Quarant’anni di vita per un giornale non son pochi. Età adulta, maturità piena. E sono un bel risultato, tanto più se si pensa che quando La Nuova Venezia apparve in edicola la prima volta (1984) fu più che un flop, un vero e proprio naufragio nel mezzo della laguna più famosa al mondo. “Praticamente non vendeva, ma distribuiva mille copie istituzionali”, ricorda oggi parlando con ytali Paolo Ojetti, uno dei suoi direttori, anche del Mattino di Padova e della Tribuna di Treviso, dal 1985 al 1987.
Il debutto non soddisfece le trepide attese di gran parte della società veneziana, proprio perché chi ne attendeva l’uscita s’immaginava che la nuova testata dovesse scendere tra campi e campielli per sfidare il monopolio informativo del Gazzettino, ponendosi in diretta concorrenza e come sua decisa alternativa. Queste le premesse e anche le promesse, ma non vi fu né storia né partita. Anche se a fondare e a dirigere la nuova testata era stato chiamato un “mago del giornalismo” italiano, quel Lamberto Sechi che aveva legato il suo nome al rilancio e al successo del settimanale Panorama nel 1965, a tre anni dal suo esordio, dopo che il settimanale della Mondadori era stato fondato da Nantas Salvalaggio nel 1962.
In laguna, il quotidiano arrivava sei anni dopo il varo del Mattino a Padova (28 marzo 1978) e della Tribuna a Treviso (8 giugno 1978), giornali inizialmente con ambizioni e tendenze più nazionali che locali, le cui prime pagine sembravano omologarsi più a la Repubblica e ai giornali nazionali che alla capillarità informativa radicata dentro la società veneta e veneziana raccontata e plasmata dal Gazzettino stesso. Gli ambienti progressisti e progressivi guardavano allora con molta speranza alla novità editoriale lagunare, stanchi di un’informazione addomesticata in chiave di politica democristiana e di un tranquillizzante tran tran delle notizie di cronaca date dalla testata storica in città e in regione. Con La Nuova la boccata d’ossigeno non arrivò.
Sechi, notabile dell’informazione, nonostante abbia rivoluzionato quella settimanale con Panorama, e aristocratico per collocazione sociale e culturale, scelse di legarsi ad ambienti cittadini politicamente e culturalmente vetusti (per lo più di area repubblicana, il ministro delle Finanze Bruno Visentini, trevigiano di nascita ma veneziano d’adozione) e semi nobiliare, tra conti, contesse e salotti più o meno decaduti o decadenti ma conservativi, al bivio tra Italia Nostra e l’Unesco. Firma di punta di editoriali e riflessioni non a caso venne chiamato quel Sandro Meccoli (Corriere della Sera, Il Gazzettino) che ha legato il suo successo professionale alla Battaglia per Venezia, saggio SugarEdizioni pubblicato nel 1977 (prefazione dello stesso Visentini) a dieci anni dall’Aqua Granda del ’66, la marea che ha seppellito Venezia sotto 194 cm d’alluvione, dal quale poi la politica trasse spunto per varare la tanto discussa quanto controversa Legge Speciale per Venezia.
Non innovò Sechi l’informazione locale, ma s’adagiò sull’esistente. Dando vita a un Gazzettino in tono minore, una scimmiottatura malriuscita. Senza verve. Privo di carattere. Una scelta fatale per il neonato giornale, che per questo motivo, di fatto, mai è riuscito davvero a radicarsi sufficientemente in città e a decollare. Una partenza col piede sbagliato. Senza per altro nemmeno mai riuscire anche solo a impensierire il vecchio Gazzettino, persino sotto le sue direzioni migliori. Sechi durò in sella alla direzione appena nove mesi scarsi e toccò poi al successore, Paolo Ojetti, proveniente dalla direzione dell’Agl, l’Agenzia Giornali Locali del Gruppo L’Espresso, raddrizzare la barra, dando vita praticamente da subito a una azzardata quanto spericolata operazione giornalistica che portò alla caduta della giunta di centrosinistra, sindaco lagunare il socialista Nereo Laroni, braccio destro di Gianni De Michelis, già ministro di lungo corso, responsabili entrambi – secondo il quotidiano – d’una gestione opaca dell’amministrazione comunale, prossima al “malaffare”. La replica di De Michelis, sponsor e azionista principale della giunta Laroni, fu immediata: non esitò a querelare il direttore Ojetti, ma il ministro socialista perse la causa. Tuttavia con quella denuncia giornalistica La Nuova battè un colpo, passando dalle 1.200 copie giornaliere in edicola a poco oltre le 14mila da un giorno all’altro, a metà anni Ottanta.
