Lo studio di Gianni De Luigi, alla Giudecca, è uno spazio d’altri tempi. Libri e oggetti dal pavimento al soffitto, una specie di covo d’artista. Il sogno di casa ideale. Ci accomodiamo, appoggia delle carte su altre carte su una scrivania, io recupero, con fatica, una penna dalla borsa e cominciamo la nostra chiacchierata. Sono eccitata, un po’ intimidita, ma serena, perché so che quello che sto per fare è un tuffo nel passato, attraverso gli occhi di qualcuno che per tutta la vita ha raccontato storie.
Lei proviene da una famiglia di artisti, suo padre era un pittore, come ha scelto la recitazione?
L’origine è complessa, ma in realtà è stata una scelta quasi più d’istinto. A sedici anni ho conosciuto Giovanni Poli, mentre recitavo delle poesie russe per un amico di mio fratello. Poli mi disse che ero nato per fare l’attore e ho cominciato ad amare questo mestiere, era coinvolgente, in un’epoca in cui Ca’ Foscari era considerata una delle università più importanti. Ho cominciato tra i giovani, con Poli ho fatto molta commedia dell’arte e ho girato il mondo. È molto importante girare il mondo quando si è giovani. La mia famiglia, tutti pittori, mio padre insegnante alla facoltà di architettura desiderava che seguissi quella strada. Dopo la maturità al liceo artistico, sono andato contro mio padre trasferendomi a Milano per frequentare la scuola del Piccolo Teatro. Nel frattempo Poli aprì un teatro, sempre a Milano, comincio quindi un doppio lavoro che diventano la mia scuola. Una storia infinita… Perché poi passo dal teatro, al cinema, alla televisione facendo i primi serial come L’ultimo aereo per Venezia. Faccio ancora film, anche con giovani registi, poi ogni tanto qualcuno mi propone western e io li faccio con una gioia infinita (sorride ndr).
Lei ha fatto sia cinema sia teatro, si può amare di più l’uno rispetto all’altro?Amare è una grande parola, però quando tornavo a Venezia, perché per un veneziano è fondamentale tornare per avere il punto di riferimento, incontrai Feliciano Benvenuti, mentre avevo partecipato con Poli alla costruzione dell’Avogaria, poiché era fondamentale dal mio punto di vista riproporre il teatro universitario di Ca’ Foscari. Lo feci con un progetto intitolato Il mestiere dell’attore in teatro, cinema e televisione, nel tentativo di insegnare ai ragazzi le differenze nella recitazione teatrale, cinematografica e televisiva. Avendo lavorato in tutti questi ambiti, riuscii far venire i grandi registi a comunicare con i giovani, creando un confronto tra docenti e i ragazzi. Presentavo persone con ruoli e narrative diverse, ma fondamentali, come Mario Baratto o Valerio Zurlini, che valevano ugualmente nonostante qualcuno venisse dal teatro, altri dal cinema. Feci venire persino Carmelo Bene al Goldoni. Il confronto deve essere diretto con il grande artista, ma i ragazzi dovevano capire cosa voleva dire cantare, suonare, recitare, ballare, tutte le discipline dovevano essere insegnate. Si doveva anche sperimentare il mezzo, dando in mano agli studenti i primi videotape, che è mezzo diverso dal cinema. I ragazzi dovevano riconoscere e sperimentare tutto su di sè, agendo e studiando ma soprattutto diventato ottimi spettatori. Lo spettatore deve esprimersi in teatro, deve fischiare e non commentare negativamente con il compagno sulla via di casa. L’applauso e il consenso costante è influenzato dai social. Quando suonava Bob Dylan il pubblico contestava, oggi si applaude sempre durante qualunque spettacolo o concerto. Gian Piero Brunetta, nel suo libro sulla Mostra del Cinema, attacca le edizioni della contestazione, quando invece in quegli anni venivano tutti i più grandi, da Truffaut a Bunuel. Oggi la massa che inonda, il Lido rende la Mostra qualcosa di lontano da un festival dell’arte. Durate le edizioni non competitive si contestava la decisione di dare i premi, oggi invece si danno premi a chiunque.
