Ieri il presidente Emmanuel Macron ha nominato Michel Barnier, ex negoziatore della Brexit per l’Unione Europea, come nuovo primo ministro. La nomina arriva dopo oltre cinquanta giorni di governo ad interim, seguiti a elezioni anticipate decise improvvisamente da Macron dopo la sconfitta alle elezioni europee. Le elezioni legislative avevano lasciato il parlamento francese in una situazione di stallo politico fino alla nomina di ieri.
Barnier, a 73 anni, diventa il primo ministro più anziano nella storia moderna francese, succedendo a Gabriel Attal, il più giovane a ricoprire questo incarico. Ora l’ex Mr Brexit dovrà affrontare sfide enormi. Deve lavorare con un parlamento profondamente diviso e completare il bilancio in tempi record, prima della scadenza costituzionale del primo ottobre. Dopodiché, dovrà presentarlo al voto in un’Assemblée Nationale nella quale non ha una maggioranza.
Il parlamento attuale è infatti frammentato tra la sinistra, l’estrema destra e la coalizione centrista di Macron. Barnier dovrà cercare di costruire alleanze temporanee per far passare le riforme.
La nomina di Barnier ha suscitato critiche da parte della sinistra, che ha visto la scelta di Barnier, esponente di Les Républicains, centrodestra come un colpo ai loro sostenitori. D’altra parte, alcuni membri del Rassemblement National (RN) hanno segnalato che potrebbero condizionatamente supportare Barnier, in particolare se adotterà una linea dura sull’immigrazione.
Nel frattempo La France Insoumise (LFI) ha chiamato a una manifestazione contro Macron per sabato 7 settembre. Hanno dato adesione anche gli Écologistes e il Parti communiste. Il Parti socialiste (PS) non ha dato adesione ufficiale.
Perché Macron ha nominato Michel Barnier? E quale sarà la maggioranza che lo sostiene? Bisogna considerare tre elementi innanzitutto: gli articoli 5, 8 e 49 della costituzione.
L’articolo 5 afferma che il presidente della repubblica deve garantire, attraverso il suo arbitrato, il regolare funzionamento dei poteri pubblici e la continuità dello stato. In base all’articolo 8 il presidente della repubblica nomina il primo ministro. L’articolo 49 consente ai deputati di far cadere un governo mediante il voto di una mozione di censura approvata a maggioranza assoluta.
Come ha ricordato il costituzionalista Dominique Rousseau:
Se si sommano questi elementi, Emmanuel Macron deve quindi assicurarsi che la persona che nomina non venga immediatamente rovesciata dal Parlamento, altrimenti non sarebbe garantito il rispetto dell’articolo 5. Dal punto di vista costituzionale, è logico che Emmanuel Macron si prenda il tempo per consultare tutte le parti interessate.
Il rispetto del principio del funzionamento dei poteri pubblici comporta che non ci devono essere sufficienti parlamentari in grado di approvare una mozione di censura nei confronti del governo che altrimenti cadrebbe immediatamente. Visto che la mozione di censura ha bisogno della maggioranza assoluta dei voti, il nuovo governo dovrebbe soddisfare questo criterio. Sulla base di questo principio infatti Macron ha rifiutato di dare l’incarico a Lucie Castets, la dirigente del comune di Parigi indicata dalla sinistra come candidata primo ministro, dopo settimane di veti e contro-veti.
Se c’è stato l’incarico a Barnier significa che il presidente ha qualche assicurazione sul fatto che non dovrebbero esserci numeri sufficienti per supportare una mozione di censura.
Vediamo quali potrebbero essere questi numeri.
Insieme i partiti della coalizione del presidente con LR, il partito di centrodestra di Barnier, arriverebbero a 213 seggi, lontani dai 289 della maggioranza assoluta. Anche aggiungendoci i ventidue indipendenti arriverebbero a 235, sempre lontani. Per avere garanzie che il governo non cada bisogna che o il PS non partecipi a mozioni di censura o che RN di Le Pen non lo faccia.
I socialisti hanno già detto che voteranno la mozione di censura. Anche in caso di una rottura del gruppo che non sembra al momento essere all’orizzonte, servirebbero almeno due terzi del gruppo socialista in dissenso rispetto alla linea del partito. Difficile. In compenso il RN di Le Pen ha dichiarato che valuterà il discorso di Barnier e deciderà successivamente se sostenere la mozione di censura o meno.