Stiamo naturalmente rievocando gli esordi della testata in laguna e di alcuni anni appena successivi, che sollecitano questa ricostruzione storica visto che oggi vengono segnalati proprio da ytali alcuni successi in edicola grazie a iniziative editoriali extra o supplementari come Palude Venezia, dossier sugli “affari” del sindaco Brugnaro e della sua giunta in città, edizione che ha fatto registrare – come si può leggere sulla stessa rivista online
– tra un +47% di vendite del primo giorno e un +32 del secondo (mediamente viene dichiarata una tiratura di 6.389 copie – dati gennaio 2024 – per una vendita dichiarata di 4.500 copie quotidiane a Venezia e Mestre inclusa, Il Gazzettino ne vende 33.744 attualmente in tutta la regione, ma all’apice della sua stagione migliore – gli anni Settanta – ne faceva 30mila nel solo centro storico lagunare).
Di Venezia La Nuova non è mai stata di fatto una vera voce. Una sua espressione. Se non in alcuni passaggi particolari nel corso della metà degli anni Ottanta, appunto. C’è chi dice che fu sbagliato l’approccio editoriale e territoriale, che si puntò troppo sulla centralità della “città vetrina”, già da allora per altro in progressivo calo di residenti, e che più di tanto non poteva dare e offrire in termini di sviluppo editoriale, anziché scommettere sul bacino di Mestre e della sua terraferma, già da allora in forte espansione, non solo residenziale ma anche produttiva e ben al di là del turismo poi sfociato nell’overtourism. Comunque più moderna e non legata al passato. Vero, falso? Così è andata e manca la controprova, naturalmente.
A Padova, quando nacque Il Mattino sei anni prima, andò invece ben diversamente. Anche perché il presupposto della nascita del nuovo quotidiano si basa sul fatto che il vecchio foglio regionale, Il Gazzettino, “non ce la fa più – analizza il professor Mario Isnenghi nel saggio La stampa quotidiana locale dal 1975 ad oggi incluso nel volume La stampa italiana nell’era della tv, a cura di V. Castronovo e N. Tranfaglia (Laterza, 1994) – a colonizzare da Venezia una città ricca e vivace come Padova, piena di soldi, di banche e con una università, dove non mancano idee nuove e giovani in ebollizione, che sfora le 50.000 unità”. Perciò a ogni città la sua testata, pensano gli ideatori ed editori del Mattino di Padova Giorgio Mondadori e Carlo Caracciolo. Così dopo uno scialbo abbrivio, nel 1978, sotto l’altrettanto scialba direzione di Nino Berruti, il primo direttore di Mattino e poi anche della Tribuna, per un anno e mezzo, dal 1978 al 1979, tocca a Giovanni Valentini, proveniente da la Repubblica, risollevare le sorti delle due edizioni di Padova e Treviso (allora La Nuova non era nemmeno lontanamente nei pensieri degli editori Caracciolo e Mondadori). Fortuna vuole che ad aiutare Valentini nell’impresa padovana di riequilibrio del quotidiano si sia presentato il “caso 7 aprile”, l’inchiesta giudiziaria del Pm Pietro Calogero sull’Autonomia operaia e il ventilato connubio, secondo l’accusa, nientemeno che con le Brigate Rosse, sotto la guida del professor Toni Negri, leader dell’extraparlamentare di sinistra Potere Operaio, titolare della prestigiosa cattedra di Dottrina dello Stato alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Padova, in combutta con una piccola schiera di altri suoi colleghi d’università, indicati come gli ispiratori teorici dell’estremismo studentesco in città e oltre.