Quando lavorai con Fassbinder e il film venne a Venezia, tutti s’inchinavano al suo passaggio, ora avviene con Brad Pitt e Lady Gaga. Questa massa che inneggia è in contrasto con il dissenso urlato di Gian Maria Volontè alla Mostra. I ragazzi dipendenti da questi miti mi fanno pena, è un modo come un altro per rendere i cervelli piatti che sviano lo sguardo da quello che è invece importante, dalla politica. Scusi lo sfogo… (aggiunge con sguardo sconsolato ndr).
Queste forme di adorazione però, per la mia esperienza, sono un ottimo modo per attirare l’attenzione dei più giovani. Che una sera trascinano gli amici sul tappeto rosso a vedere Brad Pitt e che grazie a quell’atmosfera, magari, s’innamorano del cinema diventando un giorno registi o studiosi o appassionati. Capita raramente, ma capita e questo è positivo.
Sarei d’accordo, ma Brad Pitt, attore straordinario, è molto diverso da Henry Fonda, che all’epoca era altrettanto circondato da bambini. Oggi questi bambini, nella folla adorante, si trovano in mezzo a persone molto più grandi di loro, che hanno una visione distorta di Brad Pitt. Lo vedono esclusivamente come superstar senza andare a vedere i suoi film. Chi lo fa, ha deciso di andare più a fondo grazie al desiderio di conoscenza. Pensi a Fellini sul tappeto rosso… Baratta mi chiese consiglio sul come gestire questi momenti pre-proiezioni. Gli risposi che ci sarebbe dovuta essere una sorta di anteprima-spettacolo, che riprendesse quello che avremmo visto nel film. Per esempio il doppiatore avrebbe letto un pezzo del film al pubblico.
In realtà ci hanno provato negli ultimi anni della presidenza Baratta, soprattutto con i film di chiusura, portando davanti al pubblico dei pony nel caso de I magnifici 7 o una DeLorean nel caso di Driven...
Sono cose che raccontate da lei mi divertono, vissute fanno… ridere, anche se si trasformano in aneddoti. La mia idea era quella di rendere partecipe il pubblico di quello che sarebbe successo in Sala Grande.
Parlando ci perdiamo nei discorsi e torniamo al concetto di attore come conoscitore di tutte le arti recitative che vanno adattate al mezzo
Quando ero a Roma, insieme a Pasolini o Morante o Moravia, vivevo in un mondo che non avrebbe mai accettato di prostituirsi artisticamente per uno stipendio da capogiro. Quando mi proposero Beautiful risposi di no, scatenando uno scandalo familiare. Oggi è qualcosa di extraterrestre per un giovane attore. Con Il mestiere dell’attore in teatro, cinema e televisione volevo preparare gli attori in tutti i sensi. I tempi cinematografici sono diversi da quelli televisivi. In C’era una volta ad Hollywood di Tarantino, c’è DiCaprio che, tra un ciak e l’altro, parla con una bambina intenta a leggere. In quella scena c’è tutto il lavoro dell’attore cinematografico, che nei tempi morti, se non ha un’alternativa, è di una noia mortale (ancora con uno sguardo sconsolato ndr). Fellini al lavoro era noioso. Comunque la cosa fondamentale è che in un luogo come Biennale danza, musica e teatro comunichino, poiché ognuna di queste sezioni usa le altre. I direttori si dovrebbero costantemente incontrare e parlare dei propri progetti, per comunicare ed aprire ad uno scambio di artisti. È durato poco…
Cosa pensa quindi di Willem Dafoe come prossimo direttore artistico di Biennale Teatro? Una personalità divenuta famosa in tutto il mondo non grazie al teatro, ma che può attirare anche molti giovani in quanto “divo”.
