Non ha torto Giorgia Meloni quando mette l’accento sull’importanza dell’egemonia culturale (la sovrastruttura che arricchisce il dominio di un ceto politico, di un gruppo sugli altri), che la destra non avrebbe ancora raggiunto. Se per egemonia culturale si intende la produzione culturale, non vi è dubbio che vasta e risalente è la produzione culturale che può essere genericamente attribuita alla sinistra, molto più ampia di quella attribuibile alla cultura di destra.
Ma l’egemonia culturale non deriva necessariamente da questo tipo di produzione, è perfino dubbio che derivi essenzialmente da questo tipo di produzione. L’importanza che vi attribuisce Meloni nasce probabilmente da un sentimento di inferiorità intellettuale, certo non personale ma del ceto politico che rappresenta, per lo scarso ruolo nella società della cultura e delle arti, sofferto per molto tempo. E perfino dichiarato, con l’autodefinizione di underdog, chi parte sfavorito.
Senonché l’egemonia è anche e forse soprattutto prodotta da molto altro, e questa egemonia è ampiamente perseguita e pienamente esercitata, ormai diffusa, dalla destra al governo. Ed è per questo che va segnalata, commentata e ripudiata come espressione della peggiore destra.
Introdotta in parte con le norme penali, in gran parte con i progetti di revisione costituzionale, l’idea di società, di democrazia, della pari dignità delle persone sta pericolosamente cambiando.
Prendiamo ad esempio il ddl Sicurezza, che prende di mira e punisce con il carcere i sit-in in una pubblica strada, le forme di resistenza passiva nelle carceri e nei centri di permanenza per gli immigrati, e mette a serio rischio la libertà di manifestare pacificamente (ne hanno avuto un assaggio preventivo lo scorso febbraio gli studenti liceali di Pisa e Firenze). La cultura è quella di aumentare il numero dei reati, di aggravare le pene, disconoscere il possibile recupero di chi ha commesso un reato. La cultura di “chiudere la porta e buttare la chiave”, che va strenuamente combattuta anche quando emerge tra chi si dichiara di sinistra.
Ancor più significativa la proposta di riforma costituzionale che vuole introdurre il “premierato elettivo”. Un capo del governo eletto direttamente da tutti i cittadini che si recano alle urne e destinato a governare, anzi comandare da solo, garantito dalla maggioranza che lo ha eletto, soggiogando sotto di sé il Parlamento e ignorando il Presidente della Repubblica i cui poteri sarebbero ormai svuotati di contenuto. La cultura della concentrazione del potere, in una sola forza politica, in un solo organismo. Che il potere non potesse essere concentrato (si chiama dittatura) ma dovesse essere ripartito per proteggere anzitutto i diritti dei cittadini (e non sudditi), lo si è capito la prima volta nella Grecia classica, e poi lungo i secoli fino a Montesquieu, che lo teorizzò nel modo più simile alla forma attuale.
Per non parlare della riforma della Magistratura. Può essere condivisibile che la magistratura inquirente (i pubblici ministeri) e la magistratura giudicante (i giudici) seguano carriere separate e che il passaggio dall’una all’altra sia una possibilità limitata e controllata, da farsi una o al massimo due volte nella propria vita professionale, ma ora è già così con le norme vigenti, e infatti i passaggi dall’una all’altra sono diventati molto rari. Allora perché modificare la Costituzione, istituire un nuovo Consiglio superiore della magistratura inquirente, se non ve ne è più la necessità? Per perseguire il vero obiettivo: portare, piano piano (come direbbe Prodi), i pubblici ministeri sotto il potere di indirizzo del Governo, che non è proponibile neppure per uno stato autoritario per quanto riguarda i Giudici, ma che è in certa misura difendibile e molto gradito per quanto riguarda i pubblici ministeri, cui spetta iniziare l’azione penale, e quindi selezionare i tipi di reati da perseguire prioritariamente.
Che il tentativo di Meloni di far apprezzare la dittatura (o, se si vuole, uno stato autoritario, o meglio, per citare Orbàn, una democrazia autoritaria), di sottomettere i pubblici ministeri al governo, si traduca nel tentativo di modificare la cultura dominante fin qui (in Italia e in quasi tutta Europa), ci sembra chiaramente la ricerca di una nuova egemonia culturale.
Quindi la smetta Meloni di descriversi come “svantaggiata”, come quella che “ha ancora tanta strada da fare”, per raggiungere/soppiantare l’egemonia culturale della sinistra – che poi altro non è la cultura democratica di larga parte della società italiana. Che quella cultura deve difendere ogni giorno, in tutte le sedi, senza distrarsi, senza demordere.
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