Il “caso” giudiziario era allo stesso tempo locale, ma di rilevanza nazionale e persino estera, considerata la popolarità come docente di Negri in Francia (alla Sorbona) ma anche negli Stati Uniti in diverse università. A testimoniarne l’importanza della vicenda giudiziaria e, di conseguenza giornalistica, fu la presenza per lunghi mesi dei principali inviati delle maggiori testate nazionali in città. Del “caso” Valentini ne approfittò, ma seppe altresì anche dar voce, in quell’occasione, pure alla città in senso lato, sguinzagliando i suoi cronisti ovunque, dalla Procura della Repubblica alle università per resocontare le riunioni dei Consigli di facoltà, registrandone i comunicati, gli ordini del giorno, le prese di posizione pro o contro i docenti arrestati, dando voce a chiunque avesse qualcosa di sensato da comunicare, raccogliendo intorno a sé e alla testata i principali opinionisti, uomini di cultura, docenti universitari, scrittori, per dibattere sul fenomeno della violenza in città, della sua specificità veneta e del futuro di questa regione, il Veneto in transizione, in un gioco di rimandi che dava alla testata Il Mattino peso specifico, ruolo, efficacia per diventare megafono di notizie e di un’opinione diffusa. Macinando nel frattempo anche copie e risalendo la magra china inziale. Nella cronaca più spicciola, il direttore mobilitava anche i suoi cronisti a dar conto delle voci minori, la “città minuta”, trattando le esperienze che in genere stentavano ad arrivare sulle pagine di quotidiani come Il Gazzettino o Il Resto del Carlino, testata emiliano-bolognese con un’edizione d’alcune pagine dedicate a Padova. L’esempio più significativo quello della lotta del “Comitato Mura”, associazione di cittadini che si batteva da tempo, nell’indifferenza più assoluta dell’informazione locale e dell’opinione pubblica che non veniva adeguatamente informata, in favore della tutela monumentale dell’antico perimetro cittadino. Per mesi i responsabili del Comitato e i cittadini che vi aderivano vennero intervistati, raccontati nelle loro iniziative quotidiane di battaglia, diventando essi stessi al contempo “oggetto” e “soggetto” dell’informazione, narrandosi, riconoscendosi, venendo riconosciuti e in un leggersi vicendevolmente che provocò una duplicazione di contatti come si direbbe oggi, ma che allora erano copie di carta, spesse e tangibili. Una stagione davvero significativa.
Ma tornando a Venezia e alla Nuova, Ojetti chiosa:
Andò bene, nonostante Il Gazzettino avesse liquidato come direttore Gustavo Selva e gli fosse subentrato un galantuomo come Giorgio Lago. Con Lago avevamo frequenti incontri per evitare collisioni, spartire il territorio e perfino regalarci qualche notizia. In breve, portai la ‘sinistra’ in Laguna, con la benedizione di Gianni Pellicani, segretario regionale del Pci, anche se nel primo numero firmato da me avevo fatto una bella intervista a De Mita, segretario Dc di passaggio a Venezia. Napolitano presidente della Camera venne a omaggiarmi, ebbi buonissimi rapporti con la Marsilio di Cesare De Michelis (“Venezia vista dal cielo”, un inserto bellissimo) tramite Miranda Bergamo (moglie di Lauro Bergamo, direttore del Gazzettino nei primi sei anni dei Settanta, capoufficio stampa della casa editrice in laguna, ndr), con i migliori collaboratori del posto presi da Ca’ Foscari, e altri poli culturali della città. Ho fatto collaborare Hugo Pratt, Alberto Ongaro e Milo Manara. Coinvolsi le scuole, i gondolieri e Carlo Pucciarelli, mio vice, ‘occupò’ l’isoletta di Campalto con gli striscioni della Nuova e il Bucintoro della regata storica per trovare un sito ‘per i giochi dei bambini’.
Già, Giorgio Lago. Alla guida del Gazzettino dal 1984 al 1996, dodici anni nel corso dei quali il direttore dell’ancora primo quotidiano di Venezia e del Veneto realizza “l’invenzione del Nordest”, costruendone giornalisticamente con servizi, inchieste e reportage e, analiticamente, con studi, ricerche e opinioni l’immagine e il modello, oltreché il suo mito, quello della “locomotiva d’Italia, che tira”, lavora, produce, esporta. Attraverso anche la costruzione di pagine speciali, inserti e supplementi dedicati, affidati all’epoca alle cure di dati, analisi, documentazione e riflessioni del sociologo Ilvo Diamanti, il quale scrive nel frattempo anche per l’economico e finanziario Il Sole-24 Ore, interessato come non mai all’argomento, prima ancora di sbarcare come analista sulle pagine della Repubblica. Stagione giornalisticamente intensa e interessante. Perché non c’è, non esiste realtà senza la rappresentazione mediatica. Qualunque essa sia o si voglia.