Al momento sembra quindi logico pensare che la candidatura di Barnier sia stata avanzata perché qualche assicurazione deve essere intervenuta dal RN. Le dichiarazioni di PS e RN sembrerebbero andare in questa direzione. Non si spiegherebbe altrimenti l’incarico a Barnier, anche in nome della stabilità prevista dall’articolo 5 (e quindi il non essere oggetto di una mozione di censura).
Sottolineiamo che, se dovesse concretizzarsi un accordo di questo tipo, non significherebbe formalmente l’ingresso di membri del Rassemblement National nel governo. Tuttavia, tale accordo contribuirebbe comunque a legittimare ulteriormente il RN come forza politica di governo. Prima di addentrarci nelle implicazioni politiche di questa situazione, è importante esaminare la questione della nomina.
Nonostante le accuse di comportamenti anti-costituzionali – rilanciate in Italia da Giorgio Cremaschi sul Fatto Quotidiano, dove il presidente francese è stato accusato di attuare un “golpe bianco” – Emmanuel Macron ha seguito la procedura prevista. Questa scelta è avvenuta nonostante la situazione politica inedita e le critiche ricevute.
Come detto, l’articolo 8 della Costituzione francese stabilisce che “il presidente della repubblica nomina il primo ministro”. In base a questo articolo, non esistono vincoli legali specifici che limitano il presidente nella scelta del primo ministro. Teoricamente, il presidente potrebbe decidere di escludere determinati candidati se lo desiderasse. Tuttavia, nella pratica, questa possibilità non si è mai concretizzata. Generalmente, il presidente nomina la persona indicata dal partito che ha ottenuto la maggioranza alle elezioni.
Di conseguenza, l’idea che il presidente possa non aver agito in modo rispettoso della prassi istituzionale – come nel caso della mancata nomina di Lucie Castets – si basa sul fatto che, tradizionalmente, la scelta del primo ministro riflette l’indicazione del partito di maggioranza. La decisione di non seguire questa consuetudine potrebbe quindi essere stata vista come una deviazione dalle norme non scritte che regolano la prassi politica francese.
Con queste ultime elezioni, si è però verificata una situazione senza precedenti: nessun partito ha ottenuto la maggioranza assoluta. Sebbene non sia la prima volta che accade, in passato le circostanze erano diverse. Quando si era verificata una situazione simile, la distanza in termini di voti tra la maggioranza assoluta e la maggioranza relativa era talmente ridotta che l’impegno “benevolo” da parte dei partiti dell’opposizione a non sostenere una mozione di censura nei confronti del governo era generalmente sufficiente a garantire la stabilità dell’esecutivo.
Gli stessi ultimi governi dell’area macroniana non hanno mai avuto la maggioranza assoluta, mancando una quarantina di seggi per raggiungere i 289 necessari. In questi due anni, la maggioranza relativa ha governato con l’impegno dell’opposizione di centrodestra, Les Républicains, a non sostenere mozioni di censura. Questo ha portato la maggioranza a modificare alcuni dossier secondo le richieste di LR o a evitare di affrontare certi temi, a volte anche rinunciando ad approvare leggi su questioni non considerate fondamentali da LR.
Anche se la coalizione di sinistra ha cercato di sostenere che, essendo la forza maggioritaria, Macron avesse il dovere di affidare l’incarico alla candidata proposta dalla sinistra, si è trattato più di una manovra politica che di un reale tentativo di risolvere la crisi in cui Macron – il presidente stesso – ha condotto il paese. Alcuni costituzionalisti hanno osservato che il presidente avrebbe potuto dare alla sinistra la possibilità di formare un governo, con l’idea che, in caso di mancato sostegno, la sinistra avrebbe dovuto riconoscere la situazione e adattarsi. Tuttavia, è vero che la necessità di preparare la legge di bilancio non permetteva di sperimentare soluzioni politiche non collaudate in un momento così delicato.
La coalizione che ha ottenuto il maggior numero di seggi alle elezioni, il Nuovo Fronte Popolare, ha conquistato 193 seggi. Per raggiungere la maggioranza assoluta di 289 seggi, le sarebbe stato necessario quasi un centinaio di deputati in più. Di conseguenza, non si trattava semplicemente di ottenere un impegno benevolo a non sostenere mozioni di sfiducia, ma di una situazione che richiedeva un accordo politico molto più ampio.
E gli accordi di coalizione possono conferire ai partiti che hanno ottenuto risultati meno favorevoli una posizione di forza, soprattutto se altri partiti necessitano dei loro numeri per ottenere una maggioranza. In Italia sappiamo che i voti si contano e si pesano.
