Con l’offensiva ucraina in territorio russo, tuttora in corso, si fa di nuovo un gran parlare di armi di difesa e di armi di offesa. Non è una questione di lana caprina da essere liquidata con roboanti richiami all’uso della forza, senza se e senza ma, tutta la forza necessaria per ottenere i risultati voluti che — non dimentichiamolo — sono la liberazione del territorio ucraino e il riconoscimento della piena sovranità dell’Ucraina. Propositi nobili e giusti, ma come sempre in politica internazionale si tratta di valutare l’adeguatezza dei mezzi agli obbiettivi che si vogliono raggiungere.
Fin dall’inizio della guerra, cioè dell’invasione russa, gli Stati Uniti si sono mossi con determinazione nell’indicare gli obbiettivi ma con moderazione nella scelta dei mezzi da impiegare. Inizialmente, quando si pensava che “l’operazione militare speciale” russa sarebbe riuscita in breve tempo, le armi che dovevano essere fornite agli ucraini erano armi leggere (fucili, mortai, pistole) per organizzare la resistenza contro il nuovo regime che si sarebbe instaurato.
Ma poi, dopo gli insperati successi dei soldati ucraini, che con lanciarazzi a spalla Javelin erano riusciti a fermare l’avanzata della colonna di carri armati russi e obbligarli alla ritirata, tra gli esperti militari dell’amministrazione americana si incominciò a pensare che la sconfitta russa dopotutto era possibile. Iniziò da parte americana (e in misura minore europea) la fornitura di una cornucopia di armamenti sempre più complessi, sofisticati e letali, come anche la collaborazione tra l’intelligence americana e quella ucraina per indicare gli obbiettivi da colpire, che permise nell’autunno del 2022 la liberazione di vasti territori nel nordest del paese facendo sperare che l’ulteriore fornitura di armamenti — incessantemente richiesti dal presidente Zelensky — avrebbe portato alla vittoria finale.
In tutto questo periodo tuttavia gli Stati Uniti hanno sempre mantenuto la distinzione tra armi di difesa e armi di offesa: l’obbiettivo era di liberare il suolo dell’Ucraina, non di invadere o sconfiggere la Russia sul proprio. Anche quando incominciarono a fornire mezzi che difficilmente potevano considerarsi difensivi, come i carri armati Abrams o i sistemi missilistici Himars, gli Stati Uniti vincolarono il loro uso all’interno del territorio ucraino e la stessa limitazione è stata posta all’uso di caccia F16 che, dopo molte esitazioni, gli Stati Uniti hanno incominciato a consegnare all’aviazione ucraina. Quando gli ucraini non hanno rispettato questi vincoli o hanno forzato la mano con operazioni segrete gli Stati Uniti hanno fatto trapelare il loro disappunto e ribadito che qualunque armamento veniva fornito a solo scopo difensivo.
A cosa si deve questa apparentemente speciosa presa di posizione del governo americano? (Gli ucraini non hanno certo torto nel sostenere che se vuoi difenderti da un aggressore devi colpire i luoghi da dove parte: i depositi di munizioni, gli aeroporti militari, i centri logistici in Russia.)Il timore, è stato detto, è l’allargamento del conflitto: non provocare la Russia colpendo bersagli sul suo territorio così che essa non sia indotta a rispondere con attacchi ancora più feroci colpendo gli alleati della Nato al confine con l’Ucraina, soprattutto la Polonia e i Paesi baltici. Dall’altra parte si risponde che è un timore infondato perché se la Russia attaccasse un paese della Nato, in base all’articolo 5 del Trattato tutti gli stati membri sarebbero obbligati ad intervenire in sua difesa. Poiché la Russia questo lo sa bene e sa anche che ha molto più da perdere che da guadagnare da una simile eventualità, si guarderà bene dall’attaccare un paese della Nato, nel qual caso da convenzionale il conflitto potrebbe scivolare presto in una guerra nucleare devastante.
Ma c’è un’altra ragione che spiega la prudenza americana e il suo agire a sostegno dell’Ucraina in modo incrementale cercando di non arrivare ad un catastrofico punto di rottura senza ritorno. La ragione sta nel diritto internazionale e più specificamente nel diritto di guerra. La cosiddetta Legge della guerra si divide in due parti, secondo l’antica classificazione del giurista olandese Grozio: il diritto di fare la guerra (jus ad bellum) e il diritto nel fare la guerra (jus in bello). La seconda parte è quella che è stata codificata nelle Convenzioni di Ginevra del 1949 (aggiornate poi nel 1977) e riguarda il trattamento dei prigionieri di guerra, la protezione dei civili, il divieto di colpire obbiettivi non militari come scuole e ospedali, ecc. tutte norme scritte e proclamate ma che gli stati hanno continuato a violare nelle loro guerre anche in epoca recente e, naturalmente, nelle attuali guerre di Ucraina e di Gaza.