Sono molto d’accordo, conoscendo la sua formazione. Io stesso ho lavorato con il Living Theatre, che era il teatro del drogati (questa volta sono io a sorridere ndr). Il rapporto che ha avuto con Beck e Malina lo hanno reso una persona molto preparata. Per me è il candidato perfetto. Anche se in realtà è conosciuto fino a un certo punto. In pochi se lo ricordano per Platoon, forse qualcuno lo riconosce per l’uomo ragno, che comunque non è lo Spider-man dal successo planetario degli ultimi anni, ma quelli di Sam Raimi.
Beh, però Dafoe è tornato nei panni di Goblin proprio nell’ultimo capitolo della trilogia Marvel conclusasi con No way home. Inoltre è un attore estremamente prolifico che spazia tra grandi blockbuster e piccoli progetti d’autore.
Ma sì, perché un attore dovrebbe dire di accettare anche progetti per soldi, non come ho fatto io, eccetto per L’ultimo aereo per Venezia dove pagavano bene (sorride ndr). Il teatro è la sua nascita, ha lavorato anche con Romeo Castellucci, recentemente. Anche io posso dire di avere dentro entrambi, in più ho esplorato il doppiaggio ma non mi piaceva granché. Era un procedimento molto difficile e ripetitivo.
Lei ha fondato l’Istituto della Commedia dell’Arte Internazionale. In un mondo iperperformativo come il nostro, dove, soprattutto i giovani sembrano aver perso la capacità di farsi una bella risata, si può dire che più che mai c’è bisogno di Commedia dell’arte nei nostri teatri?
Amo studiare il tipo di comunicazione che i giovani stanno ricevendo oggi. I comici sulle tv generaliste sono affini a quelli come Claudio Bisio, una volta c’erano grandi come Gassman. Nel mio Istituto ho fatto venire Dario Fo. Lui è, per me, un punto di riferimento e un educatore nato. Educava nel raccontare la commedia dell’arte. Per educare alla commedia dell’arte e per far ridere bisogna avere lo spirito dei Simpson. Nella commedia dell’arte, nei personaggi, ci sono tutte le maschere e la centralità della storia d’amore, ma in modo molto veloce. Decisi, quindi, di fare un’indagine nelle scuole (dalla materna all’università) dove scoprii che la maggior parte di questi ragazzi aveva dai quattro ai sei televisori in casa, sparsi ovunque. Entravo dentro le loro classi facendo riferimenti tra i Simpson e la Commedia dell’arte, cercando ciò che loro amano. È ancora così, solo che la tv è stata sostituita dal telefono o dal computer o da tutti questi assieme. Ho chiesto qual era la trasmissione che più colpiva. Tutti i ragazzini indicavano I Simpson, anche chi ammetteva che la trasmissione era proibita in casa. Per chi li vedeva erano un mito, per chi non li vedeva erano un desiderio. Omer è Arlecchino, che ha sempre fame; Pantalone è il suo capo, il loro rapporto è di servo-padrone ma ogni tanto il protagonista è ribelle, nonostante sia impaurito. È la meccanica della commedia dell’arte che coinvolge i ragazzi, che ridono. In più ci sono infinite citazioni all’arte colta come Warhol, ma anche alla politica. Proprio per questo ad alcuni genitori sembra un programma pericoloso, perché parla di politica ai bambini. Quando gli adulti non riconoscono neanche più i vari membri del governo, la Meloni, forse, grazie alla sua aggressività. La commedia dell’arte, quindi, non va attualizzata, con Arlecchino tatuato. Deve essere un mondo fantastico dove si racconta l’amore, la gelosia, la fame, desiderio della cosa negata.
Quindi la commedia dell’arte non morirà mai?
No, perché ha la struttura dell’uomo. L’attore sarà l’ultima testimonianza di un’arte, non l’AI, perché è di carne. Quando Artaud parla in Teatro e il suo doppio, io ho lavorato sull’attore e il suo doppio, perchè l’attore ha sempre davanti a sè un doppio che deve interpretare.
