Non si può capire Nicolò Carosio, scomparso a Milano quarant’anni fa, se non lo si colloca nel suo tempo. Vale per chiunque, ma per lui in maniera particolare. Carosio, infatti, è stato il cantore della Nazionale del Duce, la fortissima compagine guidata in panchina da Vittorio Pozzo che fra il ’34 e il ’38 conquistò due Mondiali consecutivi e il titolo olimpico a Berlino nel ’36. Anni epici, dunque, ma purtroppo non scindibili dal contorno propagandistico che li caratterizzava. E Carosio questo stigma se l’è portato dietro per tutta la vita. Essere il cantore dell’Italia fascista, il narratore delle gesta degli atleti con il braccio alzato, dei campioni ricevuti a Palazzo Venezia, degli idoli legati a una stagione di discriminazione e violenza lo ha reso, infatti, un personaggio iconico ma sempre con qualche riserva. Eppure, straordinario lo era davvero. Lo caratterizzava, difatti, uno stile inconfondibile, una modalità narrativa oggi impensabile, una prosa colta, forbita ma non priva di ironia. Basti pensare alla descrizione che compì dell’impresa dell’Inter di Herrera all’Avellaneda di Buenos Aires, quando i nerazzurri dovettero affrontare l’Independiente in uno stadio trasformato in una bolgia e il nostro divenne l’aedo di un’impresa ai limiti dell’epica. E con tono epico, in effetti, descrisse le gesta dei vari Burgnich e Facchetti, come se parlasse in terzine dantesche, mescolando un tono omerico a una competenza fuori dal comune. Mai più ascoltata una voce così calda e avvolgente, evidentemente figlia della radio, dell’epoca senza immagini, di un periodo non commendevole ma caratterizzato da un tratto mitico, almeno nello sport, che non può essere disprezzato.
Non a caso, Nando Martellini, che di Carosio fu il degno successore, dal maestro apprese la tecnica di accompagnare i giocatori nelle azioni più importanti: su tutti ricordiamo il commento al gol di Riva nei supplementari di Italia – Germania 4 a 3. Quella partita l’avrebbe dovuta raccontare proprio Carosio, ma così non fu e non ci va di star qui a rammentare, per l’ennesima volta, l’ingiustizia che subì durante la partita contro Israele, quando venne ingiustamente accusato di aver pronunciato frasi razziste ai danni del guardalinee etiope. Non è questa la sede per rievocare un episodio indegno, del quale il più grande narratore radiotelevisivo italiano del Novecento fu ingiustamente vittima. Piuttosto,riflettiamo su cosa abbia rappresentato lo stile di Carosio per l’Italietta fascista prima, per l’Italia della rinascita poi e infine per i figli del boom, che guidò simbolicamente verso la piena affermazione di se stessi, anche passando attraverso memorabili sconfitte come quella patita a Middlesbrough nel ’66 contro la Corea del Nord.
E pensare che tutto nacque da una fascinazione. Il nostro, infatti, si trovava in Inghilterra col padre, ispettore di dogana, quando scoprì che i radiocronisti della BBC commentavano le partite una volta concluse. Si disse che sarebbe stato meglio raccontarle in diretta e così si propose all’EIAR, narrando un derby Torino – Juventus immaginario e lasciando senza parole la commissione d’esame. Fu così che ebbe inizio una carriera lunga trentasette anni, nel corso della quale scampò miracolosamente alla tragedia del Grande Torino, non essendosi potuto recare a Lisbona per via della cresima del figlio. Trentasette anni, dicevamo, nel corso dei quali è passato da Piola e Meazza a Mazzola e Rivera, senza dimenticare il battesimo dell’avventura di Tutto il calcio minuto per minuto, i suoi neologismi, tuttora in voga, come “traversone”, figlio anche della necessità di italianizzare l’inglese “cross”, e infine il suo “quasi goal”, croce e delizia di un Paese che seguiva con trepidazione un’epopea alla quale, nonostante tutto, siamo ancora affezionati.
Carosio è stato, insomma, l’Omero dell’era moderna. Mai retorico, mai eccessivo, sempre misurato eppure in grado di condurti ovunque, accendendo la fantasia della generazione che ancora incollava le figurine con la Coccoina e seguiva alla radio i secondi tempi delle partite, giocate tutte alla stessa ora.
Qualcuno si è chiesto giustamente se uno come lui avrebbe potuto raccontare il calcio di oggi. La risposta è no, perché Carosio, per esprimersi, aveva bisogno di sognare a sua volta, di esaltarsi, di emozionarsi e di vivere in simbiosi con i calciatori e con il pubblico. Del resto, era una persona vera e in questa stagione di maschere arricchite non solo si sarebbe sentito a disagio ma, probabilmente, non avrebbe saputo cosa dire.
Quattro decenni, già, e anche noi abbiamo perso ogni speranza.
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