Lago, originario di Castelfranco Veneto, al Gazzettino vi ha lavorato in tutto per 28 anni, dal 1968, una carriera tutta interna, dopo aver cominciato l’attività giornalistica nel 1963 all’età di 25 anni allo sport. Come direttore ha la briglia sciolta, dedica e pubblica pagine e servizi che guardavano molto al mondo delle imprese, rivolte con particolare attenzione alle Associazioni industriali provinciali e anche alle banche, all’interno delle quali si alterna per un decennio e più la pubblicazione di documenti, analisi, dati, letture inconsuete di questa composita, magmatica e turbolenta – sotto molteplici punti di vista – realtà economica e produttiva a carattere interregionale (Veneto, Trentino, Friuli Venezia Giulia con l’asse forte Vicenza, Padova, Treviso, via di fuga verso l’Est del Nord, Trieste).
L’effetto di questa guida giornalistica e della vivacità che ha iniettato anche nel corpo redazionale del Gazzettino li ha riassunti a suo tempo bene lo stesso Diamanti:
Abituata a lavorare e vivere nel silenzio e nella penombra, la società del Nord-Est si è ritrovata, a un certo punto, al centro della scena: scrutata e analizzata da tutte le prospettive, alla ricerca di vizi e soprattutto di virtù, caricata di aspettative e significati. E in questo modo si è trovata di fronte ad uno specchio deformante, che ha riprodotto ed enfatizzato tutti i particolari, tutte le tensioni. Ha scoperto così, essa stessa i suoi problemi. E li ha visti al grandangolo. Ingigantiti. Inoltre, entrare nel flusso dei mass-media significa divenire consapevoli, ancor più, delle interdipendenze con il mondo. Venire assorbiti dalla spirale della ‘globalizzazione’. Il che – conclude il sociologo – ha sicuramente generato ulteriore disorientamento sociale.
Già, un’operazione “di verità”.
Mettere problemi e panni sporchi in piazza, non nascondere la polvere sotto il tappeto. È stata una filosofia giornalistica, che ha pagato. In quella stagione, per Il Gazzettino, anche in termini di copie. Quando Lago lascia la testata veneta l’8 giugno 1996 (passerà poi a collaborare con le testate del gruppo concorrente in edicola, Mattino–Tribuna–Nuova Venezia e poi anche con la Repubblica) scrive nell’editoriale di commiato che
con il nostro giornale non abbiamo inventato il Nordest, ci abbiamo lavorato sopra a tempo pieno e in tempi non sospetti, questo sì. Siamo stati testimoni di un recupero innanzitutto culturale: né narcisismo (quanto siamo bravi) né subalternità (quanto siamo fessi). Né come eroi. Se come direttore ho avuto un ruolo politico, lo è stato da facchino del Nordest, intento a trasportare i materiali, identità, campanili, movimenti, febbre di autonomia, capitalismo sociale di mercato, l’ora et labora di chi ha imparato dalla fatica contadina che lavoro è anche ancestrale paura di perderlo.
Un manifesto. Una visione.
Ecco, esattamente quel che manca all’informazione odierna, locale, regionale o meno che sia. Un azzardo, una scommessa, un modo di vedere e interpretare la realtà, metterla a confronto, scandagliarla, indagarla per quel che è, senza filtri e prismi deformanti. Senza commenti preventivi. O pregiudiziali. Con una visione. Un’idea del mondo veneto. Dei principi da difendere, che si trasformino in lavoro giornalistico quotidiano per riflettersi in una società bisognosa di capire, oltre ai fatti generali, anche quelli del proprio piccolo orto. Oltre la notizia immediata, il gossip o l’approccio-effetto Grand Hotel che sta drammaticamente trasformando molti quotidiani nazionali dal passato autorevole, infarciti sempre più di interviste-civetta, main stream ma vuote, a personaggi del mondo della moda, dello spettacolo, delle arti, della cultura desiderosi d’apparire (la vera merce di scambio moderna), ma anche sempre più spesso a emeriti sconosciuti di cui ci si chiede: “Perché mai?”