Abbiamo nominato grandi personalità del teatro e del cinema. Ha collaborato con Carlson, con il Living Theatre, con Strehler, ma non le chiederò com’è stato lavorare con loro. Tiro fuori il mio lato da fan e le chiedo, invece, di Lucio Fulci e Giuliano Gemma, con cui ha collaborato per Sella d’argento. Chi non ha vissuto quel periodo si appassiona facilmente degli spaghetti western, proprio perchè vien da chiedersi, come avete fatto a realizzarli? Considerando i mezzi, le produzioni multilingue, la Spagna ecc…
(A questo punto gli occhi gli si illuminano di una luce che non avevo visto in precedenza, ndr) Per tutti i ragazzi maschi era un mito interpretare il cowboy. Andavo ai cineforum per vedere Gregory Peck, gli indiani e John Ford. Era il mio sogno, forse, per rispondere alla sua prima domanda, ho fatto l’attore perché anche io dovevo fare i western. Farli era straordinario. Mi hanno sempre fatto fare il cattivo, non capivo perché, guardandomi non avevo la faccia da cattivo (sorrido per nascondere che in realtà non sono molto d’accordo, la faccia per fare il cattivo l’aveva eccome! ndr), forse era per via di Klaus Kinski, effettivamente lo ricordavo anche caratterialmente. Era divertentissimo perché l’attore con cui dovevo girare la scena parlava solo inglese, io parlavo solo italiano, quindi io dovevo studiare l’inglese e lui l’italiano, quantomeno per intuire quello che diceva l’altro. Tutto questo in Spagna. In Sella d’argento mi ritrovo in macchina con l’interprete di Serpente (Geoffrey Lewis, ndr), americano, in questo viaggio lungo in mezzo all’Almeria. Lui mi parlava in inglese e io capivo un decimo, ho sempre odiato le lingue anglosassoni forse per il doppiaggio (ride ndr), ma discutevamo di cinema e teatro perchè aveva un modo di parlare che faceva suonare la sua lingua in modo diverso. Ogni tanto sul set arrivavano i gitani che ballavano il flamenco, creando una diversità di momenti, straordinaria. Quando tornavamo a Roma per fare le scene in interni, io andavo dai miei amici, autori e miti della letteratura, e io non dicevo cosa facevo, evitavo l’argomento facendo finta di aspettare una qualche risposta da un qualche regista. In realtà, forse, era una distinzione sbagliata. Poi quando vedevo Leone, impazzivo. Pensavo a come senza Morricone, Leone non sarebbe potuto esistere. Volontè era un altro membro del nostro giro, anche se in realtà viveva con un’altra compagnia. Andavamo a mangiare spinaci e stracchino, molto western (ride, ndr). Partecipare a questi film era divertente, poi Gemma era di una bontà infinita.
Avevano un’aura magica, quindi?
Sì, certo, era magico! Quando tornavamo dal deserto con i tramonti all’orizzonte. Poi in tutti i film nasceva un rapporto sentimentale con il cavallo (scoppio a ridere nell’attesa di aneddoti che non tardano ad arrivare, ndr). La mia cavalla preferita era Zenna, che compare ne I leoni di Pietroburgo. Siamo andati a girare gli esterni in Almeria, perchè pensavamo facesse meno freddo rispetto alla Russia, in realtà le temperature erano comunque sotto lo zero. Una volta dovevamo fare un duello in stile giostra medievale su un lago ghiacciato, io avevo questa sciabola e l’attore americano che faceva il buono (lui faceva ancora il cattivo, ndr) doveva cadere. Partiamo, Zenna scivola, ma invece di cadere sul fianco e farmi male, allarga le zampe (mima con un gesto ndr) e io mi sono ritrovato in piedi accanto a lei. Ecco per me questa è magia. Era una campionessa dei dressage, quindi si muoveva anche di fianco. Un giorno la salvo, sempre con la sciabola, da “uno stupro” di un altro cavallo, uno stallone dell’amata rossa, qualche istante dopo è venuta a “ringraziarmi” e io mi sono commosso. Immagina quante cose succedono nel cinema, sono aneddoti continui, come quando fermavamo la produzione per vedere i gitani ballare. Oggi non sarebbe più possibile, si pensa solo ai soldi. La ringrazio per questa domanda (sorride, sempre con quella luce dell’inizio, ndr).
