosa che non avevo mai fatto perché secondo la legge, fino a pochi anni fa, bisognava fare un versamento che quasi sempre era per centinaia di migliaia di euro. Naturalmente io non ho mai avuto somme del genere, ma il governo, in questi ultimi anni, ha stabilito che con 30.000 Euro si può fare una fondazione. Allora, però, deve esserci un responsabile che mette i suoi soldi e da lì nascono tutti i rapporti che ti aprono le possibilità di coinvolgere, ad esempio, le università, le banche, le grandi aziende che hanno nella loro dichiarazione, tutta una serie di prodotti; e allora per avere una buona immagine, mettono a disposizione ricerche e capitali. Però, richiedono anche dei momenti di attesa perché ci sono delle cose burocratiche indispensabili: non è che siano delle cose sbagliate, ma credo che dovremo avere ancora davanti a noi almeno qualche mese per poi rendere funzionale la Fondazione, affinché possa essere veramente operativa e dia risultati sia vera e che possa dare veramente a uno studente che sta in America, in Inghilterra, o da qualche altra parte degli strumenti per fare una tesi in una struttura che funziona. Quindi, questo è il futuro del significato della Fondazione.
Avrei preferito non lasciare il mio nome dietro a queste cose perché non mi sono mai sentito un condottiero: questa è una cosa che mi ha sempre dato fastidio. Ho sempre avuto amici con cui ho collaborato o discusso, ma sempre in situazioni amicali. Adesso avere qualcosa col mio nome mi lascia un po’ preoccupato perché le fondazioni di una volta, che conoscevo da un punto di vista solo di informazione, mi sembravano solo dedicate a personaggi della politica o del sindacato, e non mi coinvolgevano.
Cosa pensi dell’insuccesso del decreto legislativo Zan, approvato prima dalla Camera nel 2020 e poi bocciato dal Senato nel 2021?
Una premessa è quella che quando al Senato è stata bocciata la legge che proponeva Zan, ci sono stati voti del governo ma anche da parte dell’opposizione perché altrimenti non avrebbe avuto la notorietà che ha avuto. Io non ero d’accordo, anche perché conteneva dei capitoli che andavano nella direzione di portare subito ad esempio bambini di due o tre anni che, se sorpresi dai familiari a giocare con le bambole – mentre invece c’erano delle bambine che giocavano al pallone – a cambiare sesso. Questa era la legge di questa figura. Non vorrei tirare fuori qualche nome un po’ esagerato come insulto ma credo che sia follia: mi fa venire in mente Judith Butler che ho seguito già da molti anni e ha fatto delle cose spaventose.
Però, Zan è andato ai confini a Gaza, dopo il massacro del 7 ottobre 2023, dicendo di portare la sua solidarietà verso Hamas e quindi contro Israele. Un politico che va dove gli omosessuali vengono buttati giù dal nono piano dei palazzi più alti e porta la massima solidarietà da parte di un omosessuale italiano, mi costringe a dire in maniera totale, dura, che non cambierò mai opinione. Il terrorismo non è una cosa che tu devi accettare, perché se tu accetti il terrorismo e lo vivi insieme come se fosse una posizione accettabile, quello che stai facendo è semplicemente la rovina di qualsiasi ideale. Ecco, quindi se da noi verrà qualcuno a dire, “Noi vogliamo essere solidali con i criminali”, io non lo accetterò, sarà scritto, e chi ragiona così non potrà far parte di questa nostra Fondazione.
Come pensi che questa organizzazione, la Fondazione Angelo Pezzana-Fuori!potrebbe contribuire a far passare delle leggi in favore dei diritti LGBT in Italia?
Credo che la strada giusta da percorrere sia quella nella quale non ci debba essere qualcuno di più o di meno. Quindi, le differenze non devono dipendere dalla sessualità. Con Renzi era passata la legge sulle unioni civili, non matrimonio, ma è una questione di parole, però se uno va a leggerla vede che ha molte similitudini con il matrimonio, che poi si chiami “unione” non è così grave. In realtà è stata una legge che ha creato l’accettazione delle famiglie anche di soli uomini o sole donne. E anche adesso il discorso è sui figli e chi non poteva averne. Quindi, c’erano le strutture dell’affidamento. A grandi linee, in molti paesi, inclusi gli Stati Uniti, ci sono donne che, legalmente, portano in grembo un figlio di un marito perché una moglie non può procreare. Tutto è fatto secondo la legge e non vedo una grande differenza se lo si fa senza sfruttare la povertà: questo sarebbe stato orribile e probabilmente avveniva.