La Nuova Venezia, come i suoi giornali fratelli o “gemelli”, proviene da un gruppo editoriale glorioso come quello de L’Espresso dell’editore Carlo Caracciolo che ha creato dal nulla con grande passione, specie del suo vero editor, il giornalista Mario Lenzi che li controllava tutti ogni giorno meticolosamente. All’apice dell’espansione s’è trattato di ben tredici testate locali, passate poi sotto il controllo della famiglia Elkann-Agnelli dopo che Carlo De Benedetti lasciò il controllo di Repubblica e dell’Espresso ai figli Rodolfo e Marco e quest’ultimi – poco appassionati e avezzi all’editoria – cedettero ai signori della Fiat-Fca-Stellantis-Ferrari per fare cassa e, lasciando i giornali nelle mani di manager, “modello Fiat”, senza scrupoli pronti a tagliare costi, personale, mezzi in nome della quadratura dei bilanci e del far tornare i conti senza investire un euro in più nell’informazione.
La domanda che resta da più di settant’anni inevasa è sempre la stessa: perché si vendono e si comprano i giornali? I giornali sono sempre stati una merce di scambio, politica ed economica, lo testimonia il fatto che si contano sulle dita di mezza mano gli editori puri che hanno operato in Italia in più di mezzo secolo, e che per la maggior parte le testate italiane sono sempre state ben salde nelle mani di gruppi economici con forti interessi extraeditoriali. Negli ultimi anni sull’altare dei conti che non tornano sono stati sacrificati decine e decine di posti di lavoro, si sono ridotti gli organici, le redazioni sono oggi ridotte all’osso con carichi di lavoro spesso insostenibili spalmati su più supporti, i redattori sono per lo più chiusi nelle loro stanze a lavorare informandosi o cercando le notizie al telefono o via internet senza mai mettere il naso fuori dalla porta, se non per addentare un panino alle due del pomeriggio, e perdendo contatto con la realtà, le fonti, gli umori della città che circolano all’aria aperta.
Eccola, sembrerebbe, la scommessa del nuovo Gruppo Nem, che da poco tempo ha acquisito la proprietà di sei testate venete e trivenete dalle mani degli Elkann, con il varo delle sue iniziative editoriali collaterali (Palude Venezia, tra tutte). Un buon segnale. Di inversione di tendenza. Un piccolo passo. Per il giornalismo innanzitutto, su cui è importante tornare a investire, sia in uomini sia in mezzi. Perché solo la qualità paga. Il resto è fuffa. Il pubblico dei lettori lo sa da tempo e per questo s’è allontanato progressivamente dai giornali, prigioniero dell’immediatezza stucchevole e ridondante di internet e della gran cassa dei social media. Ecco perché il recente buttarsi a capofitto degli editori sull’intelligenza artificiale è un artificio tutt’altro che intelligente. Un salto nel buio. Perché è solo un modo immediato per risparmiare sui costi di uomini e mezzi, senza produrre alcun valore aggiunto, che è quello vero dell’informazione radicata nei luoghi dove vive e tra la gente che la esprime.
Ora non ci resta che aspettare, trepidanti, le prossime mosse giornalistiche della Nuova Venezia, seguendole passo passo nel tentativo di ritrovare la fiducia perduta, dismessa o solo sospesa in un giornale che ha davanti a sé un futuro spianato… anche e non solo per riscattare sé stesso e l’antica nobiltà di una professione che da un po’ s’è andata smarrendo.
Immagine di copertina: Lampedusa, la rappresentazione di una barca di carta costruita in scala con la grandezza di un tradizionale vaporetto veneziano, opera di Vik Muniz, artista brasiliano ospite della 56esima Biennale di Arti Visive (2015), per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’immigrazione. La barca è attualmente visibile, attraccata al molo dell’isola della Certosa. Sul perché avesse scelto proprio una pagina della Nuova per ricoprire la sua opera, Muniz aveva risposto: “Volevamo un quotidiano italiano e veneziano. Vedendo la barca tutti i veneziani potranno ricordare la tragedia di Lampedusa, raccontata da una fonte che considerano autorevole; noi ci appoggiamo proprio a questa autorevolezza”. [da La Nuova di Venezia e Mestre, 23 dicembre 2016]
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