Il Nuovo Fronte Popolare ha rivendicato il diritto di indicare il primo ministro, fino alla scelta finale di Lucie Castets. Parallelamente alla candidatura di Castets, le trattative sono iniziate con il presupposto che il programma del NFP dovesse essere accettato integralmente. Questa strategia negoziale avrebbe potuto funzionare se, nel tempo, fossero stati aperti dei canali di discussione sui temi proposti. Tuttavia, era arduo chiedere alla maggioranza macroniana di sostenere un governo che prevedeva l’abolizione di misure fondamentali degli anni precedenti, come la riforma delle pensioni, e di non sostenere mozioni di censura contro di esso.
La sinistra si è dunque arroccata su posizioni intransigenti, nonostante non avesse i numeri sufficienti per permettersi tale rigidità. Sebbene rivendicasse giustamente che il risultato delle elezioni legislative fosse stato il frutto del fronte repubblicano – ovvero del sostegno reciproco tra l’area macroniana e la sinistra al secondo turno per contrastare l’estrema destra del RN – questo risultato è stato complessivamente favorevole a tutte le forze del fronte repubblicano.
Infatti, mentre l’area Macron ha perso numerosi deputati e subito una sconfitta bruciante in termini numerici, ha comunque mantenuto un peso politico cruciale per la formazione del governo. Questo esito non è stato frutto di un calcolo strategico da parte di Macron, come alcuni in Italia potrebbero erroneamente attribuire a poteri quasi divinatori, ma è piuttosto il risultato di una serie di eventi politici complessi e interconnessi.
Da cosa deriva questo arroccamento della sinistra? In parte, è il risultato delle posizioni radicali di Jean-Luc Mélenchon e di La France Insoumise. Con le elezioni presidenziali del 2027 all’orizzonte, Mélenchon non ha mai nascosto la sua intenzione di tentare nuovamente la corsa alla presidenza. La sua strategia di radicalizzazione dello scontro politico gli consente di mantenere una posizione di forza sia rispetto agli altri partiti di sinistra, che si trovano costretti a seguirlo, sia all’interno del dibattito interno a LFI. Nel contesto attuale, poi, il PS ha vissuto gravi turbolenze interne nelle ultime settimane. Queste difficoltà sono ora evidenti anche sui social media, dove comunicati e dichiarazioni di esponenti critici del segretario socialista Olivier Faure mettono in luce le divisioni e le fratture all’interno del partito.
Non avendo ottenuto alcun impegno benevolo da parte dei partiti per evitare di sostenere mozioni di censura contro un governo NFP – e considerando che sarebbe stato difficile chiedere a chi ha realizzato la riforma delle pensioni di accettare passivamente la sua abolizione – il presidente ha esplorato la possibilità di soluzioni alternative in grado di garantire stabilità. Queste soluzioni mirano a resistere a eventuali mozioni di censura senza necessariamente richiedere la formazione di una maggioranza parlamentare fissa o di un governo di coalizione.
Macron ha quindi testato l’ipotesi Bernard Cazeneuve, ex primo ministro socialista di Hollande ed ex ministro dell’interno. Si trattava di un’ipotesi che puntava probabilmente a rompere il NFP, visto che Cazeneuve è noto per essere un durissimo avversario di Melenchon e della sinistra a trazione France Insoumise. Anche se nulla avrebbe impedito a LFI di sostenere un possibile governo Cazenueve, sostenuto o con ministri che vanno dai socialisti al centrodestra repubblicano. Si sarebbe probabilmente aperta una trattativa sui temi. In ogni caso è accaduto che i socialisti si sono divisi, mentre LFI ha respinto l’ipotesi Cazeneuve identificandolo con la presidenza Hollande, che per la sinistra radicale è stata la fase peggiore della storia della sinistra francese. Una volta detto no a Cazeneuve, l’altra possibilità era quello di un primo ministro tecnico. Macron ha proposto quindi Thierry Beaudet, il presidente del Conseil économique, social et environnemental. Senza successo.
L’alternativa a un primo ministro tecnico o a un primo ministro di centrosinistra era quella di raccogliere il benevolo disimpegno alla mozioni di censura dell’estrema destra, probabilmente quel che accadrà, salvo sorprese.