Nel 2021 ha scritto un articolo, per ytali, sulla mostra della Biennale Muse Inquiete. Oggi attraverso i social e i mille schermi che ci addobbano casa, siamo soggetti in modo costante a stimoli nuovi. L’artista ricerca e ha ancora bisogno della Musa?
Lo dice uno che la cerca ancora, sempre. Sì serve. La presenza del corpo e dei sensi aiuta a trovare l’arte. Oggi l’arte insegue il mezzo, in passato era il contrario. L’invocazione rimane poiché finché rimane il mito. Le muse non sono i mezzi come il computer o la AI, poiché quest’ultima è fatta di schemi quando invece l’artista fisico cambia idea quando vuole. L’uomo non è insostituibile, ce lo insegna il finale di 2001: Odissea nello spazio. L’attore è l’ultimo antagonista dell’intelligenza artificiale. Lo stesso Artaud ce l’insegna. La difficoltà è sostituire il corpo. Brad Pitt come nuovo divo serve perché è un mito di carne, ma in pochi lo vedono in questo modo. La presenza fisica è importante ed è per questo che il teatro rimane. Poi oggi il teatro vuole imitare la televisione attraverso i talent show, ma è molto diverso da quello che fa il Cirque du soleil che fa fare teatro col corpo. La musa resta finché c’è il corpo, quando poi questo verrà fatto da un algoritmo, staremo a vedere. Il cinema ci insegna che il momento arriverà, però bisogna difendere chi ancora non è diventato un Replicante. Dobbiamo dare coscienza di questo, bisogna dare capacità critica con una coscienza del proprio essere. Quando lavoravo con il Living Theatre entravamo sul palco strafatti (scoppio a ridere un’altra volta ndr) ma questo mi ha dato la volontà di uscire dalla droga. Le droghe di oggi sono fatte per non riuscire a smettere, io stesso vorrei realizzare uno spettacolo sugli effetti del Fentanyl con i danzatori. Mi interessa questo concetto di restare sempre in equilibrio senza mai cadere. Ma il punto è perchè vogliamo estraniarci? Anche i telefoni lo fanno, ci allontanano dal piacere di essere spettatori.
La località degli Alberoni sembra essere un luogo importante per lei, proprio su ytali in occasione della proiezione di Morte a Venezia sulla spiaggia dei Bagni, ha definito quel luogo “l’unica spiaggia a rimanere com’era cinquant’anni fa. Il Lido ha perso la sua identità”. Secondo lei è ancora possibile far tornare l’isola allo sfarzo di un tempo? Ha senso provarci?Quest’anno abbiamo continuato con la nostra iniziativa del cinema in spiaggia, proiettando Pirati dei Caraibi e vorrei ripetere l’evento anche l’anno prossimo con una serie di film anche per i bambini, magari con Alla ricerca di Nemo che coinvolge adulti e ragazzi. Volevo che si vedesse l’orizzonte del mare, la luce e la spiaggia. Non c’è niente di più adatto di un film come Morte a Venezia, girato sulla spiaggia degli Alberoni. M’interessa però, anche, portare film per i bambini nelle loro aree di gioco. In molti crollavano dal sonno, ma lottavano con tutte le loro forze per restare svegli. Questo nega la Mostra del cinema poiché non c’è un rapporto tra l’arte che viene proiettata e il luogo dove viene proiettata. Il Lidi potrebbe essere la Florida o Cannes, tanto il valore sta nei personaggi. Chiudere l’Arena è stato un grande passo falso, perchè ti coinvolgeva completamente, tutto il corpo. Quando si arrivava col motoscafo sentivi la voce del cinema. Mio nonno Giovanni Quarti fu l’uomo che diede al Des Bains quell’arredamento (mi mostra, con un certo orgoglio, un piccolo libriccino realizzato alla morte di questi, in cui viene ricordato come “pioniere in un’opera che diede impulso ad una nuova vita balneare” ndr). Ogni volta che lo ricordo mi rendi conto di come la memoria della parola si è confusa; quando andavo io al Des Bains c’erano ancora i valletti in bianco che aprivano le porte a mia madre, accompagnandola sino in spiaggia. Ricordo la Wertmüller e Sergio Leone seduti a tavola nel grande salone del ristorante. Io sono viziato dai ricordi, ma mio nonno voleva dare quello che è stato perso, oggi. Il fascismo, realizzando il casinò aveva fatto qualcosa di importante architettonicamente, qualche anno fa ci hanno fatto una voragine, poi chiusa. Sventrare il Des Bains, buttando via la storia che non è in contrasto con i nostri mezzi moderni. Qui alla Giudecca stanno rinnovando il Bauer Palladio, le grù lavorano tutto il giorno per realizzare spa e piscine, non sono questi i tempi moderni, infatti la città muore. Bisognava lasciare gli alberghi storici com’erano e costruire cose nuove rendendo le architetture del primo novecento delle location turistiche. Come quando tutti vanno a vedere dov’è stato girato Il gladiatore. Il Des Bains era entrare in un altro momento, come si fa ora con la realtà virtuale.