Ma non è questo che preoccupa gli Stati Uniti, che pure in Vietnam, in Afghanistan, in Iraq e altrove, si sono resi responsabili di gravi violazioni dello jus in bello. Ciò che preoccupa e in parte spiega la reticenza nell’invio di armi di offesa agli ucraini è la prima parte, lo jus ad bellum. Questo è sostanzialmente codificato in varie convenzioni firmate all’Aia nel 1907 e riguardano la dichiarazione di guerra (III Convenzione), la dichiarazione di neutralità o belligeranza, i divieti e gli obblighi in capo ai contendenti e ai neutrali (V Convenzione). Naturalmente all’epoca non esisteva il divieto, oggi sancito nella Carta delle Nazioni Unite, di fare la guerra se non a scopo di difesa e quindi le convenzioni dell’Aia non fanno nessuna distinzione tra aggressore e aggredito, tra guerra giusta e guerra ingiusta, lasciando agli stati sovrani (e eventualmente agli storici futuri) il giudizio sul loro operato.
Le convenzioni fissano il principio che una guerra debba comunque essere dichiarata, perché è questo — il fatto che sia un’azione di forza da parte di uno stato — che la rende “legittima” cioè diversa da un atto di pirateria. In verità dopo la seconda guerra mondiale ben poche guerre sono state dichiarate, ma lo spostamento di truppe oltre i propri confinicostituisce di per sé una dichiarazione di guerra e legittima la risposta difensiva. Ma, ancora più importante, le convenzioni obbligano tutti gli stati, confinanti o meno, a dichiarare se sono belligeranti, e da che parte, ovvero neutrali. Nel primo caso entrano a pieno titolo nel conflitto. Nel secondo lo status di neutralità dà loro diritti e doveri che essi e i belligeranti devono rispettare.
Uno stato neutrale non può essere invaso o attaccato, non gli si può imporre il blocco navale né colpire le sue navi civili o militari. Al contempo lo stato neutrale ha l’obbligo di non aiutare nello sforzo bellico l’uno o l’altro contendente, non può fornire armamenti, inviare volontari, consentire il passaggio o lo stazionamento di truppe belligeranti sul suo territorio. Deve in sostanza stare a guardare quello che succede affinché prevalga il più forte, cioè (secondo lo schema klausewitziano) chi ha maggiori risorse militari, di economia e di volontà di prevalere. Le convenzioni stabiliscono in sostanza che o si è belligeranti o si è neutrali, tertium non datur.
C’è una severa logica dietro a questa classificazione giuridica, per nulla astratta. È la consapevolezza che le guerre sono sempre esistite e, probabilmente, sempre esisteranno. Ma le guerre devono anche finire, o con la vittoria di una delle parti o con una trattativa. In assenza di un’autorità superiore che certifichi la bontà delle ragioni dei contendenti e sia in grado di intervenire per fermare la guerra (le Nazioni Unite potrebbero in linea di principio attraverso il Consiglio di sicurezza, ma questo è bloccato quasi sempre dal veto incrociato dei suoi membri permanenti), è giocoforza che la guerra si risolva in uno scontro di risorse materiali e umane oltre che di volontà dei due (o più) contendenti e durerà fino a quando le risorse dell’uno o dell’altro non siano esaurite.
E tuttavia se uno dei contendenti può fare affidamento su risorse non proprie, sia militari, sia economiche, è evidente che la guerra tende a durare indefinitamente. I suoi alleati –che però tecnicamente alleati non sono perché sono formalmente non belligeranti — possono rifornirlo di quanto ha bisogno per continuare a combattere, e il suo gruppo dirigente continuerà a farlo purché abbia assicurazioni che il sostegno dall’estero continui. Rimane la popolazione civile, ed è su di essa che a questo punto la guerra incrudelisce sempre di più poiché l’unico modo per prevalere da parte del più potente aggressore è quello di minare la volontà di resisteredella popolazione con continui attacchi e distruzioni. Dopodiché non vi sono che due possibilità: o si pone fine alla guerra (con una trattativa o con la vittoria di uno dei contendenti) o in campo entrano le forze armate degli “alleati”, che a questo punto diventano a pieno titolo belligeranti. E la guerra continua e si espande.
Nel corso di questi oltre due anni e mezzo di conflitto ucraino gli Stati Uniti e i paesi europei loro alleati hanno ripetutamente “violato” il principio di neutralità stabilito dalle convenzioni dell’Aia non rispettando gli obblighi che esse impongono ai non belligeranti. Lo hanno fatto con gradualità e, se vogliamo, con prudenza, muovendo prima una pedina e poi l’altra per vedere le reazioni dell’avversario. E tuttavia così facendo di fatto hanno contribuito al protrarsi della guerra che avrebbe dovuto risolversi già da tempo con un esito, certo non soddisfacente e sicuramente ingiusto, sulla base dei rapporti di forza dei belligeranti — ma quale guerra porta ad esiti giusti?
Con l’attacco dell’esercito Ucraino sul suolo russo siamo arrivati ad un altro punto di rottura: difficilmente gli “aiuti” forniti all’Ucraina potranno essere fatti passare per aiuti difensivi e quindi la eventuale reazione della Russia diventa sempre più pericolosa e imprevedibile.
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