Se il Rassemblement National dichiarasse di non voler votare la mozione di censura che la sinistra presenterà contro il governo, la nuova coalizione guidata da Michel Barnier si troverebbe a dipendere indirettamente dal sostegno del RN per superare le mozioni di censura. Questo scenario potrebbe avere ampie ripercussioni politiche. Da un lato, rafforzerebbe la narrativa secondo cui il governo, pur dichiarandosi distante dall’estrema destra, finirebbe per trarre vantaggio dal suo mancato sostegno a iniziative dell’opposizione. Dall’altro, ciò potrebbe alienare parte dell’elettorato moderato, che vedrebbe con sospetto un’eventuale “complicità” con il RN. Inoltre, l’opposizione potrebbe sfruttare questa situazione per mettere in discussione la coerenza e l’indipendenza del governo, acuendo le tensioni politiche e rafforzando i toni dello scontro parlamentare.
Per Marine Le Pen, questo scenario rappresenterebbe una forma di normalizzazione politica, come abbiamo già osservato. Se il Rassemblement National venisse percepito come un partito di cui il governo, anche indirettamente, può beneficiare per mantenersi in carica, sarebbe sempre più difficile in futuro invocare la formazione di un fronte repubblicano contro l’estrema destra “normalizzata”. Questa legittimazione rischierebbe di erodere una delle principali argomentazioni dei partiti tradizionali, ossia la necessità di unirsi contro il pericolo rappresentato dal RN.
Dall’altra parte, la sinistra, sotto la guida di Jean-Luc Mélenchon, potrebbe diventare l’unica forza di opposizione significativa, posizionandosi come baluardo contro la destra, sia moderata che estrema. Tuttavia, questa dinamica comporta dei rischi. La radicalizzazione della sinistra potrebbe allontanare una parte dell’elettorato più moderato, che non si riconosce nelle posizioni estreme di Mélenchon e che potrebbe invece orientarsi verso altre forze politiche o, peggio, verso l’astensionismo. In un contesto politico sempre più polarizzato, Mélenchon potrebbe perdere voti tra coloro che cercano soluzioni più equilibrate o pragmatismo, accentuando la frammentazione dell’elettorato progressista. Qualche mese fa la percezione del leader di LFI nei sondaggi era quella di essere pericoloso quanto, se non più di, Marine Le Pen per molti elettori francesi.
E quali sarebbero le conseguenze per Macron in questo scenario? La decisione di sciogliere il parlamento è stata motivata dall’impossibilità di fare affidamento sull’impegno di LR a non sostenere mozioni di censura. Tuttavia, oggi Macron potrebbe trovarsi in una situazione altrettanto delicata (e peggiore): una nuova maggioranza che incorpora elementi del centrodestra e che, per sopravvivere, dipende dal tacito sostegno o dalla benevola astensione a mozioni di censura di Marine Le Pen. Da un punto di vista strategico, questa non sembra essere stata una mossa vincente.
Il rischio è che, legittimando indirettamente il Rassemblement National, Macron eroda ulteriormente la tradizionale barriera politica tra destra moderata e destra estrema. Questo potrebbe indebolire la sua posizione e aprire la strada a un futuro in cui Le Pen diventi un interlocutore inevitabile del governo, normalizzando l’estrema destra all’interno del sistema politico. La dipendenza dal mancato sostegno del RN potrebbe far percepire Macron non più come un presidente capace di governare in autonomia, ma come un leader privo di una maggioranza stabile e costretto a scendere a compromessi, anche se indiretti, con forze politiche che fino a poco tempo fa erano considerate “intoccabili” nell’arena istituzionale.
Questa debolezza politica sembra essere confermata anche dalle recenti mosse dell’ex primo ministro di Macron, Édouard Philippe, che ha già annunciato la sua candidatura per le presidenziali del 2027. L’anticipo con cui Philippe si è posto come alternativa suggerisce che vi sia una percezione crescente della vulnerabilità politica di Macron e del suo movimento. Una mossa quella del leader di Horizons, partito della coalizione macroniana, che può essere interpretata come un segnale di sfiducia verso la capacità di Macron di mantenere il controllo della scena politica fino al termine del suo mandato, o quantomeno come un’indicazione del fatto che la sua eredità politica potrebbe essere a rischio di dissoluzione, qualora il governo da lui indicato continuasse a navigare in acque instabili.
Aggiungiamo che la fase interlocutoria tra il presidente e i partiti non ha portato alla creazione di una nuova democrazia parlamentare, come molti si attendevano o forse, meglio, speravano. La mancanza di accordi concreti e il persistere della frammentazione politica hanno impedito una vera e propria stabilizzazione del governo. Il tentativo di evitare una crisi di governo attraverso compromessi con forze politiche eterogenee si è rivelato inefficace, lasciando il paese in una situazione di incertezza politica.
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