Ma, allora, se il Des Bains non fosse mai stato sventrato, avesse mantenuto la sua struttura, e fosse riaperto, non sarebbe un’attrazione ancora più allettante?
Certo! Magari dando forza alla sua storia nel cinema. Non c’è però un’apertura alla musa, ogni luogo deve avere uno scopo preciso. Mia zia possedeva la Casa dei Tre oci, quando mio zio la vendette, io andai alla sovrintendenza a mettere i vincoli (sorride con una certa soddisfazione, ndr) per interni e esterni. Gli spazi possono essere riadattati per nuovi scopi ma non serve distruggere l’arte. Ho vissuto quei luoghi, fiabeschi e coinvolgenti, come i western. Quando ho lavorato con Fassbinder restammo bloccati in questo albergo antico di Sorrento e fu magnifico. Il turista va educato ed è semplice educarlo. Basta andare alla Fenice per vedere i turisti in infradito, ma al teatro non interessa come il pubblico si veste, basta che paghi. Alberghi che, invece, sono rimasti com’erano, come l’Excelsior o lo stesso Palazzo del Casinò, devono capire che non sono intoccabili, ma che devono essere quello che sono. Io ricordo ancora il bar dell’Excelsior, in stile liberty, sempre molto western, di mogano e marmo. Una sera incontro Annamaria Pietrangeli, con cui ho avuto una breve storia. Per me incontrala lì, in quell’ambiente e cornice era come vivere in un film. La magia torna continuamente perchè come attori si è operai di magia, e a volte si confonde con la realtà.
Chiudiamo l’intervista leggendo insieme il necrologio del nonno, una delle personalità che hanno contribuito a creare quell’immaginario magico del Lido che vediamo anche in Morte a Venezia. Poi mi svela il segreto nascosto dietro ai suoi celebri completi in lino bianco, che lo rendono estremamente riconoscibile e affascinante: “odio gli uomini della mia età che portano i pantaloni corti, devono avere tutti l’aria che passa, ma sono brutti da vedere. Vede, io mi vesto in lino. Molti pensano che sia una citazione di Visconti, ma non è così. In realtà cito Il silenzio degli innocenti. Ricorda la scena finale di Hannibal Lecter sulla spiaggia? È un’immagine che mi è sempre rimasta impressa”. Certo che la ricordo, e come dimenticarla. Quest’ultima rivelazione mi mette ancora più di buon umore, di quanto non fossi già, dopo aver ascoltato tutti quei racconti di un periodo che ammiro ma che ho assaporato solo da lontano, solo attraverso uno schermo. Mi accompagna all’imbarcadero, ci salutiamo e lascio la Giudecca con il cuore pieno di amore per il cinema e il teatro, per il Living Theatre e i western, per lo stracchino e spinaci e Zenna la cavalla. Anche questa intervista sembra un po’ frutto di una qualche magia, o di un luogo quasi mistico come la Giudecca.
L’articolo Gianni De Luigi, una vita spettacolare proviene da ytali..