Nei diritti essenziali, che differenza c’è tra un paese democratico e uno che non lo è?
Ti faccio un esempio molto attuale, con la guerra che Israele è costretta ad affrontare con Gaza. Un soldato è morto. Netanyahu ha visto che questo soldato ucciso era compagno ufficiale già riconosciuto con un altro che non era stato ancora chiamato a fare il militare a Gaza. Cosa ha fatto? È andato alla Knesset, il Parlamento, e ha chiesto di dare subito la definizione di vedovo al compagno X, di quello che era morto ucciso a Gaza, in modo che avesse tutte le garanzie di una vedova o un vedovo. La qualità di vedovo deve essere uguale non importa come siano composte le coppie. Israele è l’unico paese al mondo dove una coppia dello stesso sesso, nel caso uno dei due partner muoia in guerra, viene riconosciuto ufficiale l’essere vedovo o vedova.
Pensi che in Italia ci sia la possibilità in futuro di legislazioni pro-LGBT?
No, perché mi sembra una cosa che rende confuso l’essere LGBT, adesso noi diciamo così, con una una frase che ha avuto una parte importante per capire, parlare e scrivere, però certe volte non chiarisce. Cosa vuol dire LGBT?
Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender.
Certo, questo è giusto, ma che differenza c’è con chi invece è etero? Qui torna di nuovo la Judith Butler, che invece non dà più nessuna definizione, è tutta una cosa fluida, nel momento in cui le persone mettono su una famiglia.
Però leggo sempre ancora sulla fluidità, che secondo me porta alla confusione più totale perché non capisci più che cosa sei, cosa vuoi, tranne quando hai voglia di fare sesso e allora se ti piacciono gli uomini, se sei un uomo, sei gay; se sei una donna, ti piacciono le donne, sei lesbica. Questo era chiaro, adesso non lo è più, quindi viviamo in una situazione di confusione sessuale che non ci farà capire nulla per vivere meglio.
Allora, una legge che non è chiara, secondo me, è nefasta: il modo di ragionare di Judith Butler è quello di non avere più nulla di chiaro, a partire dalla grammatica, incluso lo schwa. Tutte queste cretinate hanno talmente confuso tutto che il problema non solo non verrà mai risolto, ma non verrà mai capito nella sua essenza. Per esempio, qualche mese fa ho cambiato la serratura della nostra sede, perché non è vero che tutti possono venire lì e sono magari per andare a Gaza a portare tutta la solidarietà a un gruppo di terroristi che stanno facendo delle cose mostruose come il 7 ottobre.
Però, in tutto il mondo non succede niente, mentre invece se c’è di mezzo Israele allora lì scoppia la “bomba”. Mentre invece sono circa due anni che Putin sta torturando un paese come l’Ucraina, eppure qualcuno si lamenta? Però se c’è di mezzo Israele, allora le colpe sono tutte di Israele. Prima o poi viene fuori questa cosa, anche se uno non la vuole tirar fuori.
Pensi che questa legislazione pro-LGBT in Italia avverrà?
Ma io non voglio una legislazione in favore di qualcuno. Noi dobbiamo avere una legislazione uguale per tutti, che è diverso.
Questo è importante.
Questo mi è venuto fuori bene perché è proprio quello in cui credo.
Angelo, ti ringrazio per questa intervista e voglio che tu sappia che c’è riconoscenza per il tuo attivismo e per come hai dedicato la tua vita al miglioramento della società.
Sei molto gentile, ti ringrazio, mi fa piacere che tu me lo dica perché so che sei una persona concreta. Però siamo in un momento in cui, se tutto è fluido, è ovvio che nessuno capirà più niente.
Crediti fotografici © Per gentile concessione dell’Archivio della Fondazione Angelo Pezzana-Fuori!
Immagine di copertina: Angelo Pezzana, 2024 © Fin Serck–Hanssen
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